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Marcello Campora da Savona

Abbiamo a che fare con un tempo e uno spazio nuovi. Cosa stai scoprendo o riscoprendo di te?
In questi giorni ho vissuto da solo. Le mie giornate sono volate. Mi sono chiesto spesso cosa occupasse il mio tempo per riuscire ad averne così poco anche in questa condizione. Credo che sia l’intimità ad avermi occupato le giornate. Stare da soli ha significato mettersi in relazione con gli spazi che vivi, gli oggetti che usi, che tocchi. Il mio naturale scambio di sensazioni e informazioni con il mondo esterno, il mio specchiarmi in esso, in questa nuova dimensione si è trasformato nello specchiarmi negli oggetti della vita quotidiana. Un quaderno, un libro, anche solo il più insignificante asciugamano che uso ogni giorno, diventano parte dell’anima. “Perché l’anima ha bisogno di un luogo”. Questa frase è scritta come monito sulle pareti di un edificio a me molto caro nel quale ho recentemente realizzato un lavoro fotografico che mi ha molto coinvolto e che spero potrò presto presentare. 

Cosa ti manca? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Il mio rapporto con la fotografia si esplicita attraverso la voglia di raccontare le storie che accadono fuori. Mi manca la possibilità di narrare l’uomo attraverso l’incontro. Anche quando ho rappresentato l’assenza, l’ho fatto attraverso le storie di chi non era presente o dei pochi rimasti.
La scelta, come ho detto, è stata quella di non uscire, di fare un’esperienza nuova.
È stato molto bello anche così ma ciò non toglie che mi manchi l’umanità che ho raccontato fino a prima dell’emergenza. 

Quando tutto questo finirà: una cosa da fare e una da non fare mai più.
Ci sono cose che vorrei tornassero e cose che vorrei fossero abbandonate per sempre. La cosa principale è che vorrei che le relazioni, gli abbracci, le carezze tornassero ad essere al centro della vita dell’uomo. I bambini devono avere una scuola che preveda tutto questo perché la socialità è alla base del vivere civile. L’ipotesi di un mondo riorganizzato attraverso le distanze fra le persone è da prendersi in considerazione solo come soluzione temporanea ad un enorme problema sanitario, non accetterei una società che virasse in quella direzione perché l’uomo ha bisogno di relazioni, di contatti, di empatia. Per le cose da non fare mai più: spero che questa esperienza renda il mondo diverso in termini di accoglienza e uguaglianza. Con la pandemia il mondo occidentale si è trovato ad affrontare lo stesso problema che hanno affrontato popoli più poveri e anche ceti sociali differenti, seppur con innegabili privilegi per i più abbienti, si sono trovati fianco a fianco in questa battaglia. Penso sia stato un buon esercizio di uguaglianza sociale.
Mi auguro che alla fine ognuno di noi abbia fatto un passo avanti nel capire l’uguaglianza dei diritti dei popoli a discapito dell’egocentrismo di cui eravamo intrisi nei giorni precedenti al presentarsi del Covid. Non sono sicuro che questo sia stato capito dai governanti, anzi temo proprio non sia avvenuto, ma credo che un seme sia stato sparso fra i popoli.

Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Ci sono due aspetti. Credo che l’uomo debba muoversi per cui non credo in un mondo meno mobile. Credo invece che ci siano i mezzi per evitare la mobilità inutile che butta via energie a discapito delle idee. Ecco, credo che in questo l’esperienza sia stata interessante e siamo stati tutti bravi a trovare, e a provare, vie nuove che torneranno utili quando avremo la possibilità di scegliere. Però per conoscerti io dovrò venire a incontrarti di persona, vedere dove e come vivi e perché fai o non fai quello che faccio io. Quello non potrà mai essere sostituito.

Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
La fotografia rimane un oggetto materiale che si esplicita in una stampa e così la intendo. La tecnologia in questo momento di difficoltà ci sta dando l’opportunità di comunicare comunque con la fotografia. È innegabile che in questi giorni si sia potuto approfittare dei mezzi tecnologici a disposizione di tutti per veicolare i contenuti delle immagini. Questo è stato importante perché a volte il messaggio ha tempi che non possono attendere.
Il 25 aprile una mia fotografia, insieme a decine di altre immagini, è stata proiettata sui muri dei palazzi di Milano per raccontare la libertà. Mai come in questo caso, la fotografia è stata tanto grande quanto impalpabile. Hanno potuto assistere direttamente a questi eventi sparsi per la città solo le persone che avevano una finestra che si affacciava su quei muri, eppure il segno è stato lo stesso potente e tantissimi hanno potuto ricevere i messaggi di quelle fotografie attraverso i mezzi tecnologici che avevano a disposizione. La fotografia rimane oggetto materiale ma le storie che rappresenta avranno mezzi per essere veicolate sempre più nuovi. Di questo sono certo.

 

Marcello Campora è nato a Savona nel 1965 è architetto e fotografo. Il suo lavoro è da sempre incentrato sulle trasformazioni sociali, intese come motore di rinnovamento culturale. I cambiamenti sono raccontati attraverso le storie degli uomini e delle donne che ne sono protagonisti inconsapevoli. Leggere il presente per cercare i messaggi nascosti dalle opinioni stereotipate è uno dei suoi obiettivi principali. Le differenze, l’immigrazione, i mutamenti antropologici e urbani sono i temi ricorrenti dei suoi progetti. Il Museo Santa Maria della Scala di Siena ha da poco pubblicato nella sezione dedicata ai bambini ‘Ti regalo un’idea’, il video della sua favola fotografica  “Se il mare viene sulla terra”. Parte di questo lavoro sarà esposto a Milano alla prossima edizione di Mia Photo Fair. La sua attività è raccolta nel sito www.marcellocamporafotografie.it.

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