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Il racconto della residenza organizzata da CasermArcheologica, Sansepolcro dal 24 al 28 febbraio 2021

di Ilaria Margutti

Nel libro L’ordine del tempo, Carlo Rovelli scrive che il tempo non segue un andamento lineare, ma è scandito da eventi che si intrecciano, si incontrano e si relazionano. Se il tempo non è misurabile solo in secondi, minuti, ore, giorni e anni, ma in reti di relazioni, allora è chiaro che la relazione è il fondamento principale della nascita dell’universo.
Dopo un anno di progetti rimandati o cancellati, mostre chiuse, impegni a data da destinarsi, programmazioni in bilico e soprattutto, dopo un anno di lontananza dai quei corpi necessari per creare visioni e connessioni vitali alla generazione della creazione artistica, ciò che io e Laura (Laura Caruso, ndr) stavamo percependo, era un forte senso di inaridimento, di siccità e impoverimento del pensiero logico. Un corto circuito degli eventi, immobilizzati dentro a ingranaggi sempre più arrugginiti.
Lavorare a CasermArcheologica ci ha insegnato che non basta solo mettere insieme idee per creare un progetto, ma bisogna imparare ad ascoltare necessità contingenti, montare e smontare pezzi di pensiero, per dare vita e forma alle risorse più somiglianti alle esigenze di una comunità.
Siamo così partite da due spunti, dalla riflessione maturata in questi anni di voler creare a CasermArcheologica un riferimento per artisti che si sentano di condividere i processi della loro ricerca e, allo stesso tempo, di creare una comunità accogliente, aperta, in cui si possa lavorare non solo sull’ospitalità, ma sulla continuità dei rapporti, creando una tangibile possibilità per tutti gli artisti e le artiste, che cercano fortemente l’incontro e il confronto con “l’altro”. [1]

Alessandra Baldoni e Ilaria Margutti

Abbiamo quindi, voluto creare l’occasione di invitare un gruppo di artisti che assieme a noi, avessero potuto condividere una pausa di qualche giorno, un distacco dal mondo esterno e da tutto ciò che, in questo momento, ci sta inaridendo il pensiero, prosciugandoci le forze, le speranze e il coraggio e cercando, nelle restrizioni contingenti, ogni spiraglio di possibilità.
Lo abbiamo fatto condividendo fin da subito l’idea con Stefano Té, regista del Teatro dei Venti, ma anche Direttore artistico del Festival Trasparenze, una realtà quella di Modena, in cui riconosciamo tutta la forza della missione e dell’impegno poetico militante.
Insieme a Stefano, abbiamo costruito il gruppo di artisti da invitare, da ambiti diversi, dal teatro, dalla danza, dalle arti visive, dalla musica, dalla poesia [2], per ricollegarci al movimento incessante della creazione, che può avvenire soltanto quando si fonda sulla condivisione, il confronto, lo scontro e la sfida ai nostri limiti.

Alla domanda “cosa ci muove?”, ci siamo risposti con la parola Fede. Sfidare la Fede, sfidare la costrizione del corpo isolato, sfidare la distanza che ci separa da ciò che non comprendiamo, sfidare il desiderio, l’immaginazione, il viaggio.
Il tema che ci siamo proposti, vasto, complesso, con un’origine impegnativa, non poteva che essere accolto come una liberazione dalla gabbia sterile dell’isolamento.
Un tema assai grande, che ha moltissime sfumature e stratificazioni culturali e intime, che chiama in causa l’educazione di alcuni di noi, ma anche il desiderio di spiritualità di tutti, acuito da questi mesi. [3]
La Fede è ciò che spinge l’essere umano a indagare l’ignoto, è madre della fiducia e dell’affidarsi e, in questo oceano perso di persone sempre più sole, forse è proprio il gesto della fiducia, ciò di cui abbiamo bisogno ancor più di prima. Tutti avevamo la stessa esigenza di metterci dentro a una prova che ci facesse avvicinare a qualcosa di più prossimo a un luogo sacro, a un simbolico che in qualche maniera ci riconducesse al rito artistico.

