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di PIETRO BAZZOLI

Si è spento pochi giorni fa a 86 anni Lucio Del Pezzo (1933-2020), l’artista napoletano che viveva a Milano ormai da diversi anni.
Del Pezzo ha trovato i propri esordi all’interno dell’avanguardia del Gruppo 58, sotto gli insegnamenti e la guida di Enrico Baj e del Nuclearismo, poi, giunto a Milano, di Lucio Fontana. La Triennale di Milano ricorda ancora il Labirinto del tempo libero, realizzato in occasione della sua 13ª edizione dal trio di artisti, come si ricordano le due edizioni della Biennale di Venezia del 1964 e del 1966.

Lucio Del Pezzo, Casellario fondo rosso, tecnica mista su tavola, 72×59.5 cm Courtesy Galleria L’Incontro, Chiari (BS) Foto Bruno Bani, Milano

Dal 1958 in poi, Lucio Del Pezzo si fa promotore dell’avanguardia napoletana; dapprima promuovendosi grazie alla rivista Documento Sud, e in seguito nelle prime esposizioni nella città partenopea, a Roma, Firenze e nel capoluogo lombardo. L’anno successivo firma il manifesto del Gruppo 58 che lo vede tra i protagonisti di questo movimento, unendo artisti tra Napoli e Milano, insieme a personalità quali Enrico Baj, Guido Biasi, Bruno di Bello, Mario Persico, Angelo Verga, Nanni Balestrini e altri.
Fu proprio Enrico Baj a invitare i suoi spostamenti, dapprima Milano nel 1960, dove ha luogo la prima personale dell’artista alla Galleria Schwarz e prende piede una visione metafisica del lavoro, al punto di fargli coniare il termine Visual Box.
Pochi anni dopo si trasferisce a Parigi, nel vecchio studio di Max Ernst. Nella capitale francese si definisce all’interno di un contesto figlio del Nouveau Réalisme, fattore che intensifica la sua presa di posizione sul reale.
Metafisica, surrealismo e il costante interrogativo sull’effettiva possibilità di realizzare l’opera totale fanno di Del Pezzo un artista in grado di muoversi tra i simboli. Le multiple combinazioni dei suoi elementi – di ogni principio esistente, almeno in apparenza – si muovevano sulla scacchiera, che è poi l’opera.

Lucio Del Pezzo, Scacchiera, tecnica mista su tavola, 120×100 cm Courtesy Galleria L’Incontro, Chiari (BS) Foto Bruno Bani, Milano

Stelle, triangoli, apostrofi, ovali, ruote, mani, ancore, mezzelune, piramidi, cerchi e ventagli fanno da corollario ad un alfabeto infinito, che vede materiali provenienti d’uso quotidiano decontestualizzati e inseriti nell’opera d’arte. Ed è proprio attraverso le icone grafiche, poste in apposite caselle, come se non vi fosse altro luogo se non quello, definitivo, Lucio Del Pezzo accorcia la distanza esistente tra pittura e scultura, design e oggetto. Una critica ironica, forse, mai del tutto velata, a una società che ha saputo fare del consumismo e della serialità la propria matrice d’appartenenza.
Le sue opere in bilico tra pittura e oggetto sono assembramenti mistici, che vivono dello stretto rapporto che intercorre tra aspetti cromatici e risultati formali: senza dubbio, riecheggia nella sua opera un richiamo al surreale che si fonde a colori accesi, attenti e scelti nella risultante migliore. Un continuo andare e venire, sfiorando a un estremo del mondo l’amato e odiato Giorgio de Chirico, e all’altro una reminiscenza pop assai vicina alla ricerca di Tano Festa e Franco Angeli.
Scriveva Pierre Restany:

“La nostra epoca ha bisogno di una nuova preziosità, che non corrisponde a un lusso del raffinato, ma a un’igiene necessaria del linguaggio, a una profilassi della visione… Il nostro occhio usurato si rimette quasi interamente al turno dei cliché mentali. Si aspira a un nuovo ossigeno, senza crederci veramente. Ed ecco che un naîf saggio, un perverso di buona compagnia, un arlecchino in borghese senza tamburello né tromba, ci invita a giocare con lui. È la calma dopo la tempesta, il sospiro dopo l’angoscia. Tutto scorre e ci si sente meglio”.

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