Non sei registrato? Registrati.
VENEZIA | Isola della Certosa | Dal 9 maggio 2015

Intervista a MARIA REBECCA BALLESTRA di Matteo Galbiati 

In occasione della tappa finale dell’impegnativo progetto Journey into Fragility, approdato ora a Venezia, abbiamo intervistato Maria Rebecca Ballestra che, reduce dal suo viaggio di esplorazione e scoperta che l’ha portata a viaggiare in tutto il mondo e a interagire con le diverse realtà di volta in volta incontrate, ci racconta questa sua straordinaria esperienza alla quale si è dedicata con impegno e devozione:

Isola Certosa l’ultimo approdo di Journey into Fragility. Un’esperienza che ha attraversato quattro continenti in dodici tappe per due anni di intenso lavoro. Ci riassumi questa forte ed esclusiva esperienza?
Journey into Fragility nasce dall’incontro con il poeta e saggista Massimo Morasso, avvenuto nel 2012 in occasione del Festival della Scienza di Genova. In quell’occasione mi è stata presentata la Carta per la Terra e per l’Uomo, un documento sulla crisi ecologica, firmato da 100 tra i più grandi intellettuali al mondo, tra cui 5 Premi Nobel e 6 Premi Pulitzer. La Carta vuole ripensare in chiave costruttiva il tema della crisi ambientale. Il documento mi ha profondamente affascinato per i suoi contenuti filosofici e per la prospettiva innovativa con cui si confronta con uno dei temi più attuali e contemporanei del XXI secolo. Per questo motivo ho deciso di mettere a disposizione la mia persona come “artista” e il mio fare arte come “mezzo per innescare processi di confronto ideale, interconnessioni di pensieri, nuove prospettive per un futuro comune”, al fine di diffondere i contenuti della Carta e innescare un dialogo sul senso del nostro “vivere sulla terra”. Come afferma lo stesso Morasso nel suo testo introduttivo del catalogo Journey into Fragility (ed. Allemandi), «fare poesia» e «fare arte» hanno in comune il senso di «fare civiltà».

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, opera in permanenza, Isola della Certosa, Venezia (particolare)

Quali sono state le tappe, in che ordine e su cosa ti sei concentrata in ognuna? Quale progettualità hai seguito?
Ho iniziato dall’Africa per terminare in Sud America, passando per Europa, Asia e Medioriente. Ogni tappa è stata ispirata da una delle dodici tesi della Carta per la Terra e per l’Uomo e ha visto coinvolto un diverso curatore e un partner scientifico locale; inoltre 5 delle 12 tappe sono state realizzate in collaborazione con altri artisti, nell’ottica di innescare un dialogo costruttivo e condiviso sulle tematiche ambientali. L’intero progetto, curato da Paola Valenti, è stato promosso dall’ADAC (Archivio d’Arte Contemporanea dell’Università di Genova) e patrocinato dalla Fondazione Principe Alberto II di Monaco.
Nel dettaglio le dodici tappe sono state:

1.Kumasi (Ghana), Memoria Collettiva e Ambiente, partner NKA Foundation, curata da Luca Bochicchio

2.Berna (Svizzera), Politica Globale e Ambiente, partner Kalart, curata da Thomas Kalau, in collaborazione con l’artista Luca Coclide

3.Madagascar, Biodiversità, partner ONG Un seme per Crescere, curata da Daniele Legotta

4.Abu Dhabi (Emirati Arabi Uniti), Energia solare e desertificazione, partner Metropolart e Masdar, curata da Mamia Bretesche

5.Fuyang (Cina), Urbanizzazione e Crescita demografica, partner Sunhoo Industrial Design Park, curata da Luca Zordan, in collaborazione con il musicista Alessandro Olla

6.Singapore, Riciclaggio dell’acqua, in collaborazione con Newater, curata da Fabio Carnaghi

7.Penisola di Osa (Costa Rica), Foresta Tropicale, curata da Alessandra Piatti, in collaborazione con il regista Carmelo Camilli

8.Cardigan (Galles), Agricoltura Sostenibile, partner Rhod, curata da Sara Rees, in collaborazione con l’artista Jacob Whittaker

