ROMA | MONITOR GALLERY | FINO AL 24 MAGGIO 2024
di FRANCESCO PAOLO DEL RE
Relazioni e monumenti sono accompagnati oggi dallo stesso destino: quello di apparire come gusci vuoti, solidi ma cavi. Assomigliano a stampi da riempire, a formine per dolci giganti in attesa di un giorno di festa. Gusci vuoti e anti-monumentali, nei quali l’elemento simbolico e rituale si riduce ai minimi termini, sono le sculture e le installazioni di grandi dimensioni che Lucia Cantò porta in mostra a Roma negli spazi della galleria Monitor con il titolo 36° e un testo critico di Saverio Verini.
L’arte di Cantò tende al monumento, ma è un monumento non retorico e non celebrativo. Un monumento a perdere, come si diceva delle bottiglie di vetro che non andavano restituite al fornitore. Si concretizza nelle forme metalliche e non compiacenti (nuove rispetto alla ceramica tipica della produzione precedente) che la sua codificazione assume nella seconda personale dell’artista pescarese, classe 1995, alla galleria di Paola Capata. A essere monumentale è la forma di un vuoto che ingigantisce le piccole cose che puntellano il quotidiano svolgersi delle relazioni personali e familiari.
Se Lucia Cantò parla di sé, lo fa attraverso l’amplificazione di una sineddoche, preferendo soffermarsi su una figura del discorso invece che affrontare una totalità narrativa, in un tempo privo – appunto – di glorificazioni e storia maiuscola. Frammentarie, minime, particolari, restano tante storie minuscole che si lasciano scrivere direttamente sui corpi, come le Poesie d’amore senza titolo che l’artista confida nelle note di fondo che percorrono tutta la mostra. Una piccola fotografia del corpo scritto, forse una “corpografia”, accompagna puntualmente gli enunciati maggiori del suo discorso artistico per dare la misura o, meglio, la temperatura emotiva dell’intervento, il punto di vista, la chiave di lettura. Ed è una misurazione precisa, i 36° del titolo, ossia la temperatura di un corpo che dorme.
Nella restituzione finale della mostra, il lavoro di Lucia Cantò dell’ultimo anno conserva una qualità dormiente, che impedisce alle sue forme di superare una dimensione di accenno. Non c’è la finitura della veglia, non c’è alcuna levigatura delle superfici dei metalli che utilizza per i suoi elementi totemici. Le opere si presentano «saldamente aggrappate a una dimensione fisica, ma con le sfasature tipiche del dormiveglia», scrive Saverio Verini. «Sembrano effettivamente la diretta emanazione di uno stato di torpore, dove i pensieri conservano ancora troppo vivo il ricordo della realtà per avere la stessa consistenza del sogno». Si snocciolano dunque, lungo il percorso della mostra, gigantografie di amuleti e talismani che potrebbero essere utili a imbrigliare il calore inafferrabile dei sogni.
Quasi come un inciampo, accoglie il visitatore Piccolo cielo, un cerchio di stelle di alluminio che gravitano rasoterra. Anzi non gravitano, stanno ferme. Sono tutt’uno con lo sfondo, costrette a delle posizioni fisse dalla fusione del metallo che le compone. Sono stelle fredde e non brillano più. Nessun effetto speciale fa risaltare la loro natura siderale. Siamo già immersi in quelle piccole storie che l’arte di Cantò accarezza. Le stelle sono infatti quelle delle aureole delle madonne delle sue chiese e la lavorazione di questo astrolabio inservibile è affidata alle sapienti mani degli artigiani di Pescara, la città in cui l’artista è nata e opera. Fondante, per la sua ricerca, è il legame con la terra, con le origini, con la tradizione. L’accento però è sul legame in sé, sulla qualità della relazione, che si può manifestare grazie a “madaleines” proustiane.
Ha questa funzione lo stampo di un dolce pasquale tipico della sua regione, quello del cavallo che, accoppiato alla pupa, era oggetto di un antico scambio di regali tra fidanzati. La sua forma ingigantita è la potenza matematica della dimensione sentimentale e relazionale che l’oggetto di partenza tradizionalmente evoca. Da promessa d’amore, diventa un Monumento equestre, non senza ironia, ed è l’opera forse più esemplare dell’intero movimento espositivo.
Il ferro zincato di cui si compone la sagoma del cavallo in posizione rampante lascia a vista le saldature e non cerca una rifinitura, così come rivendica una natura anti-decorativa di elemento industriale la grande casa senza porte né finestre del Perimetro sicuro che l’artista ha affidato alla lavorazione di maestranze veneziane. Rivelatore, per comprendere l’opera, è un disegno non inserito nel percorso della mostra ma comunque visionabile nell’ufficio di Paola Capata. In esso, Lucia Cantò offre una chiara indicazione di ciò che sono gli infiniti buchi che costellano tutta la superficie di alluminio dei muri e del tetto. Grazie al disegno si scopre infatti che la casa «grida dalle pareti esterne». L’artista suggerisce che possa essere un suo autoritratto e la sua nudità, il suo interno impenetrabile ma osservabile da fuori attraverso i pertugi e una certa rigidità ospedaliera e respingente sembrano evocare una gabbia più che ambiente domestico perché, nonostante l’asserita sicurezza, non appare del tutto rassicurante.
Quello che nella casa chiusa ma bucata resta fisso, permettendo all’aria di circolare, si mette in movimento in 10 years before me. Lucia Cantò mette in scena il passo delle vecchie scarpe della persona amata, usate nei dieci anni prima che si conoscessero e da lei trasformate in sculture in ottone. È un passo – maschile – che dalla vita precedente si muove verso il futuro, calpestando un tappeto – femminile – di cuscini multicolori. Dopo la verticalità, come per le stelle iniziali lo sguardo torna al suolo, tra conflitto e cura. Il corpo si smaterializza, ma resta il peso del metallo a contrasto con la morbidezza del piedistallo imbottito.
A parte, forse, incipit o conclusione, è la terracotta di Madre II. Dopo il freddo dei materiali metallici usati a contrasto per descrivere la complessità delle relazioni, un pezzo appartenente alla produzione precedente dell’artista: una combinazione di vasi caldi e terrosi che vedono trasformarsi il legame con la genitrice in una reale collaborazione, affidando alla scrittura materna il trattamento finale della sua superficie e liberando la poesia che tutta la mostra scientemente trattiene.
Lucia Cantò. 36°
Testo critico di Saverio Verini
Fino al 24 maggio 2024
Monitor Rome
Via degli Aurunci 44, 46, 48, Roma
Orari: dal martedì al venerdì dalle 13 alle 19