#CROSSINGOVER
Appuntamento periodico online con la rubrica Crossingover, a cura di Alessandra Frosini. Un viaggio attorno all’idea di Museo nella sua forma ideale e concreta, per molti (troppi) ancora oggi considerato il luogo statico di conservazione della memoria mentre stiamo sempre di più imparando a riconoscerlo come luogo di produzione e ad accoglierne i suoi lati sempre più cangianti e necessariamente mutevoli.
Meschac Gaba. Museum of Contemporary African Art: un museo per mettere in discussione il Mondo.
di ALESSANDRA FROSINI
Un museo nomade, temporaneo e mutevole, che cresce una stanza per volta e che viaggia tra istituzioni: dal 1997, anno della sua “fondazione” presso il Rijksmuseum di Leida, il Museum of Contemporary African Art dell’artista beninese Meschac Gaba rappresenta un luogo fisico e concettuale che non soltanto si occupa di arte africana contemporanea, ma si interroga sulle distanze che esistono tra nord e sud del mondo.
In oltre 20 anni il museo di Gaba è stato allestito in numerose istituzioni culturali, dal Palais di Tokyo a Parigi, al Documenta 2002 di Kassel, al CAAM di Las Palmas, fino alla Tate Modern di Londra (che l’ha acquisito in blocco nel 2013), anche per mettere in luce come molte delle collezioni dei musei europei siano frutto di incursioni coloniali e denunciare così le spoliazioni subite dall’Africa, quelle di allora e quelle di oggi. E qui si aprirebbe una parentesi su una questione tutt’altro che risolta, quella della scelta della restituzione, adottata da alcuni musei in casi balzati agli onori della cronaca, con l’intento di dare giustizia, riparare e ripristinare un giusto equilibrio.
Qual è dunque l’influenza esercitata oggi dalla visione eurocentrica sulla concezione dell’arte africana contemporanea, in un mondo dell’arte dominato dall’estetica occidentale? Quali sono le modalità con cui queste culture vengono lette e mostrate nel museo? Il Museum of Contemporary African Art si pone uno degli obiettivi che dovrebbe avere ogni museo: combattere gli stereotipi e i pregiudizi e allo stesso tempo trovare la giusta distanza nel racconto della storia. Lo fa puntando sul rapporto complesso e sfaccettato che esiste tra contemporaneità africana e postcolonialismo e mettendone in luce le dinamiche anche attraverso un uso massivo del sarcasmo. È vero che lo fa non sempre trovando la giusta distanza, ma come in tutti i musei d’artista l’unicità della visione è predominante e la soggettività è elevata a principio fondante. Così prevalgono quelle tematiche legate alla ricerca artistica di Gaba fin dagli Anni ‘90, come la svalutazione monetaria e i nessi che la legano alla condizione socio-economica africana e le conseguenze che determina nella costruzione del concetto di valore artistico.
L’allestimento e il crescente formarsi di questo museo in progress assumono il valore di un ricerca di libertà, di una riflessione continua che mette in discussione il ruolo dell’istituzione museale contemporanea e privilegia la fruizione non solo dell’opera allestita ma dello spazio che la ospita come luogo di socialità, luogo in cui diventano labili i confini che dividono l’arte dalla vita di tutti i giorni. Le sale che negli anni si avvicendano sono la Draft Room, il Museum Shop, la Game Room, la Summer Collection, l’Architecture Room, il Museum Restaurant, la Library, il Salon, la Music Room, la Marriage Room, l’Humanist Space, l’Art and Religion Room: servizi accessori, spazi inusuali dove in primo piano non c’è l’osservazione di opere, ma azioni che creano esperienze e relazioni, in cui si vive l’“experience” tanto ricercata oggi. La grande assente è la sala espositiva, il vero fulcro dell’identità del museo, messo in discussione per capirne la natura e la funzione e il ruolo che assume per la nostra vita, il rapporto che abbiamo con esso. Così nell’Architecture Room si chiede al visitatore di costruire con mattoncini di legno il prototipo del proprio museo, un museo immaginario di cui sarebbe andato fiero André Malraux, un museo per mettere in discussione il mondo.
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