9.Islanda, Scioglimento dei ghiacciai, curata da Leo Lecci

10.Marsiglia (Francia), Risorse marine, partner MEDPAN, curata da Stella Rouskova

11.San Paolo (Brasile), Antropocentrismo, partner, Transnational Dialogues, curata da Johachim Aidnt, in collaborazione con l’artista Rachela Abbate

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, Abetenim Village (Ghana) intervista a un membro anziano del villaggio sul tema dei taboo

La dodicesima tappa, Nowhere, è un «non luogo» o «qualsiasi luogo»: un progetto collaborativo che ha coinvolto artisti internazionali nella realizzazione di una mappa del cielo per la quale ognuno di loro ha realizzato una stella, ossia un’opera di cm 5×5.
Per quanto riguarda la progettualità, inizialmente ho individuato le aree tematiche da affrontare e le possibili destinazioni. Successivamente per poter realizzare le tappe in luoghi e paesi culturalmente e geograficamente così lontani, mi sono affidata ai programmi di residenze internazionali, selezionando le “call” in base all’attinenza ai temi che volevo sviluppare. A seguire ho individuato e contattato i potenziali partner locali, ed infine i curatori e gli artisti con cui collaborare.

Quanta programmazione e quanto imprevisto ha influito sul tuo lavoro?
L’inizio è stato il momento più difficile, il progetto forse era poco credibile proprio per la sua complessità e difficoltà realizzativa, molto rapidamente mi sono accorta di quanto fosse difficile organizzare e programmarlo a priori per poi svilupparlo successivamente o, perlomeno, quanto fosse difficile poterlo fare in tempi relativamente brevi. Ho così deciso di partire per la prima tappa, affidandomi in un certo senso al destino, io stessa ero incerta sul proseguimento del progetto stesso. Poi Journey into Fragility ha cominciato a prendere forma, sono arrivate le prime risposte positive dalle residenze internazionali, e si è creato una specie di network che gli ha permesso di prendere forma, tappa dopo tappa. Ora che Journey into Fragility è concluso devo ammettere che è stato reso possibile solo grazie alla collaborazione e al sostegno di moltissimi “compagni di viaggio” che in ogni parte del mondo lo hanno sostenuto e supportato, tanto che non lo considero più un mio progetto artistico ma il progetto di “molti”.

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, I'm because you are..., opera site specific realizzata per la tappa in Cina, mattoni, video, libellule di plastica, pittura industriale rossa

Nei singoli luoghi che forma hanno preso le singole esposizioni, come hai raccolto le peculiari esperienze di ciascuna? Si sono tradotte nella classica mostre o anche altro?
Ogni singola tappa è stata concepita come un laboratorio, nei singoli luoghi non era prevista la realizzazione di una mostra o la realizzazione dell’opera, ma piuttosto prevedeva l’incontro con il partner locale, l’approfondimento del tema prescelto, la raccolta di materiale ed informazioni attraverso incontri, interviste, esperienze sul posto, attività documentative, ecc. Solo in un secondo momento, al ritorno dal viaggio, tutto il materiale raccolto veniva rivisto e reinterpretato per dar vita all’opera o alla serie di opere definitive di ogni tappa. Solo la residenza in Cina e quella in Galles, prevedevano degli eventi espositivi alla fine della residenza e di conseguenza la realizzazione dell’opera in loco.

A Venezia come hai condensato tutto in modo permanente?
A conclusione dei due anni di peregrinazione del progetto, il suo spirito e i suoi contenuti filosofici ed ambientali hanno preso forma in un opera permanente sull’Isola della Certosa. L’opera è stata strutturata in due interventi: la passerella di accesso all’isola ospita un omaggio alla Carta per la Terra e per l’Uomo, attraverso l’inserimento lungo tutto il percorso dei nomi dei firmatari della Carta incisi su targhe di acciaio. Il giardino ospita invece un omaggio al progetto Journey into Fragility composto da 12 calotte in acciaio su cui è stato inciso il luogo di ognuna delle dodici tappe e la loro distanza in Km rispetto all’isola. Ho pensato di assumere l’isola come un centro, un centro fisico, ma anche l’immagine simbolica di un centro interiore, del centro dell’essere, la meta o il punto di ritorno in cui far convergere tutte le esperienze e le varie peregrinazioni.

