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CRITICALL | #CRITICALL

Con #critiCALL torniamo ad affilare le armi del dialogo intessuto dai fitti scambi della scorsa primavera/estate con #acasatuttibene e #volver.
Dopo artisti e galleristi, senza attribuire gerarchie o classifiche, la chiamata è rivolta ora ad una selezione di critici e curatori/curatrici che, in questo preciso momento storico, si trovano a dover rispondere con maggiore consapevolezza sul loro ruolo all’interno di quello che è da tutti percepito come un sistema ma che di fatto fa parte di una struttura ancora più complessa e articolata: il mondo della cultura in perenne moto e rivoluzione.
critiCALL è la nostra chiamata a chi vuole stare dentro a quel mondo sapendo che “chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile” (Lea Vergine, L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli, 2016).

Intervista a ILARIA BIGNOTTI di Francesca Di Giorgio

“Sono stata fortunata”. Inizia così il nostro dialogo con Ilaria Bignotti in cui si rincorre spesso quest’idea. E ci vuole fortuna certo, o come direbbero i greci la τύχη (tiche), la sorte, il destino che capita, inteso con quel significato neutro, né buono né cattivo, proprio del greco antico, che ci fa riflettere sul fatto che il valore sovraumano e irrazionale che diamo alla fortuna sia un’illusione che ce la fa scambiare, a volte, con la gratitudine per ciò che abbiamo saputo cogliere, con merito.
Dalla prima mostra, curata a 21 anni, fino al recentissimo progetto che “fa a pezzi Una stanza tutta per sé di Virginia Wolf” conosciamo meglio Ilaria Bignotti.

BADco, performance dell’azione del 1969 di Paolo Scheggi, Oplà-stick, passione secondo Paolo Scheggi al Museum of Contemporary Art, Zagabria, 2019, fotografia di Damir Žižić

Parliamo della tua formazione, degli incontri, di quelli che chiamiamo “buoni maestri” incrociati sul percorso.
Sono stata fortunata: ho amato e seguito maestri che mi hanno permesso di star loro vicina, di imparare il senso etico del lavoro, la metodologia della ricerca e il valore dell’accuratezza; mi hanno fatto respirare passione, coraggio, determinazione e mi hanno guidata e aiutata a tirar fuori ciò che sono. Credo profondamente nel metodo “della levatrice”, nella maieutica: ovvero nell’accompagnare l’artista a prendere consapevolezza di sé e del proprio linguaggio, della propria personalità e potenzialità: del ruolo che ha nel mondo dell’arte. Applico questo metodo a tutto il mio lavoro: di fatto, si tratta di un prendersi cura dell’altro – opera o archivio, artista o progetto – in modo pieno, rispettoso, accogliente, vedendo già in nuce il suo potenziale.
Si cresce assieme, si vive assieme, si cambia assieme.
Il curatore accompagna, non impone. Interpreta e traduce un messaggio, lo rende un percorso, lo apre all’altro.
I miei maestri mi hanno insegnato questo durante gli studi classici, nell’unica, maltrattata ora di storia dell’arte, ho incontrato due professori diversi: il primo, uno storico dell’arte raffinatissimo che oggi ricopre posizioni d’eccellenza, ci spiegò nella prima lezione, lo ricordo come fosse ieri, la differenza tra visione artistica occidentale e orientale con due linee e quattro “cerchiolini” tracciati a gessetto bianco sulla lavagna nera. Le sue lezioni le bevevo come un vino pregiato e adoravo la sua dialettica, il suo modo di accarezzare le opere, parlandone; quello venuto dopo di lui entrò citando Mallarmé e, come in una performance dadaista, tuonò in una fragorosa risata: si occupa di arte e anarchia e di esoterismo applicato all’arte.
Nessuno dei due si impose, ma entrambi mi fecero innamorare di loro ed entrare nel loro modo di vedere, e così mi diedero le chiavi di accesso per entrare in me: con il primo mi fermavo a parlare di Prassitele e Art Nouveau, con il secondo andavo a vedere performance di body art.

Paolo Scheggi. In Depth, Londra, Estorick Collection of Modern Italian Art, Londra, 2020