Stati di Grazia, foto di gruppo all’arrivo

Abbiamo dunque affidato a Emmanuele Curti, autore ma anche progettista culturale, di redigere un testo che è stato un primo e importante invito e stimolo agli artisti per riflettere sulla propria idea di fede. [4]
Le poche settimane prima di partire, ogni artista ha studiato e raccolto materiali, testi, film, opere, poesie e quant’altro potesse darci altri stimoli e punti di riferimento, ci siamo posti le nostre domande per poi riproporle agli altri.
Con questo lavoro preparatorio siamo arrivati a Sansepolcro il 24 febbraio. La residenza Stati di Grazia si è svolta presso il Casale Cungi a poca distanza da Sansepolcro, dove siamo stati immersi senza contatti con l’esterno per tutta la durata della residenza. Abbiamo adottato ogni misura di sicurezza, cosa che ci ha permesso di non aver avuto nessun incidente e nessun contagio. Ciascuno ha fatto un tampone molecolare prima di partire, e nuovamente uno rapido all’arrivo a Sansepolcro, grazie alla collaborazione della Dottoressa Paola Vannini. [5]

Stati di Grazia, primo incontro on-line con Emmanuele Curti

L’arrivo è stato già un momento di forte emozione, artisti provenienti dall’Emilia Romagna, dall’Umbria, dalla Campania, dalla Sicilia e dalla Toscana, dopo un anno di isolamento, mentre tutto intorno stava peggiorando ed era forte la sensazione di pericolo, noi ci siamo incontrati, alcuni già si conoscevano, altri si sono conosciuti lì per la prima volta. [6]

Tutto il progetto avanzava sul filo del dirupo. Zona gialla, Zona Rossa, bastava un soffio e tutto il lavoro sarebbe potuto precipitare. Poteva anche piovere, ma incredibilmente a febbraio c’è stato un sole inaspettato con 24 gradi di temperatura.
La prima conversazione si è svolta durante i momenti precedenti al tramonto, ruotando intorno ad una domanda semplice quanto essenziale: quale è il senso del chiudersi, dell’isolarsi, in quanto la residenza, per motivi evidenti, non avrebbe potuto essere accessibile al pubblico. Quale beneficio avranno da questo incontro tra artisti, le comunità di riferimento di ciascuno, a partire da quella di Sansepolcro? [7]

I poeti, gli artisti, come tutti gli esseri umani, hanno a che fare con l’invisibile: quello che non si vede, che sta oltre, il mistero su cui sentiamo si fonda in qualche modo la vita.
Gli artisti hanno a che fare con questo invisibile molto di frequente, potremmo dire che ci commerciano continuamente, trasformando il visibile in invisibile e viceversa. Come una luce, che fa cambiare il paesaggio.
La scrittrice Flannery O’ Connor ne riferiva in merito agli scrittori, ma può valere per tutti i generi di arte: “Credo che uno scrittore serio descriva l’azione solo per svelare un mistero.
Naturalmente, può essere che lo riveli a se stesso, oltre che al suo pubblico. E può anche essere che non riesca a rivelarlo nemmeno a se stesso, ma credo che non possa fare a meno di sentirne la presenza”.
Ogni volta che ci si trova in una situazione nuova, siamo costretti in qualche modo a riprendere in esame la questione del mistero, dell’invisibile che preme. Oggi in particolare facciamo proprio i conti con questo, si dice spesso che combattiamo ‘un nemico invisibile’.
Ci siamo chiesti, all’inizio della residenza, una cosa che molti si stanno domandando, ciascuno nel proprio ambito: chi in questo momento non si vede, non si espone, è invisibile, significa che non esiste?
Pensiamo ai teatri chiusi, alle piscine vuote, ai ragazzi a lungo ignorati dai decreti.
Di certo no: viene richiesto un modo diverso di esserci. Come ogni cambiamento, questo ci mette in un rischio, ci fa fare i conti con chi siamo e col mondo che ci siamo trovati ad abitare. Forse, ci chiede di cambiarlo.

