MESTRE | Galleria Massimodeluca | 17 febbraio – 17 marzo 2018
Intervista a FILIPPO BERTA di Elena Inchingolo
Oggi, sabato 17 febbraio, nell’ambito dell’iniziativa Venice Galleries View, inedito progetto di collaborazione, che coinvolge nove gallerie di Venezia – A plus A, Alberta Pane, Beatrice Burati Anderson, Caterina Tognon, Ikona, Marignana Arte, Massimodeluca, Michela Rizzo, Victoria Miro – unite per valorizzare e sostenere l’arte contemporanea sul territorio veneziano, inaugura, presso la Galleria Massimodeluca, la mostra personale di Filippo Berta, A nostra immagine e somiglianza, a cura di Angel Moya Garcia.
In un confronto con la gallerista Marina Bastianello chiediamo che cosa l’abbia spinta ad iniziare la collaborazione con l’artista: «Seguo Filippo Berta da diversi anni. Il suo lavoro è dirompente. L’opera di cui mi sono letteralmente innamorata è Homo Homini Lupus. La voracità e la forza dei lupi che strappano la bandiera italiana è metafora, a mio avviso, del modo con cui noi ci occupiamo della nostra terra… La dilaniamo… È un messaggio molto forte… Filippo si inserisce pienamente nella mission della galleria che prevede il sostegno ai giovani artisti unitamente ad una continua ricerca per collaborazioni interessanti che conducono un lavoro di ricerca. Inizialmente la galleria seguiva gli artisti nati negli anni Ottanta. Nell’ultimo anno sono entrati a far parte della selezione di artisti della galleria anche quelli, come Filippo Berta, nati negli anni Settanta, che io considero comunque emergenti».
Filippo Berta (1977), artista poliedrico, sceglie il linguaggio diretto della performance per attivare una riflessione sulle relazioni tra individui, in equilibrio precario tra natura emotiva e ruolo sociale.
Abbiamo incontrato l’artista in occasione dello svolgimento della performance A nostra immagine e somiglianza, realizzata in uno spazio post-industriale di Mestre lo scorso 27 gennaio, come prequel della mostra personale omonima. La parola a Filippo Berta…
A nostra immagine e somiglianza è un’azione collettiva in cui un gruppo di persone sono impegnate a fissare, in simultanea, un chiodo alla parete, in punta di piedi, in modo da raggiungere il punto più alto possibile per i propri corpi. Ai chiodi, in un momento immediatamente successivo verranno appesi crocefissi identici. Qual è il messaggio che vuoi trasmettere con questa performance?
Il lavoro essenzialmente riflette sulla necessità dell’essere umano di raggiungere alcuni limiti, infatti, in questo caso, metaforicamente viene rappresentato un limite corporeo ovvero l’altezza massima che il corpo di ogni singolo performer riesce a raggiungere nel posizionare il chiodo. Successivamente appendendo i crocifissi ai chiodi si va ad identificare una linea, un confine che definisce un sotto e un sopra, nel tentativo di raggiungere il proprio limite massimo. La particolarità del risultato finale è l’imperfezione di tale confine, che manifestando in modo evidente i limiti di ciascuna persona, demarca una linea irregolare.
L’azione performativa è la prima parte di un progetto più ampio, a cura di Angel Moya Garcia, che verrà esposto, dal 17 febbraio al 17 marzo 2018, presso la Galleria Massimodeluca di Mestre. Puoi darci qualche anticipazione?
Quest’opera performativa si configura come la prima parte di un trittico. In particolare, alla Galleria Massimodeluca presenterò il video, esito della performance, corredato da una serie di immagini fotografiche pensate e studiate in assoluta sintonia con il disegno del progetto preliminare in un percorso processuale abituale nei miei lavori.
Ogni atto performativo prevede, inoltre, un’immagine iconografica dedicata e collocata o all’inizio o al termine dell’azione, che diventa dispositivo semantico imprescindibile, foriero del senso dell’opera.
È dal 2007 che attraverso installazioni e azioni performative proponi allo spettatore il tuo fare arte. Puoi citare i lavori che hanno particolarmente segnato il tuo percorso artistico?
Ho iniziato a lavorare con il disegno, poi con l’installazione, per un breve periodo, fino ad approdare alla performance. Il mio non è stato un percorso accademico tradizionale, mi occupavo di tutt’òaltro e ho capito di volermi dedicare all’arte performativa quando ho metabolizzato che mi interessava rappresentare l’essere umano e i suoi comportamenti. Da quel momento ho pensato di attuare la mia indagine attraverso azioni corali, nelle quali il soggetto è il performer stesso, ovvero l’essere umano. La mia prima performance è stata realizzata a Bergamo, coinvolgendo un gruppo di immigrati che fischiava, in loop, una canzone popolare bergamasca, lungo uno dei due lati della strada principale del centro storico. Dal lato opposto della via si collocavano i cittadini di Bergamo e in maniera naturale si veniva a concretizzare quella distanza tra i due gruppi, gli immigrati e i bergamaschi, che, da qualche tempo, anima la realtà sociale di Bergamo.