Poi, mi sono laureata in Conservazione dei Beni Culturali a Parma. Lì c’era Arturo Carlo Quintavalle, e i professori che erano stati, molti, i suoi allievi. Studiavamo l’arte come un linguaggio inserito nella società: se volevi capire la Pop Art italiana, dovevi sfogliare il settimanale “Epoca”; Aby Warburg e la Scuola di Vienna erano onnipresenti e si doveva fare i conti con la relatività di giudizio; la mia tesi fu rivolta al rapporto tra parole e immagini nell’architettura radicale fiorentina e al problema della scrittura architettonica dell’utopia negli anni di piombo. Due professoresse che furono delle madri attente e implacabili mi insegnarono il rigore e la messa in crisi, il senso sociale dell’arte e l’arte del dubitare sempre dei risultati ottenuti. Mi spinsero ad andare avanti.
Al Dottorato ho mantenuto viva la linea di tangenza tra arte e architettura: ho vinto un posto allo IUAV a Venezia. Avevo conosciuto Franca Scheggi Dall’Acqua – a 21 anni ho iniziato a lavorare come curatrice – ed ebbi la fortuna di curare una personale di Paolo Scheggi. Franca era stata la sua compagna di vita, la sua prima curatrice, la sua attenta conservatrice. Franca ecco, è stata la mia guida spirituale. Lo è tuttora, che non c’è più. Le avete dedicato alcuni approfondimenti anche sulla vostra rivista, e parlarne in due righe sarebbe riduttivo e doloroso. Poi ci sono loro, gli artisti. Mi insegnano ogni giorno a non avere limiti e a guardare ogni volta le cose in modo diverso. Il mio compito è di divulgare questo sguardo e di aiutarli – ogni tanto – a fare ordine nella loro testa.

Franca Scheggi Dall’Acqua all’inaugurazione della sede “Vogue Italia” a Milano, in Piazza Castello, nel 1966. A destra Paolo Scheggi e a sinistra Franco Sartori, zio di Franca e allora direttore di “Vogue Italia”

La scrittura, e con essa la centralità del linguaggio e della parola, fa pienamente parte del tuo modo di vedere ed interpretare l’arte tanto che, circa cinque anni fa, hai deciso di interrompere le collaborazioni continuative con diverse testate di settore. Una scelta apparentemente contraddittoria ma che, invece, manifesta un grande senso di responsabilità su ciò che può e deve essere oggi la critica…
Scrivere è il mio modo di pensare. Scrivo dappertutto e da sempre, credo sia la cosa che mi viene meglio. Mi interessa capire il meccanismo delle parole, le loro associazioni con le immagini; sono affascinata dalle potenzialità dell’etimologia e la scrittura deve essere un chiavistello capace di far vedere oltre a quel che vediamo.
Un po’ come il taglio di Lucio Fontana: le parole lette ci fanno oltrepassare la pagina e entrare in contatto con il profondo. La scrittura è caparbia, anche crudele: non perdona, non demorde, resiste. È frutto di convenzioni, compromessi: ha le sue regole e i suoi drammi. Scegliere di scrivere significa scegliere di mettere continuamente in crisi il visibile attraverso l’analisi e la sua traduzione in parola. Bisogna scegliere di farlo bene. E bisogna avere il coraggio di tacere piuttosto che esprimersi debolmente.
Le parole sono importanti, costruiscono le relazioni e le regole sociali. Sto lavorando a un progetto, da qualche mese ormai, con Patrizia Benedetta Fratus, che partendo da questi presupposti fa a pezzi “Una stanza tutta per sé” di Virginia Wolf: i vari versetti vengono inviati a chi vuole partecipare nel tradurli nella propria lingua madre – compresi i dialetti – e il risultato sarà una riscrittura potenzialmente infinita di un libro che una donna, coraggiosamente, eroicamente, scrisse per spezzare la proprietà maschile e patriarcale del linguaggio; ma qui entriamo in un altro enorme tema, che amo molto, quello dell’arte delle donne.

Patrizia Benedetta Fratus, VirginiaPerTutte, traduzione in italiano e in albanese. Courtesy l’artista

Il tuo nome viene spesso legato alle realtà di importanti archivi storici e contemporanei. Proprio sugli artisti attuali c’è ancora tanta strada da fare in questo senso. Quali sono secondo te gli aspetti centrali da affrontare e qual è la tua esperienza attraverso l’attività all’interno dell’Archivio Antonio Scaccabarozzi e del Francesca Pasquali Archive – FPA?
Gli archivi degli artisti sono dei luoghi fondamentali non solo per la conservazione e la tutela, ma per la continua riflessione e rimessa in gioco del patrimonio artistico e culturale. Un archivio di un artista storico, come per esempio quello di Antonio Scaccabarozzi, è uno scrigno di spunti di analisi e di lettura del presente attraverso le opere e i progetti conservati che l’artista realizzò nei decenni: due mostre di prossima apertura, alla Fondazione l’Arsenale di Iseo (marzo 2021) e alla Civica Raccolta del Disegno di Salò (estate 2021) mettono bene in luce la potenzialità dell’archivio d’artista storico nel suggerire direzioni espositive e tematiche.
Il lavoro su artisti attuali e la cui produzione è in fieri richiede un approccio diverso, dinamico e di continuo dialogo con l’artista: con Francesca Pasquali abbiamo posto delle basi importanti che oggi costituiscono un caso di studio su come impostare una archiviazione scientifica del lavoro di una artista-ricercatrice instancabile nei materiali plastici e industriali.
In generale, se posso dare due indicazioni qui, la prima è per gli artisti attuali di essere ordinati, molto ordinati: di pensare, da subito, a come catalogare per tipologie e cronologie le proprie opere, di tenere aggiornate le proprie biografie e di raccogliere metodicamente e in modo organizzato non solo le opere tout-court, ma anche vedute e descrizioni di mostre e installazioni, progetti e appunti. Insomma, di pensarsi come degli artisti che domani dovranno consegnare la propria opera alla storia.
Perché la storia la facciamo noi, con le nostre parole e le nostre immagini, i nostri incontri e le nostre azioni. Dobbiamo esserne consapevoli, responsabili, rispettosi. Se un artista non rispetta sé stesso e la propria opera, come potrà crederci davvero?