Poi la notte è solo silenzio che cede
e lascia spazio a quel che non si vede.
(Azzurra D’Agostino, poetessa e drammaturga)

Alcuni momenti della residenza Stati di Grazia

Durante le giornate si sono susseguiti conversazioni, incontri e approfondimenti sul tema, che hanno portato ad altre riflessioni, suggestioni e, volendo, vere e proprie rivelazioni, mutazioni sottili che hanno costruito un legame sempre più solido tra gli ospiti e gli ospitanti. Come fossimo stati un unico polmone in sincronia con i suoni del bosco che ci circondava, ci sentivamo sul filo di un cammino che ricuciva le nostre mancanze.
Il pomeriggio del 26 febbraio, abbiamo avuto un incontro on-line con Virgilio Sieni, anche lui chiamato a portare altro immaginario a supportare il tema della fede.

La fede è sempre una realizzazione di qualcosa che rasenta l’impalpabile, l’invisibile, tuttavia in questo atto di speranza, nascono degli elementi di appoggio e di sostegno, la fede è come se costruisse degli appoggi, e ha a che fare con un concetto di abito, di abitare, abitudine, include per forza di cose, non solo un pensiero, ma tutta una ciclicità di rituali, che hanno a che fare con il corpo.
Quando si associa il pensiero al gesto, ovviamente questo diventa un campo rafforzato, perché il gesto va ad aprire altri orizzonti.
Assocerei, dunque, il tema della fede al tema dell’adorazione.
Il gesto dell’adorare è lo spazio dell’avvicinamento verso qualcosa che ha a che fare con la materia dell’invisibile, nella speranza che si realizzi.
Ma per chi ha fede, non è necessario che si realizzi un avvento, perché è uno spazio tattile tra due avventi, come quello che avviene nel gesto della creazione rappresentato da Michelangelo sulla Cappella Sistina.
Alcune cose non devono essere esplicite perché annullano il senso dell’inesauribile.
Dunque il gesto, che in potenza è inesauribile, trascolora nell’infinito. Da esso, attraverso pratiche archeologiche di ricerca, emergono sempre le novità celate dalla storia. Questo andare verso il presente di insorgenze preistoriche è un atto di fede.
(Virgilio Sieni, estratto dalla registrazione del suo intervento)

Performance di Ilaria Margutti e Laura Caruso. Ph di Alessandra Baldoni

Performance di Manuela Lo Sicco

Non è immaginabile redigere un racconto completo ed esaustivo del susseguirsi delle giornate che ci hanno visto protagonisti di una residenza così insolita, ma certamente mettere insieme una piccola comunità formata da anime che vivono e si rigenerano nella creazione di mondi possibili, non poteva privarsi del piacere della sfida che nasce dalla scoperta.
Nell’ultima giornata, in maniera quasi spontanea, ci siamo dati il compito di compiere un gesto, di creare un’immagine, che potesse restituire agli altri un dono, un ascolto, una prova della propria “fiducia” nell’altro, a quei compagni di un breve viaggio intenso e pieno di emozioni.
Così i doni di ognuno hanno iniziato a scandire il tempo creando degli spazi sacri, piccoli riti dentro ai quali si sono compiuti gesti di cura e di coraggio.
Ogni opera è nata nel breve tempo del tramonto, con quello che c’era, quasi niente, se non l’intenzione di tornare ad essere interi e affidarsi all’insieme, a ciò che traduce il gesto in un simbolo e il simbolo in una immagine in cui una comunità si riconosce.

Tutti i riti/performance sono nati con quello che c’era e dice bene Azzurra quando scrive che “della fede si può solamente fare esperienza”.

L’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo
sforzo compiuto dall’uomo per costruire un mondo che
abbia un significato.
Mi affascinano i gesti incompiuti che richiedono
attenzione, obbligano al silenzio.
Ogni rito, ogni credenza, ogni mito, riflette l’esperienza
del sacro e quindi implica le nozioni di essere, di
significato e di verità.
Vivere da essere umano è in sé per sé un atto religioso.
Qui ho voluto raccogliere dei gesti che in me riverberano
come esperienza del sacro.
Cercare
Tentare
Tendere verso
Un recinto dove trovare l’equilibrio
Un recinto dove perdere l’equilibrio
Mano protesa e sguardo altrove.
Accogliere l’altro da te.
Cogliere al volo l’opportunità di un incontro
Sentirsi a casa senza temere il giudizio
Concedersi il dubbio
paura
Vivere il conflitto
(Sacro, Manuela Lo Sicco)

