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Italiani all’estero: Arianna Carossa

a cura di Silvia Conta

Il grande meriggio di New York

Arianna Carossa è nata a Genova nel 1973. Vive e lavora tra New York e Genova.

Arianna Carossa si è trasferita a New York cinque anni fa, mantenendo però un saldo legame con la Liguria, sua terra d’origine, nella quale trascorre lunghi periodi durante l’anno. Con il tempo i due luoghi hanno assunto, con naturalezza, due differenti ruoli: se la metropoli è il luogo frenetico del guardare mostre, frequentare incessantemente il mondo dell’arte, decodificare espressioni e linguaggi, generare idee, i soggiorni in Italia divengono il momento di “decompressione”, occasione per un fare più manuale e lento, riflessivo, legato soprattutto alla ceramica, senza tralasciare la ricerca legata all’installazione e alla performance. L’oscillare tra queste due realtà ha fatto fiorire, nella poetica dell’artista, una consapevolezza e un ripensare l’opera d’arte che giunge a poter fare a meno della realizzazione dell’opera rinunciando alla sua materialità, affidandola alla parola e alle dinamiche della comunicazione tra due persone, ma immettendolo nel circuito dell’arte. Per aiutarci ad entrare nel gioco di questa perfetta capacità di muoversi tra il visibile oggettivo e il “visibile mentale” Arianna Carossa propone qui la sfasatura immediata tra immagine e discorso di poetica che nel tempo la sta conducendo verso indagini via via più estreme.

Il lavoro che l’artista ci ha proposto per Postcards to Italy, è Red elephant broken, realizzato ad Albissola Marina (SV) all’inizio del 2015 e creato attraverso l’assemblaggio di tre differenti frammenti di altrettanti oggetti in ceramica già esistenti e firmate dall’azienda Lenci – un elefante, un vaso e la figura di un bambino – che l’artista unisce tra loro e sottopone poi a quattro nuove cotture per fissarle in un pezzo unico. In questo lavoro è evidente uno dei fondamenti della poetica della Carossa: la sua “ossessione per l’oggetto” (materiale) che le impone di rinunciare alla creazione di nuovi oggetti nella prospettiva di quella che lei stessa definisce “una sorta di ecologia dell’oggetto” che declina lavorando solo con elementi già esistenti – siano essi sue precedenti creazioni o oggetti prelevati dalla quotidianità – per non diminuire quello spazio vitale che oggi sembra essere eroso dall’incremento di oggetti.

Con il suo trasferimento negli Stati Uniti l’artista ha sviluppato questa stessa ossessione verso l’immagine generata, da un lato da quella che lei stessa definisce “la iper-democratica sovrabbondanza d’immagini” che si riscontra dai social network alla pubblicità, e dall’altro – più specifico – dal circuito delle arti figurative, in cui è presente una produzione ininterrotta ed enorme di immagini, che nella stragrande maggioranza dei casi non vengono nemmeno metabolizzate ne dal pubblico ne dal mondo dell’arte stesso, producendo un consumo pressoché immediato dell’immagine, anche al di là del suo significato, appiattendo tutto a livello di puro dato visivo e rendendo ogni manifestazione visiva uguale a tutte le altre, quindi irrilevante.

Arianna Carossa, Red elephant broken, 40x28x 25 cm, ceramic 2015, courtesy dell’artista

Il solo atto artistico possibile in questa lettura dello stato dell’arte diventa un atto estremo: la rinuncia totale alla creazione di immagini, e non solo di nuovi oggetti come in Red elephant broken. Ed ecco la ragione di quest’opera in questa rubrica: l’”ultima cartolina” possibile da questa sospensione tra l’Italia e New York, prima dell’annullamento del dato visivo oggettivo.
Il passo successivo per la Carossa diviene, infatti, The aestehtic of my disapparence (casa editrice Blisterzine), un volume in continuo ampliamento ora alla sua seconda “edizione”, che raccoglie undici interviste (nove quella precedente, del 2014 presentata all’Art Book Fair al MoMA PS1 di New York), in cui l’artista ha invitato altrettanti curatori (Marco Antonini, Andrea Balestrero, Barbara Meneghel, Maria Chiara Valacchi, Chelsea Haines, Ebad Ebad, Stefan Pollak, Giangavino Pazzola) a porle, ciascuno, una decina di domande in merito ad mostra con opere dell’artista e da lei/lui ipoteticamente curata in luoghi reali da lei/lui scelti – ad esempio con Ebad Ebad la mostra è stata immaginata all’interno del Taj Mahal, con Marco Antonini in una centrale elettrica ConEd a Brooklyn, con Barbara Meneghel alla Wrong Gallery sempre di New York – ma in realtà mai avvenuta e costituita da opere mai realizzate (e che nell’idea attuale non lo saranno mai). Le due nuove interviste che saranno con Lorenza Baroncelli con un’ipotetica mostra presso il Cern di Ginevra e con Jeanne Brasile sul traghetto che collega Manhattan al New Jersey.

Le domande vertono sul concept della mostra, sulle opere esposte e sulle loro caratteristiche, sull’allestimento, etc. Ad esse l’artista risponde con un processo contrario a quello consueto: deve “reagire” alle domande dei curatori, inventando ogni singolo elemento, invertendo così il processo secondo cui le domande nascono dall’osservazione dell’opera d’arte e dall’esperienza della visita alla mostra. In questo procedimento sono, di fatto, le domande dei curatori a dare una “struttura” alle mostre, ad evocare quali e quante opere ci siano, nonché le loro caratteristiche estetiche. Il volume costituisce così l’ingresso visibile e tangibile in una dimensione volutamente invisibile e immateriale che impone un discorso molto preciso sull’arte visiva e una riflessione sul suo potere evocativo, riconsegnando – nelle intenzioni dell’artista – l’oggetto artistico alla sua dimensione simbolica e ad una metafisica ricca di sacralità (in senso non religioso).

Benché il contenuto delle interviste verta su un dialogo sulla presenza di opere immaginarie in luoghi reali, l’artista – di fatto – apre il vaso di Pandora riguardo numerosi punti nevralgici dell’arte contemporanea (e non solo): dal rapporto tra opera e spettatore a quello tra opera, artista e critico, passando per il legame tra l’elemento visivo e la parola e stuzzicando le implicazioni relative al mercato dell’arte e a quella “necessità di coerenza” che all’artista viene spesso richiesta da galleristi, collezionisti e pubblico a favore di una presunta riconoscibilità.

L’”estetica della sparizione” è quindi un tuffo nella negazione dell’immagine e della fisicità dell’opera d’arte verso quello che l’artista chiama “l’inizio del silenzio” (“visivo”) da cui può ripartire un ripensamento del senso del fare artistico e un nuovo rapporto estatico, oltre che estetico, con l’opera d’arte.

Appuntamento con Postcards to Italy #10 a settembre con Matteo Fato

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