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PALERMO | GAM | 30 giugno – 2 settembre 2012

di LAURA FRANCESCA DI TRAPANI

Ironica intelligenza, puntuale provocazione scandiscono l’ultimo percorso di Adalberto Abbate (Palermo, 1975) appena inaugurato alla GAM di Palermo e in corso sino al 2 settembre. Una mescolanza di sé, del suo mondo, degli amici, dei colleghi, del sistema in cui siamo immersi e in cui cerchiamo di non annegare. Una denuncia sociale, politica che diviene atto di una presa di coscienza che sommerge tutti quanti e che tutti quanti abbiamo, più o meno consapevolmente, alimentato. Lavori che contengono in sé tutto il suo percorso, probabilmente più serio, più terapeutico, dove il “difetto” viene visto e riconosciuto nella sua interezza. Una serie di ritratti strappati nel volto, che riescono lo stesso a guardarti, a penetrarti con uno sguardo che da fisico è diventato morale…

Partirei dal titolo della mostraSelf-Portrait. Build. Destroy…
È un unico titolo ma raccoglie due progetti. Self – Portrait affronta il problema dell’essere individuo ed appartenere ad una società costruita con delle regole, mentre Build. Destroy una visione quasi paesaggistica della società, secondo una mia ricostruzione. Quindi c’è la mostruosità, l’origine della società, l’informazione, il ruolo dell’uomo, i vari spazi, lo spettacolo, la storia. Costruisco un simbolismo che non è quello reale o storico dell’arte, ma un nuovo simbolismo legato all’istinto. Lego i fatti storici a degli oggetti e l’importanza che hanno nella vita dell’essere umano. Sono quelli che ti legano anche alle persone. E da questi oggetti molte volte ricostruisco una storia o parlo di qualcosa. Nell’autoritratto, che poi comprende anche Build, il paesaggio rientra anche come autoritratto. La visione di non essere quello che siamo, non siamo padroni delle nostre scelte, della nostra vita. La nostra vita si costruisce non solo con le nostre scelte ma anche con quelle degli altri. E da questo la confusione dell’uomo che non si sente partecipe di questa vita.

Quando nasce questo progetto?
Pensato nel 2011 con una certa difficoltà. È un progetto permeato da diverse problematiche che ho avvertito, con il parlare sempre di cultura e che mi hanno distaccato, in un certo senso, da quello che è fare arte. L’idea di avere arte a tutti i costi mi ha sbilanciato e tolto quella parte di entusiasmo che avevo nel fare. Così nei volti che strappo c’è il vedere che esiste il difetto quasi in ogni cosa. Certamente pessimistico come pensiero, magari anche esagerato: spesso però esagero per esorcizzare, sottolineare con il bianco e nero cupo, che appartiene anche alla nostra tradizione.

Quanto c’è di te come artista?
Un po’ tutto. Tutti quello che ho conosciuto: il cinismo di Ciprì e Maresco, la violenza, la ricerca di una spiritualità che è presente in De Grandi. Tutte quelle persone che ho avuto accanto come amici.

Quanto invece della storia e della tradizione culturale?
C’è molto dei ritratti di Antonello da Messina, soprattutto il Trionfo della Morte, che stanno lì con quelle espressioni a raccontarci quelli che erano dei dubbi, delle posizioni, dei caratteri. E poi dentro c’è tutta la letteratura (che non è solo quella siciliana) certa filosofia, certa ricerca. Poi tutta la storia che ho vissuto, le persone che ho accanto. Questo progetto è anche un autoritratto, come dicevo. Quello che racconto di me è un mix di dialoghi sulle problematiche, sulle possibili soluzioni, sul restare o fuggire da Palermo, che durano sino a tarda notte con persone che non lavorano neanche nell’arte. Siamo tutti partecipi dell’arte e della cultura, è questo il discorso. Molti potrebbero cambiare le cose, ma non possono, e vivono questa sensazione di impotenza. C’è una confusione di problematiche e di volontà di soluzione che non porta ad alcuna risoluzione, ed è un continuo non arrivare ad una fine. Se aumentiamo gli interrogativi – che è il problema contemporaneo – le supposizioni legate all’arte, alla cultura ai problemi della politica, alla fine non ci si concentra su nulla. A non affrontare seriamente un problema si crea solo spaesamento.