Performance di Manuela Lo Sicco

Abbiamo accettato l’invito di ritrovarci insieme per creare una piccola comunità temporanea raccolta attorno a una parola, fede, che ha acceso domande, per la quale si sono cercate risposte e accettato silenzi. Abbiamo lasciato un fuori creando un dentro protetto, dove donne e uomini hanno scambiato, prima di tutto coi loro corpi, ora dopo ora, il proprio desiderio di vita.
Ognuno col linguaggio che gli è proprio, con la presenza che ha trovato necessaria.
Alla fine del percorso che attraversava il bosco, che alcuni di noi hanno calpestato più volte e in  vari momenti delle giornate di residenza, si trova un pendio di pietra esposta dove l’intero gruppo si è raccolto, l’ultimo giorno. Uno dopo l’altro, come un rosario sgranato nel silenzio, ciascuno di noi ha trovato il suo punto d’appoggio, si è situato. Quell’ultimo giorno siamo rimasti ancora in  silenzio, poi le parole sono uscite, a volte tremanti, timide e umide di commozione.
I nostri corpi son diventati i talli di un grande lichene, un organismo composito in cui scambiarsi nutrimento, e  dove lentamente abbiamo accresciuto i nostri confini, accedendo a quello degli altri, non coprendoli, ma stando accanto.
Un lichene è un simbionte in cui un’alga e un fungo traggono reciproco vantaggio, uniti da un legame indistruttibile. Potrebbero anche vivere separatamente, ma l’associazione consente loro di produrre individui più resistenti e di maggiore adattamento, capaci di sopravvivere in condizioni proibitive per qualsiasi altro vegetale. Come i licheni, gli artisti sono dei bioindicatori particolarmente sensibili a quel che accade intorno a loro.
La nostra piccola comunità temporanea è diventata foglia, che trasforma luce e acqua in energia, è stata lichene diventando “pegno di un luogo” (ricordando Camillo Sbarbaro) e di esperienze. Per noi che siamo stati dentro e forse anche per chi è stato fuori. Perché la domanda è “da dove comincia una montagna?” (Licheni, Claudia Losi)

Lichene – ph di Claudia Losi

Ho un’anguilla arrotolata nel petto. Un buco tondo come un catino bianco e dentro una serpe d’acqua. Una rilucenza fatta di squame, cornee che mi fissano lacrimose. Annunciazione anfibia, un angelo annodato anziché genuflesso che vorrei prendere ed inchiodare al muro.
Nessuna vergine, nessun parto. Solo un buco dove poggiare l’occhio e vedere cosa mi manca, un imbuto che si mangia il grido dell’ignoto, un infinito di infinito tempo-siderale-che mi schiaccia tra indice e pollice. Io che sono poco più di niente, particelle casuali, tempo misurato in millimetri. Ho la paura che mi graffia gomiti e ginocchia, che mi consuma le articolazioni – mi mette davanti al mostruoso. Cosa c’è oltre la geografia certa del mio sguardo? Quando ascolto una lingua non conosciuta cosa ferisce le mie orecchie? Se mi chiamassi, se chiamassi il mio nome dal regno delle ombre riuscirei a non voltarmi? Starei sulla soglia come statua di sale, il collo che tira in un movimento inespresso, le spalle appese ad un’intenzione. Forse non so avere fede abbastanza, non so cadere all’indietro. Fa male allo stomaco, come quando un rumore riempie il buio ed il corpo si ferma pesante e bastardo, disobbediente ad ogni richiamo. Sette spade di dolore, sette i mari, i sacramenti ed i peccati capitali. Sette i sigilli scarlatti, rotti al suono delle sette trombe. Odio l’ostensione del martirio, la piaga mostrata, i rivoli di sangue. Questa memoria d’infanzia fatta di un dio dolente impiccato ad una croce. I miracoli accadono sempre non visti, indifferenti allo stupore. So di non essere capace di una vita misurata su un premio, ordinata e diretta, preferisco una grazia terrena ed imperfetta fatta d’amore perfino sciupato, perfino sbagliato. Preferisco un debordante spreco, un eccesso non calcolato. Neanche la verità mi interessa poi così tanto. Meglio un’infinità di versioni – basta siano ben raccontate. Ho fede nella parola, nella narrazione. Nella trama, ordito medicale e mendicante di esistenze. La parola è l’antidoto, l’unguento, è il sestante per l’ignoto mare. È la direzione in un cielo muto, di stelle staccate, scucite dalla volta. Confido nella parola, confido nella ferita che sa dire, nel ricamo che sa disegnare. Lo stato di grazia è per me l’esattezza del verbo, è il serpente nel cuore – il terrore e lo stupore che si incontrano in un luminoso fendente, un incendio che avvera il mondo. (Ho tanta fede in te, Alessandra Baldoni)

