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CROSSOVER ESPOARTE E PAROLA D’ARTISTA

premessa di LIVIA SAVORELLI

Sempre stimolati dalla ricerca di nuovi campi di indagine e visioni “altre”, non potevamo non accettare la proposta di Raffaele Quattrone di dare nuova voce a questa intervista, a lui rivolta da sei artisti legati al curatore da un rapporto di profonda stima personale e professionale – Rosalía Banet, Kepa Garraza, Alessandro Moreschini, Shirin Neshat, Imran Qureshi, Antonio Riello – seguendo l’invito a sua volta ricevuto da Gabriele Landi, ideatore di Parola d’Artista, un format interamente sviluppato su Facebook o meglio, come lui stesso ama definirlo, “un luogo immateriale dove incontrare l’Arte Contemporanea”.
Di questo crossover tra la nostra testata e Parola d’Artista, abbiamo molto amato il rovesciamento dei ruoli con l’artista che diventa “intervistatore” e che indaga, dall’interno e sulla base del proprio vissuto, il ruolo del curatore, anche in relazione alle dinamiche di relazione con l’artista stesso.
Ma non vogliamo svelarvi di più, vi lasciamo alle parole di questo intenso dialogo a più voci…

RAFFAELE QUATTRONE intervistato da Rosalía Banet, Kepa Garraza, Alessandro Moreschini, Shirin Neshat, Imran Qureshi, Antonio Riello

Rosalía Banet, Installation view of the Burned Banquet

Rosalía Banet: Nel 2016 ho partecipato ad un programma di residenza per artisti presso la Real Academia de España in Roma. Lì ho realizzato un’installazione, un banchetto bruciato, attraverso la quale riflettevo sull’attuale crisi sociale, la fine di un sistema insostenibile e l’inizio di una nuova era ancora da definire. Durante l’anno in cui ho soggiornato a Roma ho avuto molti e vari professionisti che sono venuti a visitare il mio studio. Tutti, in un modo o nell’altro, hanno aggiunto conoscenze al progetto. Raffaele Quattrone è stata la prima e la più ricca di tutte le visite. La sua prospettiva che unisce sociologia e arte, le sue raccomandazioni, il suo punto di vista e lo scambio di idee hanno contribuito in modo sostanziale al mio progetto, che era nella sua fase iniziale in quel momento. Da allora, ho riflettuto molto sulla necessità di un contatto permanente tra artisti e curatore o altri esperti. Vorrei chiedere a Raffaele questo: pensi che dovremmo riconsiderare il rapporto tra artisti e curatori e il posto che ciascuno di loro ha nel processo creativo?
Raffaele Quattrone
: Mi piacerebbe che l’artista fosse, come è logico che sia, il centro del mondo dell’arte e che fosse lui a scegliere e non ad essere scelto. Ad oggi, anche se gran parte dei miei colleghi dirà esattamente il contrario, se escludiamo i top-artist, il rapporto curatore-artista è un rapporto sbilanciato nel quale non mi riconosco e non mi sono mai riconosciuto. Il curatore deve essere una “persona di fiducia”, una persona della quale ti fidi. E, in quest’ottica, è giusto che si rivolgano a lui artisti, gallerie, musei, ecc. Mi piace la capacità del curatore di “facilitare” le relazioni tra questi soggetti affinché ognuno possa dare il meglio, mi piace questa sua capacità di “mediare”. Non condivido il potere dei curatori che decidono tutto e rendono gli altri soggetti mere comparse di un copione già scritto che non ammette modifiche. Nessuno di noi ha la verità assoluta. La verità è un parametro negoziato. In questo senso dobbiamo lavorare molto. Questo ruolo di facilitatore può essere funzionale anche al processo creativo. Il curatore può aiutare l’artista a tirare fuori il meglio senza forzature, senza manipolazioni. Significa dare all’artista elementi utili alla creazione cioè per esempio interrogarsi sul perché realizzare un’opera in un modo rispetto ad un altro, per quale pubblico si sta creando, cosa si vuole comunicare e se ci sono modalità alternative di comunicazione, se qualcun altro si è già espresso in quel modo o su quel tema e così via per definire meglio il progetto ampliando le angolazioni di analisi e prospettiva. In questo senso sì, mi piacerebbe che si riconsiderasse questo rapporto portando il curatore al servizio dell’artista (nel senso prima espresso) e non l’artista al servizio del curatore.