Se dovessi dare un suggerimento su come leggere un’opera d’arte, non per forza parlando del tuo lavoro, cosa diresti?
Cominciare ad affrontarla. Non vedere tutto quello che c’è all’interno dell’opera d’arte o quello che rappresenta un’opera come una cosa totalmente distaccata dal presente. Ogni cosa, ogni colore, ogni oggetto, ogni forma, parte sempre da un elemento banale. Poi l’artista lo complica – questo è l’errore – rendendolo quasi illeggibile. Tutto parte dal pensiero più semplice, dal raccontare qualcosa che è la vita o la “non vita”. Tutto quello che si continua a raccontare è quello che si è raccontato già. Si deve partire dall’idea che c’è qualcosa che ci appartiene, quindi basta cercarlo.

Tornando a Self Portrait che stagione artistica rappresenta?
Non so se è un passaggio o un precedente percorso. Quello che spero è alleggerirmi di un peso, di svoltare completamente, di non essere viscerale. Usarla come una forma di terapia salvifica. Mentre questi ultimi lavori creano delle interferenze rispetto all’origine, dove la condizione ludica era più presente. Dove sentivo un distacco, mi divertivo di più. L’ironia serve ad arrivare ad esorcizzare. Attraverso il gioco riesci a spiegare la realtà per quella che è. Anche perché una realtà vista con occhio lucido è nauseante.

Come ti leghi ai lavori precedenti?
Una voglia di cambiamento ed un riconoscere che c’è il difetto. Continua l’idea di Tutto da rifare: potrai fare quello che vuoi ma non riuscirai a ribaltare le cose. Quest’insicurezza riporta al guardarsi in faccia e a chiedersi perché si dicono o si fanno certe cose. Ci vorrebbe un cambiamento, ma ne hai paura perché si nasconde nelle maschere che non riusciamo più a controllare.

Descrivici i lavori di quest’ultimo progetto.
Sono dei passaggi, dove anche il lavoro precedente con il suo ragionamento si ricollega a quello attuale.
Ho modificato oggetti che sono attrezzi da lavoro, e molti di questi come il forcone sono diventati simboli di alcuni movimenti. Sono tutti deformati perché vi è un’impossibilità della qualità del lavoro, della possibilità di lavorare. Sono attrezzi inutilizzabili. Siamo stati noi stessi a togliere quel valore, a vedere il lavoro come una forma di guadagno e di potere, mai come un piacere. Così il lavoro si perde. E il crollare del sistema è responsabilità di tutti quanti che non abbiamo creduto nel valore, e non abbiamo fatto, quello che dovevamo fare, con entusiasmo. Abbiamo avuto solo il piacere di distruggere e non di costruire, e di avere quel distacco cinico nell’osservare la distruzione. E adesso che tutto è andato, non stiamo lì a capire che siamo stati noi la causa di tutto. Ci sono poi una serie di autoritratti di volti sconosciuti recuperati, genere fototessera, dove si nascondono identità partecipi di questo contemporaneo. Sono immagini danneggiate, in quest’operazione del danneggiare il difetto del dittatore. L’idea dei ritratti distrutti nelle città, dei ritratti attaccati con rabbia. In questo caso è un attaccare se stessi, anche noi siamo partecipi di questo disastro, per le nostre scelte, per il nostro silenzio, per la nostra complicità. Non c’è la mia faccia, ma io sono una di quelle facce. Dietro quelle facce ci sarà un eroe, un martire, un delinquente, ma non lo sai, non lo saprai riconoscere, perché non siamo più in grado di riconoscere il bene dal male.

Perché hai scelto volti sconosciuti?
Perché conoscendoli avrei avuto un momento di simpatia e non sarei riuscito ad “aggredirli”, perché avrei trovato per forza qualcosa di positivo.

Adalberto Abbate
Self-Portrait- Build. Destroy. Rebuild

GAM
Via Sant’Anna 21, Palermo

30 giugno – 2 settembre 2012

Orari: martedì – domenica ore 9.30 – 18.30 | lunedì chiuso
Info: 
servizimuseali@galleriadartemodernapalermo.it
www.galleriadartemodernapalermo.it

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