MILANO | Triennale Milano | 16 febbraio – 14 maggio 2023
di MATTEO GALBIATI
Per raccontare la vicenda artistica di Sally Gabori (1924-2015) si deve fare un passo indietro e rileggere la sua affascinante (benché non immune da grandi dolori e tragedie) biografia, incredibile al punto tale da sembrare essere stata scritta per un romanzo di altri tempi. In questo modo si capisce come e perché la pittura entra nella sua vita solo nel 2005, quando, già ottantenne, Gabori inizia un’avventura artistica intensissima che, in un decennio di instancabile e “necessaria” produzione, la porta a realizzare un insieme di oltre 2000 dipinti.
Aborigena della popolazione dei Kaiadilt, ultimi in ordine di tempo ad essere entrati storicamente in contatto con gli europei, è originaria di Bentinck, isola dell’Australia settentrionale nel Golfo di Carpentaria. Qui vive fino al 1948 quando, a seguito di un evento atmosferico eccezionale che contaminò la terra e le falde potabili con l’acqua salata del mare, lei e tutta la sua gente, ormai ridotta a solo 125 persone, fu costretta a trasferirsi nella vicina isola di Mornington presso una missione presbiteriana. Quello che pareva un trasferimento temporaneo si protrasse per diversi decenni diventando un forzato processo di “civilizzazione”. Fu una grave ferita in seno alla comunità originaria perché, nel nuovo contesto, furono vietati l’uso e la pratica di lingua, tradizioni, rituali, abitudini. Gabori, già ottantenne, per pura casualità nel Centro d’Arte e d’Artigianato di Mornington viene a contatto con la pittura. Da quel momento tela, colore, pennello diventano per lei un potente mezzo di evasione e da qui in poi inizia il suo inarrestabile flusso creativo. Una missione e un destino da lei abbracciati sul nascere, senza preconcetti e senza sovrastrutture, mai secondo un’idea liberatoria in senso ludico ma, tela dopo tela, ha saputo vivificare la consapevolezza di trovare una via di fuga la cui importanza si connetteva a quelle “altre” dimensioni che dovevano preservare luoghi e memorie. La sua narrativa è viva nella totalità della sua libertà; è sempre determinata da una mano che pesa la lunghezza d’onda di uno sguardo che vola al di là delle cose, che vede altrove, che riporta a spazi trattenuti nell’interiorità.
Mirdidingkingathi Juwarnda (nome dell’artista secondo la tradizione Kaiadilt che preleva la prima parte dal luogo di nascita e la seconda dall’antenato totemico, nel suo caso juwarnda è il delfino) dipinge, prima su tele piccole e poi richiedendo supporti di più ampia dimensione, e asseconda una pratica che è lontana dalle aspettative e dalle iconografie che potremmo connotare come aborigene e non solo. Il suo è un flusso di pensiero, è emotività esplicitata nel colore, è – usiamo un termine abusato, ma efficace nella sua precisa connotazione e che per lei vale più che per altri – resilienza manifestata nei passaggi cromatici. Il travolgente timbro segnico, deciso e leggero al contempo, determina una calligrafia esclusiva che non ha modelli perché non li conosce; non ha corrispondenze perché frutto di un’estetica vissuta e cercata entro il proprio orizzonte sensibile.
I benpensanti, troppo spesso maliziosamente prevenuti, potrebbero scandire la solita litania che, in modo sarcastico, definisce come fortuito il successo di Gabori, senza però tenere conto della originalità e della originarietà del suo linguaggio, e, soprattutto, dell’onestà dei contenuti e della poesia che, troppo spesso, sono assenti in molti dei “nostri” artisti “alla moda”, buoni in realtà solo per circolini e salottini radical chic. Gabori ci riporta al senso di una bellezza vera e sincera, spontanea, proveniente dal profondo di un animo così puro come il suo.
