RIVOLI (TO) | Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea | 16 settembre 2018 – 6 gennaio 2019
di MICHELE BRAMANTE
Dopo la mostra al Centre Pompidou, l’artista indiana Nalini Malani approda al Castello di Rivoli con una retrospettiva che ne illustra il percorso iniziato da quasi cinquant’anni. Tra i primi artisti in India ad esplorare i linguaggi contemporanei, Malani innesta sugli esordi modernisti critica sociale e riflessione postcolonialista, cronaca contemporanea e spiritualità, per scoprire una costante sotterranea nella violenza.
Con le sue opere, Malani avvolge il pubblico nell’esperienza di una piena immersione, resa intensa a partire dalla sensorialità eccitata ed assorbente dei colori, molto spesso primari e rivelatori di una premeditazione pittorica. Una padronanza che subito si dissolve nella loro espansione liquida e spontanea. L’artista parla di empatia, ma quello che sorprende i sensi è piuttosto una fusione nei passaggi di continuità tra gli scivolamenti delle immagini e la loro percezione, diluiti nella stessa atmosfera in cui si trovano sospese le installazioni ambientali e le mescolanze della pittura. È più facile sentirle scorrere sulla lingua, o patire la tentazione di allungare la mano per ungerla nei fluidi e tastare le diverse consistenze, che cercare di afferrarne le forme.
Soggetto ed opera circolano uno intorno all’altro, l’uno dentro l’altro, precipitando nel centro della stessa spirale e riemergendo ai suoi bordi. Le immagini si infiammano per impregnare tutto l’occhio fino al cervello, poi si allontanano nuovamente per lasciarsi osservare; la tentazione tattile e subacquea dello spettatore si ritrae per riposare nella distanza visiva dalle raffigurazioni.
Il tempo è il liquido che inonda pitture e ambienti, attraversati da suoni e immagini fluttuanti. Le sue correnti muovono in direzioni incrociate, su più livelli, in moti inclinati o ascensionali, in altre spire che rimestano di continuo interno ed esterno sull’orlo del presente. Organismi vermicolari trapassano tutta l’evoluzione terminando alle estremità con dei volti umani, vaporizzano in nuvole che trasportano visioni, uniscono entità lontane in cordoni ombelicali o cosmici. Scheletri e teschi estroflettono l’interno del corpo, la morte si sovrappone alla vita, le colonne vertebrali serpeggiano. Insieme ad essi, figure mitologiche che non appartengono a nessuna mitologia nota si combinano entro un’unica spiritualità mutante. Tra le eruzioni cellulari, alcune icone derivate dalla storia dell’arte si compongono con scene di violenza esercitata su diverse scale e con differenti pressioni sulla psiche.
L’insieme apparentemente incoerente non è l’effetto di un accostamento casuale di elementi eterogenei. C’è una densità continua che incolla le diverse formazioni, adattandosi e riplasmandosi nei movimenti delle immagini e nei loro processi di apparizione e decomposizione. La densità variabile del tempo permea le opere esposte nelle sale al ritmo alternato di movimento e quiete, tra installazioni dinamiche e pittura, wall drawings e video. Non il tempo comunemente conosciuto nella sua divisione in istanti semplici. Il suo modello si accorda, piuttosto, con quella che il filosofo Henri Bergson ha chiamato “durata”: una successione di stati di coscienza all’interno del soggetto secondo intensità e qualità indeterminate destinate a conservarsi e a compenetrarsi. Il tempo coincide, dunque, con la memoria, personale, sociale e cosmica. La violenza inizia ad uno stadio primigenio, nella tragedia delle forze che lottano per affermarsi sul piano dell’esistenza; procede nella sopraffazione particolare, nell’abuso subito dalle donne, nella minaccia dei fucili puntati su una vittima – è Bakargiev a ricordare come lei e Malani, mentre lavoravano insieme alla mostra, vennero raggiunte e turbate dalla notizia dello stupro e omicidio di un’adolescente avvenuto in India. La violenza si eleva, infine, alla sfera collettiva globalizzata, ricadendo sulla psicologia individuale costretta a registrare conflitti, perturbazioni sociali e traumi personali che Malani restituisce attraverso le deformazioni di ombre e videoproiezioni sovrapposte, sovvertendo lo spazio e straziando i corpi.
L’opera di Malani è un moto continuo attraverso le linee della coscienza e del corpo, tolti alla loro interiorità per essere esposti a una cruda visione, di cui diventa emblema la bocca spalancata ripresa da uno sguardo talmente ravvicinato che sembra voglia farsi ingoiare. Accanto ad essa scorrono immagini della storia politica indiana, il Mahatma Gandhi, una vacca sacra, altri volti anonimi sfigurati. Ripetutamente, come per un’icona pop, viene impresso ed esibito anche il cervello, organo, secondo Bergson, nel quale hanno sede i processi di reazione meccanica dei ricordi, che ad un livello più profondo dipendono dalla memoria pura e spirituale della “durata” interiore.
La mostra si dispiega esteriormente come un’esplorazione interna alla memoria universale del mondo, punteggiata da aree appartenenti alla dimensione più intima dell’artista. Essa si apre per ricevere in sé le diverse storie dei visitatori, dando luogo, nel contempo, a un’esperienza destinata ad aggiungersi ai loro vissuti.
Nalini Malani: The Rebellion of the Dead / La rivolta dei morti
Retrospettiva 1969-2018. Part II
a cura di Marcella Beccaria
In collaborazione con il Centre Pompidou, Parigi
18 settembre 2018 – 6 gennaio 2019
Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea
Piazza Mafalda di Savoia, Rivoli (TO)
Info: +39 011 9565222 – 9565280
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