Installation view of Kepa Garraza’s B.I.D.A. (Brigadas Internacionales para la Destrucción del Arte) at Salvador Díaz gallery, Madrid

Kepa Garraza: Raffaele, ricordo che la prima volta che abbiamo parlato era il 2009 in occasione della mia mostra B.I.D.A. (Brigadas Internacionales para la Destrucción del Arte) alla Galleria Salvador Díaz di Madrid. Sono passati diversi anni da allora e il mondo oggi è davvero molto diverso da quei giorni. Credi che l’arte, ed in particolare la pittura, siano in grado di riflettere questo processo estremamente rapido di trasformazione delle nostre società?
Il mondo, le nostre società cambiano continuamente e questo è legato alla loro capacità di adattarsi ai cambiamenti per poter sopravvivere. È una cosa normale e questo non deve in nessun modo spaventarci. La pittura, l’arte e più genericamente la cultura, hanno un ruolo fondamentale nella nostra esistenza perché tutta la nostra esistenza è cultura. L’antropologo Burnett in Primitive culture scriveva: «La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società». Dunque anche quei soggetti che sviliscono la cultura o non le danno la giusta attenzione, nel loro agire stanno facendo paradossalmente cultura. Noi siamo cultura. Detto questo, credo che l’arte possa ancora giocare un ruolo fondamentale per il futuro della società perché sinonimo di creatività e creazione e la nostra vita è creazione continua. Molto sta anche nel fatto che il mondo dell’arte deve fare più “squadra”, acquisendo così un maggiore riconoscimento sociale. L’epidemia sta cancellando le varie espressioni della cultura. Musei, cinema, teatri sono chiusi. È il momento giusto per dimostrare quanto certe attività siano importanti. Ma per farlo dobbiamo essere una squadra e non giocare da soli, altrimenti la partita è già persa. Da sempre sostengo la pittura e trovo che sia sempre in grado di esprimere il fermento sociale e culturale. Il “saper fare”, la lentezza dell’esecuzione, il saper aspettare che sottostanno alla pittura sono elementi essenziali da valorizzare sempre e, in modo particolare, nel mondo contemporaneo dove tutto sembra facile e possibile senza sforzo.

Alessandro Moreschini, ORA ET LABORA, tempera acrilica sul metallo di 86 chiavi inglesi 16 x 3 x 0,4 cm cad., 198x154x6 cm 2004, opera in collezione permanente MAMbo, Museo Arte Moderna Bologna. 2019 – Sala delle Colombe, Fondazione Rocca di Vignola (MO). Photo credit: Lucia Biolchini

Alessandro Moreschini: È davvero tanto tempo che ci conosciamo, e la mia domanda vuole riportare la tua attenzione al 2003, quando venni invitato alla Sharjah Biennial 6 negli Emirati Arabi Uniti. I curatori Hoor Al Qasimi e Peter Lewis selezionarono 118 artisti provenienti da tutto il mondo, ed io ero tra quelli, trentacinquenne al mio primo invito ad una biennale internazionale… Ti parlai del mio progetto per la biennale e il tuo contributo fu fondamentale per tutte le comunicazioni intercorse con i curatori e gli altri addetti. Le mail erano continue, soprattutto nel marzo 2003 dopo la dichiarazione di guerra degli USA nei confronti dell’Iraq… Ricordi tutte le tratte aeree vennero modificate, gli organizzatori erano disperati, non era chiaro come sarebbe andata a finire, ma poi tutto andò a finire bene, l’8 aprile 2003 si inaugurò SB6!
Cosa ricordi di quella Biennale, cosa ti colpì, fu veramente la biennale della svolta!? Come negli intenti dei curatori. Noi eravamo là ricordi!? Proprio tra pochi giorni verrà presentata la nuova SB15 e non a caso vedo che viene utilizzata la stessa immagine della Sharjah Biennal 6 del 2003.
Sì sì ricordo benissimo tutto, anche il contesto storico-politico che non era dei migliori, c’era molta paura, gli aerei facevano un giro diverso… I curatori volevano inaugurare una nuova era orientata all’arte contemporanea internazionale ed è evidente, a distanza di tanti anni, che non si trattava soltanto di uno spot ma di un impegno che è continuato negli anni e che colloca quella biennale nel contesto internazionale delle biennali di primo piano. Ricordo che c’erano pochissimi italiani e, anche nelle edizioni successive, le presenze italiane sono sempre state centellinate così come succede anche alla Biennale di Venezia dove, pur giocando in casa, le presenze italiane sono sempre scarse. Credo che in Italia ci siano ottimi artisti come te che però faticano a trovare occasioni all’estero perché ovviamente gli altri Stati preferiscono piazzare i loro artisti ma, anche nella stessa Italia, poiché per non peccare di nazionalismo siamo molto spesso esterofili. Se guardiamo agli ultimi decenni, nell’emirato di Sharjah ci sono stati alcuni dei progetti artistici più interessanti al mondo a testimonianza di un fermento artistico che da allora non si è mai arrestato. E mi fa piacere aver vissuto quell’inizio grazie al tuo coinvolgimento.