La componente immaginativa, che porta ad una “evasione” così sistematica nella pittura nei territori di un incessante e costante filone espressivo, non può assolutamente arrivare dal caso. Davvero la vocazione matura e tardiva di Gabori ha saputo rincorrere il tempo, colmando un vuoto che non sapeva nemmeno di avere: la forza dei suoi dipinti è manifestare questa necessità di riscatto che diventa condiviso da tutto il suo popolo, dai suoi eredi e si trasferisce anche a noi.
Non possiamo osservare questi dipinti senza capire il gesto di libertà che questa donna ha trovato nella pittura. Dobbiamo slegare la sua vicenda dalle abituali connessioni e reciprocità perché la sua è una storia di unicità e di verità nel sentire. La libertà e l’evasione che sono state, forse, per lei un’occasione per ritrovarsi, per ritrovare le sue radici, la sua storia, per riaffermare i valori di esistenze che nella pittura consacrano se stesse e la loro memoria. Tutto attraverso l’animo di un’anziana donna capace di moltiplicare il tempo e lo spazio nella sua pennellata prolifica e carica di energie; in una pittura che trasfigura in una metafora astratta una storia singolare.
La mostra che Fondation Cartier pour l’art contemporain, dopo la mostra parigina dell’anno passato, di concerto con la famiglia dell’artista e della sua comunità, porta negli spazi della Triennale di Milano, è un preziosissimo regalo che viene fatto al pubblico italiano. Questa retrospettiva, che si compone di una selezione di opere di importante e intenso significato all’interno del percorso di Gabori, diventa un viaggio di scoperta di una delle più significative e interessanti figure dell’arte australiana contemporanea.
Le tele esposte nel museo milanese sono luoghi di osservazioni di altre prospettive, di coordinate esperienziali diverse che ammettono, nella velocità prepotente e nell’accelerazione feconda dell’autrice, un sentimento che si manifesta nella sua purezza, proprio perché non ha riferimenti, né referenti e non ha dovuto conformarsi a schemi precostituiti. Superando generi, gerarchie, correnti e manifesti, un’ottuagenaria aborigena, toccato per “caso” un pennello per trovare poi la propria predeterminata missione nel dipingere, ci ha insegnato quanta verità può avere la pittura se sappiamo ascoltare la purezza delle suggestioni e dello sguardo che ci concede. Qui è la strada, qui è la via per comprendere e per capire. Adesso anche più consapevolmente le tele di Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabori.
Mirdidingkingathi Juwarnda Sally Gabori
ideata e curata da Fondation Cartier pour l’art contemporain
presentazione a cura di Bruce Johnson McLean, Juliette Lecorne
testi in catalogo di Nicholas Evans, Bruce Johnson McLean e Judith Ryan AM
in stretta collaborazione con la famiglia dell’artista e la comunità Kaiadilt
16 febbraio – 14 maggio 2023
Triennale Milano
Viale Alemagna, 6, Milano
Orari: da martedì a domenica 11.00-20.00 (ultimo ingresso ore 19.00)
Ingresso intero €12.00; ridotto €10.00; studenti €6.00; biglietto unico per visitare tutte le mostre di Triennale Milano €18.00
Info: +39 02 724341
www.triennale.org
www.sallygabori-fondationcartier.com
IN PROGRAMMAZIONE:
Fondation Cartier pour l’arte contemporain in collaborazione con Triennale Milano presenta “Terra, mare, io”, workshop curato dalle giovanissime Luci su Marte, una pedagogista e una ballerina che hanno sviluppato un metodo di lavoro che usa il corpo e il movimento come strumento di mediazione nei confronti delle opere d’arte. Le attività coinvolgono i piccoli partecipanti nella scoperta dell’arte dirompente, colorata e istintiva di Sally Gabori, tra gli spazi espositivi.
Gli ultimi appuntamenti in programma sono fissati per sabato 1 e domenica 2 aprile.
Il costo del laboratorio è di € 12,00 per ogni bambino e di € 10,00 per l’adulto accompagnatore da saldare in Biglietteria. L’attività ha una durata di 90 minuti circa e si tiene interamente negli spazi della mostra.
Per partecipare, è necessaria la registrazione qui: https://triennale.org/eventi/terra-mare-io11