Intervista a MARIO CRESCI di Alessandro Trabucco
Alla GAMeC di Bergamo si è appena conclusa una grande mostra antologica, dedicata ad un maestro della fotografia contemporanea: Mario Cresci. Già dal titolo, La fotografia del no, si poteva intuire quanto la sola definizione di “fotografo” stia piuttosto stretta a Cresci, il cui lungo percorso, ormai cinquantennale, dimostra al nostro sguardo di osservatori contemporanei la complessità di un pensiero artistico sempre attento ai mutamenti linguistici, tecnici e sociali che gradualmente si sono sviluppati in tutti questi anni di intensa attività.
Dare una definizione alla tua ricerca artistica non è semplice, soprattutto riassumerla in poche pagine, anche perché non classificabile secondo degli schemi prestabiliti. Quindi, inizierei dal presente: una mostra antologica è una sorta di grande riconoscimento istituzionale, un traguardo di grande prestigio. Cosa significa per te un’esposizione come quella organizzata alla GAMeC di Bergamo? Che responsabilità ti senti di dover sostenere (o “sopportare”) nei confronti del pubblico che è venuto a visitarla e, soprattutto, nei confronti della tua storia personale?
Vorrei iniziare questa intervista modificando alcuni termini della domanda, come “traguardo di grande prestigio”, per esempio, perché non considero questa mostra un traguardo quanto piuttosto un momento importante di transito e di verifica, come quando in una gara ti prendono il tempo di passaggio.
Quindi ritengo di dover sostenere questa mia “storia personale” soprattutto nei confronti di me stesso, più che del pubblico; solo attraverso questo momento di bilancio generale delle mie opere, capirò se potrò trasmettere il senso e il metodo del mio lungo percorso di ricerca.
Quali erano le caratteristiche principali di questa mostra, com’è avvenuta la progettazione alla luce della complessità della tua ricerca che non è esclusivamente fotografica ma si estende anche ad altre modalità espressive quali l’installazione, il video e la contaminazione di diversificate espressioni estetiche?
L’ideazione del corpus di questa mostra ha avuto proprio questa parola guida: contaminazione, nei contenuti che, come dici anche tu, non sono esclusivamente fotografici, ma comprendono anche installazioni e video, e nella destrutturazione del percorso storico, infatti in alcune sale convivono opere realizzate anche a cinquant’anni di distanza e, infine, nella scelta di ben sedici sguardi critici di varia appartenenza culturale.
La tua ricerca è l’esempio mirabile e pratico di un attraversamento epocale senza precedenti, sei infatti uno dei testimoni più autorevoli del passaggio dalla fotografia cosiddetta analogica alla tecnologia digitale. L’aspetto formativo ed educativo delle nuove generazioni, come direttore dell’Accademia Carrara di Bergamo, ha ricoperto un ruolo molto importante per te. Proviamo a ribaltare però la situazione: che insegnamento professionale, e soprattutto umano, ne hai ricavato?
Non è importante parlare di un’evoluzione che ritengo naturale da analogico a digitale, in quanto la mia passione per la sperimentazione non poteva trascurare le nuove possibilità espressive fornite dalla tecnologia digitale. Mi interessa piuttosto analizzare il mio rapporto con le nuove generazioni che ha portato e porta entusiasmo e dinamismo, anche nella mia ricerca personale.
Ritengo che per un docente sia importante, soprattutto nell’ambito delle materie artistiche, portare esperienza, cultura della ricerca, del progetto, ma soprattutto che sia disponibile ad accogliere quelle nuove forme di creatività proprie di ogni passaggio generazionale. Questo continuo scambio di energie stimola e vivifica da sempre anche la mia ricerca personale.
La fotografia può, secondo te, seguire le mode? Cioè essere negli anni ‘60 solo Pop, nei ‘70 solo “concettuale”, negli ‘80 solo figurativa e paesaggistica, e dagli anni ‘90 in poi solo digitale e con strabilianti effetti speciali?
La risposta a questa domanda è insita nel titolo della mostra: infatti il mio “no” è nello specifico un rifiuto dichiarato a tutte le mode e agli stereotipi usati da un certo tipo di critica di “comodo” che tende ad omologare di volta in volta la produzione artistica dei vari decenni. Sono definizioni che, alcune volte, condizionano gli autori stessi che pensano così di ottenere dei vantaggi di valutazione, di notorietà e quindi di vendita delle opere.
Che ruolo può ricoprire la fotografia nella nostra epoca social? Può ancora avere un’effettiva funzione sociale, come negli anni ‘60 e ‘70, oppure adesso è solamente relegata alla facilità esecutiva che deriva dalla diffusione dei nuovi mezzi e ad una più superficiale resa estetizzante fine a se stessa? Intendo dire: purtroppo è troppo facile essere “fotografi” oggi.
Non è “più facile essere fotografi oggi”, è più facile usare il mezzo fotografico e questo per analogia è come se, usando l’alfabeto, ci si potesse tutti definire “scrittori”: quindi la fotografia oggi è uno dei tanti mezzi che facilitano la comunicazione veloce, che superano le distanze. Certamente più che di “funzione estetizzante” parlerei piuttosto della diffusione in tempo reale di una quotidianità spesso banale, invadente e, a volte, anche pericolosa se gestita in modo imprudente dai giovanissimi. Sono valutazioni in chiaroscuro di un mezzo attualmente ad alta diffusione in ogni ceto sociale, cosa che non si poteva certo dire negli anni ’60 e ’70 quando fare il fotografo era principalmente un’attività professionale più legata al commercio e la fotografia cosiddetta artistica era di solito praticata nei circoli fotografici a livello amatoriale e di fatto non ancora sdoganata come opera d’arte da parte della critica.
Raccontaci dei tuoi riferimenti artistici, quelli che ritieni imprescindibili, gli artisti, o i fotografi, o i personaggi di altre discipline che hai guardato per delineare poi il personale ed articolato approccio al tuo linguaggio espressivo.
Proprio perché il mio linguaggio espressivo, come tu lo definisci, è personale e articolato, ritengo di non essere presuntuoso quando dico di non avere riferimenti imprescindibili. I continui transiti formali, infatti, e la molteplicità dei miei progetti, si sono alimentati di volta in volta di numerose personalità appartenenti a più aree della cultura non solo artistica anzi più spesso a discipline diverse come la filosofia e la letteratura.
Se ti dicessi Duchamp, Picasso oppure gli artisti dell’Arte Povera, o Calvino e, perché no?, Piero della Francesca, che ne pensi?
Mario Cresci è nato nel 1942 a Chiavari (GE). Vive e lavora a Bergamo.
www.mariocresci.it
Eventi in corso:
Mario Cresci da PersicoArt
PersicoArt, Nembro (BG)
11 marzo – 7 maggio 2017
Corrispondenze
Musei Civici di Modena
25 febbraio – 4 giugno 2017
[da Espoarte #96]