scritta2rid

Cosa rappresenta per te il “viaggio”? Cosa, invece, la “fragilità”?
Il viaggio ha sempre rappresentato l’incontro, in una continua tensione di comprensione e di dialogo con il diverso, l’andare verso orizzonti sconosciuti con l’intento di allargare la propria visione e di superare i propri limiti, e allo stesso tempo una sorta di continuo abbandono e ritrovamento del senso profondo di sé. Lontani dalle strutture che ci definiscono e ci identificano, è inevitabile ritrovarsi e riconoscersi nella propria essenzialità.
La fragilità è stata una scoperta ed una risorsa, un progetto così lungo e così impegnativo ha messo in gioco aspetti personali, insicurezze e dubbi che lo hanno trasformato anche in un percorso di vita, un viaggio interiore. Sono partita volendo indagare la fragilità del nostro pianeta e sono arrivata avendo indagato a fondo la mia di fragilità. Ora che sono tornata la fragilità è diventata una risorsa, un nuovo punto di partenza, un punto saldo su cui ancorare la personalità, quando si è in grado di guardare e riconoscere le proprie fragilità, più intime e profonde, la fragilità si trasforma in forza e vengono meno molte paure e insicurezze.

Che incontri hai fatto? Quali scoperte? Cosa ti ha insegnato maggiormente questo progetto?
Ho incontrato persone molto diverse, ognuna delle quale è stato un maestro, un amico, un compagno di viaggio. Ho incontrato politici, ingegneri, operatori umanitari, scienziati, agricoltori, e la cosa straordinaria è stato scoprire che ognuno di loro crede che l’arte possa offrire nuovi immaginari per costruire nuovi modelli di vita futuri. Journey into fragility mi ha portato dai villaggi rurali africani alle città più tecnologiche ed innovative del pianeta, dagli ecovillaggi alternativi alle metropoli più congestionate, dalle foreste primarie ai ghiacciai millenari, in un continuo susseguirsi di esperienze, incontri, paesaggi diversi. Ad Abu Dhabi ho visitato un centro di energia solare concentrata nel deserto e Masdar City, la prima città completamente a impatto zero, zero rifiuti e zero emissioni di carbonio, in Madagascar ed in Costa Rica ho visitato foreste che sono lì dall’origine del mondo, a Singapore il primo centro di riciclaggio e trasformazione delle acque nere in acqua potabile, in Galles ho documentato progetti pionieristici che propongono un modello alternativo di vita rurale. Journey into Fragility è un progetto che ha letteralmente trasformato la mia vita, sia come artista che come persona. Arte e vita sono diventate la stessa cosa, in una coincidenza perfetta tra sentire e fare.

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, I'm because you are..., stampa su rikbond, 70x100 cm, pezzo unico

Ricordi e aneddoti particolari? Qualche “dietro le quinte”?
Le esperienze più singolari e certamente più significative a livello personale sono state quelle del Ghana e del Galles. In Ghana ho trascorso due settimane in un villaggio rurale fatto di capanne, a 14 km a piedi dalla città, senza auto, né strutture e con una sola persona (il maestro del villaggio) con cui poter comunicare, essendo l’unico che parlava inglese. La prima notte mi sono ritrovata a mia insaputa nel mezzo delle celebrazioni di un funerale, con suoni di tamburi concitati accompagnati da canti ansiotici, che mi hanno svegliata in piena notte. Solo il giorno successivo mi avrebbero spiegato che l’intero villaggio stava partecipando al rito di passaggio e liberazione dell’anima del defunto dal corpo fisico. Più tardi avrei capito che la tappa dell’Africa sarebbe stata per me un viaggio nel corpo, nelle paure, nella morte, nei fantasmi interiori, un viaggio in tutto quello che sta giù. Le presentazioni al capo villaggio per poter accedere alla vita comunitaria, mangiare per terra con le mani, fare il fufu con le donne del luogo, i neonati che alla mia vista piangevano terrorizzati come davanti ad un fantasma per non aver mai visto una persona bianca, tutto è stato un’esperienza ricca e singolare. L’incontro con le persone si svolgeva sempre su un piano emotivo ed istintivo, c’era un sentire empatico che mi ha aperto alla natura. Per la prima volta sentivo la natura. Non la vedevo semplicemente. Con gli abitanti ci capivamo empaticamente, in maniera primitiva, senza bisogno del linguaggio. Sentivo questo essere primordiale, che mi piaceva moltissimo. Ma l’esperienza più intensa e misteriosa è stato l’incontro con la sciamana del villaggio, che sapeva ogni cosa della mia vita e della mia famiglia, incluso aspetti e segreti così intimi da essere conosciuti solo da me e da pochi familiari. A detta sua mi stava aspettando ed io non ero lì per fare il mio progetto, ma per incontrarla. Puoi immaginare il mio stupore e la mia rassegnazione, la prima tappa di Journey into Fragility sembrava già essere il preludio della fine del progetto!