Antonio Scaccabarozzi, Grande acquerellato, 1989, installazione site-specific a Brema, Galerie Katrin Rabus. Courtesy Archivio Antonio Scaccabarozzi

Anche il progetto di Museo dedicato ad un tessuto made in Italy molto diffuso ma di cui, forse, in molti non conoscono tutta la storia si muove in questo senso…
È un progetto che nasce dall’idea di Francesca Centurione Scotto Boschieri, una raffinata letterata e ambasciatrice di Genova nel mondo, e di Ursula Casamonti che come è noto è anche direttrice di Tornabuoni Art Londra, di raccontare la storia del Jeans attraverso il coinvolgimento di artisti contemporanei, da me selezionati assieme a Laura Garbarino e Luciano Caprile. Genova ha dato i natali al famoso telo blu: da qui si è diffuso nel mondo. La storia di questo tessuto incrocia tutte le discipline e nelle sue trame ci sono miriadi di racconti e di iconografie da far conoscere. ArteJeans, questo il titolo del progetto nato contestualmente al più ampio progetto GenovaJeans a cura di Manuela Arata e che nella prima edizione nel 2020 ha raccolto ben 24 opere realizzate sul e con il jeans, da altrettanti artisti italiani, storici e attuali; quest’anno ha invitato altri artisti a lavorare in questa direzione. Le loro opere faranno parte di un Museo-Archivio del Jeans che avrà sede a Genova: ma stiamo lavorando, anche, per portare all’estero questi lavori: come accadde secoli fa al tessuto jeans.
Del resto, come sai, sono molto sensibile all’arte italiana e tra i miei obiettivi è proprio quello di mettere nella giusta evidenza il valore della ricerca visuale del nostro Paese all’estero. Non è una questione di nazionalismo o campanilismo, ma di voler contribuire a divulgare una cultura che è stata, e continua a essere, un crogiuolo straordinario di tradizione, qualità, saper fare, saper accogliere.

Veduta dello Studio e Atelier di Francesca Pasquali, Bologna. Fotografia di Fabio Mantovani. Courtesy Francesca Pasquali Archive

I tempi sono cambiati. Stiamo assistendo ad un vero cambio generazionale nell’ambito della critica e della curatela. Come giustamente mi hai fatto notare più volte in questa chiacchierata: ora “tocca a noi”. Mi vengono in mente i “Che fare?” di Mario Merz… Da dove (ri)partiamo?
Dobbiamo ripartire da noi. Abbiamo portato in processione il passato, ora lamentandoci del peso ingombrante dei nostri padri, ora disperdendo al vento le loro parole e opere. È tempo di fare gli adulti e di capire che tocca a noi, quarantenni e trentenni, assumere il ruolo di guide culturali del nostro Paese. Inutile lamentarsi, inutile scappare: la responsabilità dobbiamo assumercela tutta, e se vogliamo davvero esserci, possiamo farlo. Volere è potere. Me lo hanno insegnato proprio loro, i miei maestri. Ed è vero.

ITALIA Minimal, Tornabuoni Art, Parigi, 2020. Courtesy la Galleria

Ilaria Bignotti è Dottore di ricerca in Teorie e Storia delle Arti e Curatrice scientifica di Archivi d’Artista (Paolo Scheggi, Antonio Scaccabarozzi e Francesca Pasquali); curatrice indipendente e critica d’arte. Visiting Professor e Docente su incarico, svolge continuativa attività di consulenza per artisti contemporanei finalizzata alla catalogazione e divulgazione scientifiche della loro opera. Dal 2003 a oggi ha curato progetti espositivi lavorando con Musei, Istituzioni e Fondazioni in Italia e all’estero e ha pubblicato oltre un centinaio di libri, tra i quali cataloghi d’arte moderna e contemporanea, saggi e contributi in monografie scientifiche e cataloghi ragionati. www.ilariabignotti.com

Leggi anche le altre puntate di critiCALL: www.espoarte.net/tag/criticall/

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