Nel 2008 realizzai la performance Déjà vu, premiata alla Quarta Edizione del Premio Internazionale della Performance curato da Fabio Cavallucci, al tempo direttore della Galleria Civica Arte Contemporanea di Trento. Nell’azione performativa sei coppie di gemelli omozigoti formano due schieramenti speculari, impegnati in un agguerrito tiro alla fune. Un tratto rosso spicca dal centro delle corde definendo il confine che separa le fazioni del dualismo, ma questa linea si spezza in continuazione a causa dell’incessante lotta senza alleanze (o è mio, o è tuo). Il generale desiderio di predominanza sull’altro rende il confine labile e instabile. Nel 2011 presentai Homo Homini Lupus, un atto performativo condotto da un branco di lupi, impegnato in una strenua lotta per il possesso di una bandiera italiana che sotto la forza dei denti di ciascun lupo si lacera inevitabilmente. L’oggetto viene difeso dal più forte, come se fosse l’unica ragione di esistenza; il suo possesso è affermazione per il capo-branco. Nell’opera si visualizza per traslato, la “ferinitas” del genere umano che lotta per la sopravvivenza.
All’interno di questa selezione vorrei inserire anche la performance Il cerchio è solo una forma perfetta, risultato finale del workshop I fallimenti collettivi, sviluppato dal 13 al 18 novembre 2017, da me e da Angel Moya Garcia presso la Tenuta Dello Scompiglio, in cui sono stati coinvolti dieci residenti in una riflessione approfondita su aspetti pratici e teorici dell’atto performativo.
E’ una performance che ritengo significativa non solo da un punto di vista semantico, ma anche procedurale, in quanto è stata pensata per durare circa 3 ore, un tempo molto più dilatato rispetto alle mie azioni precedenti della durata di pochi minuti, da 2’ a 5’. L’essere umano impegna la sua vita nella ricerca di un ruolo nella società d’appartenenza. Questa condizione produce infiniti tentativi individuali tra loro intrecciati e animati da tensioni e dualismi. Nel mezzo di questo disordine, le ideologie politiche e religiose propongono regole e soluzioni per una società perfetta. L’opera indaga tali attraverso un tentativo dichiaratamente fallimentare di creare un cerchio perfetto solo attraverso le relazioni e le collaborazioni interpersonali. Una ricerca in loop, in cui ognuno dei partecipanti deve assumersi la propria responsabilità all’interno della collettività di riferimento e di appartenenza. In pratica ogni persona soffia in un tubicino in plastica per consentire ad un cerchio nero nell’acqua – un buco nell’acqua – di mantenere la propria forma; se il soffiare di un partecipante si affievolisce, il cerchio perde la propria perfezione…
Il limite, il contrasto, il dualismo sono tematiche che spesso indaghi nel tuo processo creativo. Nelle tue riflessioni sono presenti anche il successo e il fallimento? A quale suggestioni visive li associ?
Sì è vero. Come avrai potuto notare, penso al quadrato, al cerchio e alla linea, figure geometriche che nei miei lavori normalmente si sfaldano o diventano imperfette. Nel caso di A mia immagine e somiglianza, la linea si spezza, è irregolare, nel dimostrare le differenze tra individui. Al Madre di Napoli, nel 2013, nella performance ALLUMETTES, un gruppo di persone accende un fiammifero dopo l’altro rendendo visibile il quadrato creato dall’unione dei loro corpi. Questo gesto ostinato si dimostra fallimentare quando le prime persone, avendo terminato i fiammiferi a loro disposizione, abbandonano il gruppo decretando un lento processo di dissolvimento del quadrato.
Per quanto riguarda il cerchio mi riferisco alla performance appena citata Il cerchio è solo una forma perfetta, nella quale il cerchio, considerato immagine divina, tende a perdere la sua perfezione a causa del “presunto fallimento” di un solo individuo tra coloro che concorrono a comporre un’azione collettiva.
Individuo e società sono spesso posti a confronto nelle tue progettualità. L’essere umano e la sua condizione sono i protagonisti delle tue opere. Qualcosa cambia a livello formale in Homo Homini Lupus, video realizzato nel 2011. Ci puoi spiegare come nasce questo lavoro?
Homo Homini Lupus nasce nel 2009, in seguito alla mia partecipazione ad un workshop dedicato al tema della bandiera, curato da Marza Migliora.
È un lavoro che mi sono autofinanziato. Prima della realizzazione effettiva, avvenuta nel 2011, sono trascorsi circa due anni e mezzo, in cui ho riflettuto e metabolizzato sul senso del lavoro e sul suo processo creativo. In genere credo molto nell’azione del tempo per prendere consapevolezza del compimento definitivo del mio lavoro, della presenza di quel rapporto orizzontale e immediato con lo spettatore che permette all’opera di essere percepita e compresa, empaticamente, nella sua essenza. In questo caso ho scelto il branco di lupi, come soggetto dell’opera, perché vi è una grande similitudine tra il lupo e l’uomo, che ha necessità di vivere in una società, con regole ben definite, con l’eccezione del “lupo solitario”, che nell’intento di rifiutarle, conferma tali norme.
Progetti per il futuro?
Pensando al futuro mi viene in mente un progetto che ho in archivio da due anni.
Si tratta di una riflessione sulle linee di confine definite da fili spinati. Immagino un’azione molto semplice nella quale il rumore del gesto sarà elemento fondamentale…
L’esito finale del lavoro sarà un video, ambientato al confine tra Ungheria e Croazia o Turchia e Macedonia… Quei Paesi che ancor oggi sono separati da un filo spinato…sarà un intervento su ogni singola spina… Ci sto lavorando…
Filippo Berta. A nostra immagine e somiglianza
a cura di Angel Moya Garcia
17 febbraio – 17 marzo 2018
Inaugurazione sabato 17 febbraio 2018, ore 18 – 20.00
Galleria Massimodeluca
via Torino 105/Q, Mestre (Venezia)
Info: +39 366 6875619
info@massimodeluca.it
www.massimodeluca.it