VENEZIA | Procuratie Vecchie di Piazza San Marco | 23 aprile – 11 settembre 2022
di MATTEO GALBIATI
A sessant’anni da quando fu chiamata a rappresentare gli Stati Uniti, suo paese d’adozione, nel proprio padiglione nazionale in occasione della Biennale del 1962, Louise Nevelson (1899-1988) è protagonista di una nuova prestigiosa mostra che riporta a Venezia una lettura davvero approfondita della sua ricerca, in un percorso circostanziato, imponente ed efficace nel tessere le trame del suo pensiero e della sua estetica.
Del resto la selezione puntuale delle oltre 60 opere – essenziale e determinante in questo senso sono i contributi della Louise Nevelson Foundation e della curatrice della mostra Julia Bryan-Wilson, tra i massimi studiosi esperti dell’artista – favorisce, per qualità e importanza, la lettura della ricerca di una tra i maggiori protagonisti dell’arte del Novecento, secolo che lei ha avuto modo di vivere e conoscere in tutte le sue più significative trasformazioni, dando testimonianza e resoconto dei linguaggi e del pensiero dei movimenti e delle esperienze cui si è accostata.
Di Nevelson la mostra veneziana (la più grande in Italia da dieci anni a questa parte) mette in luce proprio la sua capacità di tessere trame costituendo, con l’accumulazione di collage tridimensionali, con la trasposizione nella dimensione scultorea di modalità espressive originate più dal disegno e dalla pittura che non da un’arte plastica, un complesso susseguirsi di grafismi fisici, reali e tangibili che sono presenza concreta delle tensioni espressive da lei vissute e poi ricondotte nell’identità specifica del suo sguardo.
L’assemblage – tecnica per la quale è conosciuta e con cui preleva dalla realtà “frammenti” che, epurati dal loro pregresso temporale specifico (mai in realtà disperso o azzerato integralmente), si riorganizzano nella presenza ordinante della scultura – è mezzo per esercitare un flusso continuo e avvincente di trasformazioni e permutazioni che sono un codice, sono strumento attivo e articolato di un esercizio manipolatorio di assoluta precisione che scardina il caos per ripristinare un ordine di stato assoluto, altrimenti non leggibile, non identificabile che, però, resta sempre potenzialmente foriero di trasformazioni quiescenti.
Dell’artista è stato spesso messo in luce e sottolineato dalla critica l’atteggiamento astorico della sua visione che, comunque, non ha mai tolto alle sue opere la densità di una magia peculiare, non ha mai fatto venire meno il potere identificativo di un’alchimia personalissima. Come il ricco percorso di Persistence sa raccontare, le sculture dell’artista americana fanno della disfunzionalità di quanto creato come oggetto il punto esperienziale più alto della sua estetica: il randomico susseguirsi di elementi, di oggetti e di strutture che movimentano superfici e forme, ritrova, infatti, una perfezione nell’equilibrio formale così esatto del suo apparire carico di interrogativi.
Lasciati al naturale, talora uniformati dalla “giocosità” del bianco o potenziati iconograficamente con quella dell’oro, i segni di questi meccanismi interrotti, di tali dispositivi non comunicanti, trovano nella scelta monocroma del nero la quiete del tutto. Il nero è per Nevelson una sorgente di ispirazione continua, non è mai un presagio funesto o, peggio, una presenza negativa e sfavorevole che determina un orizzonte di forte pessimismo, perché questo colore è per lei, al contrario, elemento di volontà proattiva. È riuscita, con la capacità del suo sguardo, acuto e profondo, a superare l’avversità stereotipata dell’iconografia legata a questo colore; ha vinto ogni aspetto ostile e ne ha emancipato il carattere in qualcosa di diverso. È riuscita a rendere libero il nero, divenuto suo colore d’elezione: in lei, infatti, questo agisce non come fattore di annullamento del tutto, ma, al contrario, è il principio sorgivo di ogni cosa. Nel nero Nevelson vede la presenza di tutti gli altri colori, ne presagisce la potenza espressiva anche se mantenuta latente e, soprattutto, ne sottolinea esplicitamente lo statuto “aristocratico”, come lei stessa lo definiva.
Il nero delle sue opere azzera i confini degli oggetti, fissa e preserva la loro storia pregressa e fa da elemento unificatore che apparenta e rende omogeneo il valore delle cose. Risolvendo poi la scultura dalla fissità del piedistallo, rilanciandola nella dimensione ambientale, la riconnette con il vissuto da cui ha tratto la linfa vitale del suo stesso esistere. Ripresa e rimessa nel flusso dell’esistenza la scultura è un proscenio; l’opera è spazio che scenograficamente accoglie lo sguardo dello spettatore e lo rende protagonista di nuove storie, nuove esperienze, nuove narrazioni di cui lui ora è solo regista e interprete. La risoluzione ambientale, imponente in certi suoi lavori, si orienta proprio verso questo desiderio di proporre la scultura come amplificazione di vissuti, come agente catalizzatore di conoscenze che hanno una propria energia e una forza davvero non contenibile.
Ad accogliere il grande ritorno veneziano di Nevelson sono nove sale delle ritrovate Procuratie Vecchie che, per la prima volta in 500 anni, si aprono al pubblico come spazio espositivo dopo un lungo intervento di restauro seguito da David Chipperfield Architects Milan che ha ripristinato uno tra gli edifici più affascinanti e caratteristici della città lagunare, restituendogli una nuova identità nel rispetto della sua antica e prestigiosa storia.
Louise Nevelson. Persistence
Evento Collaterale della 59. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia
a cura di Julia Bryan-Wilson
in collaborazione con Louise Nevelson Foundation
23 aprile – 11 settembre 2022
Procuratie Vecchie di Piazza San Marco (secondo piano)
Piazza San Marco (ingresso da San Marco 118/b), Venezia
Orari: da martedì a domenica 10.00-18.00
Ingresso libero
Info: www.louisenevelsonvenice.com