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, The Round Houses, opera realizzata per la tappa in Galles, stampa su rikbond, 70x100 cm, serie di 3

In Galles invece mi sono ritrovata come in una favola, in un racconto fantastico e surreale. Un giorno per andare a visitare un ecovillaggio, gli organizzatori del programma di residenza mi hanno scaricato sul ciglio di una strada da dove partiva un sentiero sterrato che si addentrava in un bosco. Mi hanno lasciano lì dicendomi: incamminati per questa strada ed incontrerai una signora che si chiama Faith (Fede in inglese). Mentre camminavo da sola, un po’ spaesata, ironizzavo tra me e me su quell’andare nel bosco all’incontro con la fede. A metà strada mi viene incontro una figura, spettinata, con una gonna lunga e un giaccone di qualche taglia più grande. Cerco di conversare. Faith è una delle prime persone che ha introdotto la permacultura in Galles. Mentre camminavo in quel bosco, mi chiedevo se lei non fosse veramente la vecchia strega di una favola. Immaginavo che da un momento all’altro uscissero dal bosco degli gnomi o una principessa e tutto aveva un ché di assurdo. Mi sembrava di essere entrata in un racconto fantastico. Ci siamo addentrate nel bosco fino ad arrivare alla sua casa, una casa rotonda, fatta di legno, coperta di terra ed erba. A prima vista sembrava fatta di oggetti recuperati, il tetto coperto di terra per isolarla termicamente. Sembrava di essere in una grande capanna, a metà tra la casa di un pastore e una tenda mongola. Per terra c’erano tappeti, il tetto era a vista, fatto di travi irregolari di legno. In mezzo c’era una stufa a legna e anche i piatti e i bicchieri erano fatti di legno scavato. Mi pareva di essere entrata nella casa degli gnomi, non c’era niente di riconducibile al XX secolo, a parte i libri e degli strumenti musicali. Mentre ascoltavo i suoi racconti sulla permacultura e sul funzionamenti del villaggio, cercavo di stare in questa atmosfera surreale, quasi da favola, in quel luogo che per me non aveva nessun parametro di riferimento. In Ghana avevo presente che cosa fosse un villaggio africano. Invece quella casa rotonda non evocava nessun immaginario nella mia mente, se non un pensiero infantile da favola: c’era una volta la strega nel bosco…

Cosa conservi gelosamente?
Molti gesti, sguardi, incontri, frasi che si sono sedimentate nella mia anima, insegnandomi moltissimo, ma anche paesaggi straordinari che sono come un archivio intimista a cui attingo nei momenti di difficoltà. Journey into Fragility ha stratificato e modellato profondamente la mia persona, creando una ricchezza di esperienze interiori, ricordi ed emozioni, che sono certamente quello che custodisco più gelosamente.