Shoja Azari, Mohsen Namjoo, Shirin Neshat, Passage Through The World. Photo credit Luciano Romano

Shirin Neshat: Da quando ci siamo incontrati, sono rimasta colpita dalla tua dedizione come curatore per come segui con passione il lavoro degli artisti dei quali scrivi. In particolare ricordo il tuo impegno nel seguire tutte le iterazioni di Passage Through the World, una performance multimediale che ho fatto in Italia con Shoja Azari, Mohsen Namjoo e il gruppo vocale femminile italiano Faraualla. Concepita a Bari, l’opera è stata presentata a Napoli e, infine, a Reggio Emilia. Sei riuscito a vedere e scrivere di questo lavoro in tutte le diverse città nel corso di diversi anni, un impegno da parte di un curatore che per un artista è molto significativo.
Si può dire che l’impegno a seguire il lavoro e gli artisti di cui scrivi nel tempo è al centro della tua pratica di curatore?
Cerco di svolgere il mio lavoro con passione e rispetto per gli artisti ed il loro lavoro. Dove rispetto significa per me non solo attenzione per il lavoro ma anche stima per il tempo che l’artista mi dedica per raccontarmi le sue opere. E questo lo vivo come un grande privilegio in un mondo dove andiamo sempre di fretta, abbiamo mille cose da fare e il tempo è sempre prezioso. Spesso faccio delle domande per capire meglio qualcosa, ma preferisco non avere un atteggiamento “indagatore”. Il mio obiettivo non è giudicare ma capire e riflettere insieme. Seguire nel tempo il lavoro di un artista è un grande privilegio perché conosci l’opera ma conosci anche il percorso che ha portato a creare quell’opera così come è, conosci il successo ma anche la sofferenza e l’impegno che hanno portato a quel successo.

Shoja Azari, Mohsen Namjoo, Shirin Neshat, Passage Through The World. Photo credit Luciano Romano

Shirin Neshat: C’è qualcosa in particolare in questo lavoro (Passage Through the World) da cui sei stato attratto? Senti un’affinità con la cultura iraniana? Credi che ci sia una connessione culturale tra Italia e Iran / te stesso e il mio lavoro?
Passage through the World è un’opera creata nella mia terra di origine, la Puglia, in un momento nel quale cercavo di elaborare il lutto di mio padre. Un progetto artistico che affronta i temi della perdita e della rinascita attraverso il ciclo della vita e della morte così come affrontati dalle diverse culture dei paesi in cui questo percorso si snoda. In Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria dell’etnologo italiano Ernesto De Martino questi afferma che per scongiurare il crollo esistenziale di una persona di fronte al lutto, l’uomo ha la necessità di elaborare culturalmente il lutto nella forma codificata del rito che da un lato consente di ritrovarsi uguali agli altri nel dolore, dall’altro invece diventa promessa di risurrezione. Il lutto è un rito sociale di trasformazione della morte in vita, della disperazione in speranza, della solitudine in comunità. Così anche io, seguendo i vari adattamenti della performance, ho trovato, passo dopo passo, la forza e l’energia per andare avanti. Più che un’affinità con la cultura iraniana, diciamo che ne sono molto affascinato e magari un giorno, appena questa epidemia ce ne darà l’occasione, potrò visitare Isfahan, Kashan, Teheran, Yazd… L’Iran è indubbiamente uno dei luoghi del mondo più ricchi di storia, cultura e bellezza. Che ci sia una connessione tra Italia e Iran questo è innegabile, poiché la nostra cultura ha risentito molto dell’influenza persiana. Che ci sia una connessione tra me e te, già solo il fatto di avermi posto questa domanda è un grandissimo complimento per me, oltre qualsiasi aspettativa. Tu rappresenti la storia dell’arte contemporanea internazionale, sei un mito, io sono solo un curatore piccolo, piccolo che però è un tuo grande, grande ammiratore ed un amico sincero che ti segue sempre con affetto, stima, curiosità, interesse.

Imran Qureshi, Still Breathing, 2020

Imran Qureshi: Caro Raffaele non ci siamo mai incontrati di persona ma ho fatto parte della tua meravigliosa pubblicazione (New Faustian World) e questo mi ha fatto riflettere sul tuo modo di lavorare che ho trovato totalmente diverso da molti altri scrittori/storici. Era più come un progetto curatoriale e tu hai allestito le mie opere d’arte nel tuo libro, così come si fa in uno spazio artistico! Sono curioso di sapere se è la prima volta che hai lavorato in questo modo per questa specifica pubblicazione o è il tuo solito modo di lavorare con gli artisti?
Sono anche curioso di conoscere il tipo di dettagli che avevi in mente per presentare il tuo testo con immagini di opere d’arte, il design era qualcosa che ti interessava allo stesso modo mentre scrivevi il libro? Se sì, hai mai curato una mostra anche in una galleria prima o hai intenzione di farlo nel prossimo futuro?
Caro Imran, si è vero non ci siamo mai incontrati di persona ma in compenso abbiamo molto spesso parlato al telefono o per email. Mi sono innamorato della tua pratica artistica in occasione della Sharjah Biennial 2011 e, da allora, ti ho sempre seguito con grandissimo interesse. Ricordo che, quando abbiamo parlato in occasione della tua installazione a San Gimignano nel 2017, feci proprio un passo indietro nel tempo a quando ho scoperto la tua pratica artistica nel 2011 e ricordo che rimasi affascinato e profondamente colpito dai tuoi racconti sulle persone che visitavano l’installazione e si commuovevano vedendo in essa il proprio dolore. Ritornando a NewFaustianWorld, sì ho lavorato molto per renderlo significativo anche dal punto di vista visivo. Non credo sia molto diverso organizzare ed allestire una mostra e scrivere un libro interessato a raccontare la pratica di alcuni artisti. Quando ho scritto il testo avevo ben in mente cosa scrivere ma anche le opere degli artisti che, in un qualche modo, potevano essere legate a quel testo. Come ti ricorderai, la scelta delle immagini è stata fatta insieme, anche il testo lo abbiamo riguardato insieme. Per me si tratta sempre di un lavoro di squadra e per questo il coinvolgimento degli artisti è fondamentale. Da quando ho iniziato quest’attività di curatore, oramai più di 10 anni fa, ho avuto il piacere di curare moltissime mostre sia in spazi privati che pubblici. Non ho avuto ancora l’onore di curare una tua mostra… speriamo di farlo presto!!!!

Antonio Riello, JERUSALEM, 2021, biro blu su carta, 105×90 cm

Antonio Riello: Tra le tante affinità che accomunano Cucina e Arte Contemporanea, trovo particolarmente affascinante l’attitudine ad essere “raccoglitori” recuperando materie prime (o idee) sparse nel territorio (materiale anonimo e senza un “copyright” vero e proprio). Raccoglitori nel senso caro a Beuys ovviamente. Credo sia anche importante un certo condiviso ri-adattare gli “avanzi”. In un caso i resti del giorno prima diventano pasticci, polpette o ricchi tortellini. Nell’altro lavori incompiuti e messi da parte (magari da molto tempo) si trasformano improvvisamente in opere sorprendenti. Tu, Raffaele, che ne pensi?
Raccogliere, accogliere, prendere sono tutte azioni che esprimono il nostro essere nei confronti dell’altro, il nostro “legarci” all’altro, il nostro aprirci al mondo. E questo in un senso reciproco nel senso in cui noi accogliamo l’altro e l’altro (il mondo che già esiste quando noi nasciamo) accoglie noi. C’è un movimento rapido del mondo rispetto al futuro, e la complessità sociale contemporanea sommata alla velocità con cui creiamo e dimentichiamo rischia di portarci indietro piuttosto che avanti. Sembra che ogni informazione sia reperibile su internet, quindi che tutto abbia una risposta. E questo è terribile sia perché non ci poniamo più domande fondamentali sia perché diventiamo sempre più pigri, perché l’abitudine lede la nostra capacità di meravigliarci, in senso filosofico. Da questo punto di vista sono pienamente d’accordo con te, che nel tuo ultimo progetto parti da elementi quotidiani presenti in cucina e da elementi semplici di creazione artistica (la biro e la carta) per meravigliarci di cose che siamo abituati a considerare ovvie, banali, ordinarie. Dobbiamo cambiare il modo in cui guardiamo il mondo, meno passivo e più attivo.

Raffaele Quattrone ritratto da Fabrizio Scopece. Make up artist Alessia Luminari. Courtesy Gleam Photostudio, Roma

Raffaele Quattrone è un sociologo e curatore di arte contemporanea che vive e lavora a Bologna e Roma. È collaboratore del Wall Street International Magazine e ambasciatore del progetto Terzo Paradiso creato dall’artista Michelangelo Pistoletto. Ha scritto tre libri sull’arte contemporanea incluso NewFaustianWorld, edito da 24 ORE Cultura dal quale è stato tratto anche un documentario prodotto da Sette e Mezzo Studio. Collabora con la Real Academia de España en Roma dove ha curato la mostra Oltre ogni ragionevole dubbio. Alberto Di Fabio – Kepa Garraza e co-curato la mostra L’ultimo Espaliù insieme a Xosé Prieto Souto y Rosalía Banet. È stato presidente del dipartimento Emilia Romagna dell’Associazione Nazionale Sociologi e fondatore ed editore della rivista Startup.

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