Alessandra Baldoni, Porto le dita alla bocca la fede è una brocca rotta che l’acqua sciupa

Vorrei chiudere con  la poesia di Azzurra d’Agostino, con la quale abbiamo concluso le nostre quattro giornate e che lei ha composto il giorno prima della nostra ripartenza.

Tutta la vita arrivò e mi stava accanto
come la madre di notte sta alla culla
l’orecchio proteso verso il respiro
del tuo sangue che non sei tu.
Tutta la vita arrivò e mi accadeva
come si apparecchia la tavola, distratti
è nelle cucine che si dicono i segreti e li lava
l’acqua dei piatti, li spuntano i coltelli.
Tutta la vita arrivò e mi chiedeva
di posare una pietra per i miei morti
di contarli e nominarli e tra quei nomi
c’era il mio, e dei tanti che sono vivi.
Tutta la vita mi arrivò e mi insegnava

che gli eserciti non marciano in fila
che solo i viandanti che camminano
in silenzio condividono la parola.
Tutta la vita mi arrivò e mi donava
licheni, pozze di luce, foglie, città, amuleti
e quanta devastazione, che dolore, che paura
e allora mi donava anche un canto.
Tutta la vita mi arrivò e mi attraversava
come i movimenti di una danza sacra
io non sapevo bene i passi ma contava
che qualcuno che non conosco ballasse anche per me.
Tutta la vita mi arrivò e mi toglieva
aggiungendo troppo, non so se un neonato
nudo sia meno forte di un guerriero armato
ma posso sperare che il forte difenda il debole.
Tutta la vita mi arrivò e mi consegnava

ogni giorno una domanda. La portava un messaggero
sempre diverso: una casa venduta, un amore perso,
il corpo che cambia, una stagione, le stelle senza fondo.
Tutta la vita mi arrivò e arrivava
insieme agli altri. Oh, erano tanti, milioni e milioni.
Ci perdevamo insieme senza saperlo di essere insieme
di avere la stessa fede: il luminoso sogno di non essere da soli.
(Tutta la vita arrivò, Azzurra D’Agostino, Cungi, 27 febbraio 2020, luna piena).

Note al testo:
da [1] a [7] Laura Caruso, testo tratto dalla registrazione dell’incontro on-line in diretta dalla pagina Facebook di CasermArcheologica, avvenuto il 16/03/2020.

Stati di Grazia, foto di gruppo sulla rupe

Stati di Grazia, residenza
A cura di CasermArcheologica: Laura Caruso e Ilaria Margutti
Teatro dei Venti : Stefano Tè
tessitura tematica: Emmanuele Curti

Artisti ospiti: Alessandra Baldoni, Andrea Biagioli, Azzurra D’Agostino, Civilleri Lo Sicco (compagnia composta da Emanuela Lo Sicco e Sabino Civilleri), Claudio Ballestracci, Sara Garagnani, Roberto Ghezzi, Claudia Losi, Ilaria Margutti, Rigolò (ovvero Jenny Burnazzi e Andrea Carella), Teatringestazione (ovvero Anna Gesualdi e Giovanni Trono), Simona Bertozzi

Tutto il materiale raccolto è possibile visionarlo a questo link: https://www.casermarcheologica.it/progetti/statidigrazia/

Di questa esperienza ne abbiamo fatto una piccola sintesi in un video di 3 minuti:

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