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, Fuyang (Cina) visita a un viìallaggio tradizionale cinese

Rispetto all’idea di partenza, come si è evoluta questa esperienza?
Sono partita in un modo e sono tornata una persona nuova, ho iniziato da sola e ho incontrato lungo il percorso molti compagni di viaggi, ho lasciato il certo per l’incerto, messo in discussione il senso del mio fare arte, ed alla fine del viaggio sono stata ricompensata con molto di più di quello che avrei potuto desiderare ed immaginare, sia in termini umani che materiali. L’opera alla Biennale, la mostra a Montecarlo, la presentazione del progetto all’Università di Hull (UK) ed alla Boston University, le molte mostre a cui sono stata invitata a partecipare, i patrocini di importanti istituzioni sono stati la conferma ed il riconoscimento per il tanto impegno messo in atto da molte persone. Un grazie particolare lo devo ai molti amici artisti e curatori che fin da subito hanno creduto in questa avventura.

Chi ti ha supportato nella lunga e assai complessa macchina organizzativa di Journey into Fragility?
All’inizio convincere il sistema dell’arte della validità di un progetto così complesso, e dilatato nel tempo non è stato semplice, ho dovuto riassestare tutto il mio modo di lavorare così come riorganizzare tutte le mie collaborazioni con le gallerie, alcuni persone si sono allontanate, altre sono arrivate. Di certo le gallerie, gli enti e i collezionisti che mi hanno sostenuta, hanno in qualche modo accettato la sfida di perseguire un’idea e un processo creativo prima ancora che la realizzazione di singole opere o di singoli progetti espositivi. 

Maria Rebecca Balestra, Journey into Fragility, stampa su rikbond, 70x100 cm, serie di 3

Da dove riparte adesso Maria Rebecca Ballestra?
Sicuramente da nuove consapevolezze, ho capito che mi interessano i progetti transdisciplinari con forti contenuti sociali, che preferisco concentrarmi su progetti dilatati nel tempo che nella produzione di singole mostre, che il dialogo e la condivisione sono due aspetti fondamentali del mio fare arte, che mi interessa interagire con diversi settori della società e collaborare con altri intellettuali (poeti, filosofi, ecc). Journey into Fragility ha segnato uno spartiacque, ora mi sento un’artista matura, capace di sintetizzare progetti complessi coniugando in modo equilibrato aspetti estetici e concettuali.

Pensi sia finito il tuo viaggio?
C’è un verso di una poesia di Tagore che dice: “Il viandante deve bussare a molte porte straniere per arrivare alla sua”, io credo di non aver ancora trovato la mia, ma sono certa di essere nella giusta direzione. Si è concluso Journey into Fragility, ma mi piace immaginare, in una dimensione più grande, come sia stato solo la prima tappa di un viaggio più lungo e complesso, quello della vita. 

Prossime destinazioni? Prossimi progetti?
Ho appena iniziato un nuovo progetto, dal titolo La verità del Labirinto, è un progetto ispirato alla raccolta di testi dall’omonimo titolo dell’artista belga Julien Friedler (http://www.spiritofboz.com/the-truth-of-the-labyrinth/). Il labirinto come simbolo universale e comune a molte culture sarà declinato in diversi aspetti (architettonico, simbolico, mitico, naturalistico) offrendomi l’occasione di riflettere su alcuni concetti universali come il sacrificio, il corpo, la morte, la tradizione orale, il mistero, il gioco, il sogno, il pellegrinaggio e l’immaterialità. Sarà un progetto sull’anima e sulla coscienza, in un tempo in cui sembra così difficile parlare della dimensione spirituale dell’uomo. A settembre inaugurerò allo Spazio Testoni di Bologna la prima mostra del progetto, durante la quale verranno presentate le prime quattro tappe di La verità del Labirinto.
Contemporaneamente ho iniziato un progetto a lungo termine sul tema del deserto, ma forse è prematuro parlarne, sono solo all’inizio e sono ancora nella fase progettuale, inoltre lo immagino come un progetto molto lungo a cui dare voce solo tra qualche anno.

Maria Rebecca Ballestra. Journey into Fragility
Opera in permanenza
progetto promosso da ADAC (Archivio d’Arte Contemporanea dell’Università di Genova)
con il patrocinio di Fondazione Principe Alberto II di Monaco e Associazione Italiana della Fondation Prince Albert II de Monaco onlus
galleria partner Spazio Testoni, Bologna 

Dal 9 maggio 2015 

Isola della Certosa
Venezia 

Info: www.journeyintofragility.com
www.spaziotestoni.it

Condividi su...
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •