MILANO | Schiavo Zoppelli Gallery | 12 aprile – 17 maggio 2021
intervista a SARA RAVELLI di Irene Biolchini
Lo scorso 12 aprile la Schiavo Zoppelli Gallery ha riaperto al pubblico con la prima personale di Sara Ravelli (Crema, 1993). Tamed Love, questo il titolo della mostra, si concentra sulle relazioni di inter-dipendenza e violenza nei rapporti tra esseri umani e regno animale, ribaltando continuamente il punto di vista di vittima e carnefice. Le installazioni dell’artista convivono qui con l’architettura della galleria, che lo scorso luglio ha presentato la nuova sede insieme al cambio di nome. Cambiamenti che non hanno però mutato la costante attenzione della galleria per gli artisti emergenti, come dimostrato del resto anche dalle coraggiose ed articolate installazioni di questa giovane artista che ci insegna a ridiscutere i rapporti di forza della nostra quotidianità.
La mostra è accompagnata dal volume Tamed Love, una serie di racconti a tema non fiction da te scritti nell’ultimo anno. Posso chiederti se la scrittura procedeva di pari passo con la creazione delle opere o l’ha preceduta? In che rapporto vedi le opere e i racconti?
Ho vissuto il momento della scrittura come un processo separato, antecedente a quello del lavoro scultoreo. Questa pratica è stata particolarmente utile per consolidare una serie di interessi, scrivendo ho capito che cosa mi interessava di più e che cosa meno, soprattutto nella prima fase di ricerca. Man mano che raccoglievo le storie, che avevano nature diverse – esperienze affettive, fatti di cronaca e fatti scientifici – la nuova narrazione formatasi diventava una raccolta di quelli che mi piace chiamare “casi studio”. Di conseguenza si sono create delle tensioni e delle immagini che ho poi utilizzato per produrre le opere, in modo tale che le sculture e i racconti si possano richiamare continuamente, “rimbalzando” tra loro, definendo un immaginario.
Alcuni racconti, in realtà, sono fiction, ho estremizzato certi aspetti per rendere le storie più drammatiche, è stata la parte più divertente.
In questo ciclo di opere la ricerca sui tessuti sembra avere un ruolo centrale. Quello che mi ha colpito è come tu abbia ribaltato la dimensione manuale privilegiando materiali di produzione industriale. Posso chiederti come è nata questa scelta?
I materiali di produzione industriale richiamano immaginari specifici che si rifanno continuamente alla massa. I tessuti e la loro collocazione formale conferiscono agli animali, come per i vestiti e le coperte, usati dagli umani, un’identità connotata. Soprattutto nei costumi per cavalli, volevo rimandare la forma e il materiale all’idea di “fai da te”, rimarcando l’azione del prendersi cura e dare importanza.
Il materiale industriale è decisamente presente ma, nello stesso modo, lo è anche la dimensione manuale. Ogni gruppo di sculture, come ogni struttura che le sostiene, sono interamente prodotte da me, non per una questione autoriale, ma perché mi piace capire da sola le proprietà dei materiali. Questo avviene attraverso un lento processo di comprensione e improvvisazione, in cui lo scopo abituale e gli stereotipi sociali della materia vengono ribaltati in modo che perdano la loro funzionalità e diventino evocativi.
Uno dei focus di mostra sembra essere il rapporto di potere che si stabilisce nella relazione uomo-animale, ma in generale sembra che la violenza sia uno strumento per indagare anche le fragilità del carnefice. Posso chiederti come si traduce questo rapporto in certi materiali (penso sempre all’argilla cruda)?
Percepire la fragilità del carnefice è fondamentale per comprendere la forma di violenza. Il controllo di cui parlo nel lavoro è mosso solo da un sentimento di affetto, non mi interessa giudicarlo né giustificarlo, ma metterlo in discussione attraverso un approccio critico.
Le parti di argilla cruda spezzano e sporcano la morbidezza del tessuto. La terra quando cotta diventa ceramica e acquista subito l’aspetto di qualcosa di definito, un oggetto compiuto nella sua forma, sembra diventare più nobile. Concettualmente e fisicamente decidere di non cuocerla significa sottolineare il suo stato di elemento organico e dunque di elemento distruttibile.
Il focus sui materiali industriali sembra opporsi alla presenza di elementi minerali, come ad esempio il sale (che divora e corrode molti dei materiali presentati). Mi dicevi che anche questa scelta nasce ispirandosi direttamente al soggetto-cavallo. Posso chiederti di spiegare ai lettori questa ispirazione?
Insieme alla creta cruda, il sale è l’unico elemento organico. I cavalli usano leccare il sale quando sono molto stressati, utilizzandolo come elemento nutriente, allo stesso tempo quando corrono sudano molto. Il sale mischiato ad acqua presente nel lavoro è stato distribuito a terra in modo da creare delle macchie, delle pozze, forme che rimandano a dei fluidi e, quindi, all’idea di corpo. Il corpo, sia animale che umano è un elemento chiave della mostra, diventa ingombro sensibile tra oggetto e affetto, viene controllato, accarezzato, protetto e costretto.
Infine: le opere presentate sono parte di una ricerca che va avanti da oltre un anno e che è stata pensata nel suo insieme con un ciclo compatto. Cosa vedi all’orizzonte nel prossimo futuro? Consideri questo ciclo concluso?
Credo che questo ciclo in particolare abbia trovato la sua risoluzione in questi lavori. La metodologia che lo ha costruito però, è cresciuta in varie direzioni, rendendo il mio modo di lavorare più stratificato e complesso, quindi di sicuro questo approccio verrà esteso a nuove produzioni.
Sara Ravelli. Tamed Love
12 aprile – 17 maggio 2021
Schiavo Zoppelli Gallery
Via Martiri Oscuri 22, Milano
Info: +39 02 3674 2656
www.schiavozoppelli.com