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Intervista con GIORGIO DE FINIS a cura di Gabriele Perretta

La vita artistica è una forza che si esprime in infinite forme, ognuna originale. Se consideriamo, però, che il pensiero unico sta diventando la peste del secolo, l’incontro con Giorgio de Finis – che vuole far diventare la poetica del Macro Asilo la speranza per un vissuto urbano migliore – invita all’ottimismo. Il suo messaggio è fondato sul coraggio di vivere la critica della città liberista, operando delle scelte utili a se stesso e alla società. L’antropologo urbano del XXI secolo, vive per strada e nel mondo, voglioso di conoscere nuovi luoghi e voci di disobbedienza.
Avvolto nella critica sociale della sua ispirazione, de Finis si spinge fin dove la realtà sembra “estrema” e dove gli estremi sembrano molto irraggiungibili: in queste estensioni avviene la metamorfosi della “pedagogia condivisa”.

Secondo la tradizione italiana ed Europea, la parola disobbediente è legata alle pratiche politiche e culturali dei movimenti alternativi. I centri sociali autogestiti, ma anche il lavoro con i migranti, esprimono stili di vita e posizioni politiche radicalmente opposti ai valori prevalenti nella società istituzionalizzata. L’antagonismo sociale si divide, semplificando, in tre filoni principali: i centri sociali che si richiamano al marxismo-leninismo; quelli di derivazione anarchica; i centri che si riconoscono nella rete dei Disobbedienti. Tu, col tuo lavoro culturale, pensi di avere qualcosa a che fare con queste storie? Da dove nascono i tuoi riferimenti e i tuoi valori?
Le parole sono realtà umane dai confini elastici, appartengono ad un dizionario condiviso, ma sempre con occorrenze che inevitabilmente ricadono nella singolarità. Ho scelto la parola “disubbidiente” senza riferimenti espliciti alla storia dell’antagonismo militante cui fai riferimento, ma più come la userebbe una maestra elementare di altri tempi. In questa accezione, l’artista o è disubbidiente o non è. L’artista (anche quello di sistema) è chiamato a cancellare la lavagna e a ridisegnare il mondo. Certo, c’è chi lo fa andando in profondità e chi resta in superficie, chi con fantasia e chi con meno, chi è disposto a farsi rinchiudere negli spazi e nei tempi deputati (musei, muri legali parlando di street art) e chi preferisce ribadire quell’atto originario che rende l’artista un artista (prima di ogni considerazione critica, successo di mercato, entrata nella storia dell’arte), vale a dire la propria auto-legittimazione. Credo che, in un percorso lungo secoli, che ha messo l’Io dell’artista al centro, Duchamp abbia giocato un ruolo spartiacque. Chi può decidere che un orinatoio si muti in un’opera d’arte, se non l’artista? Ma se l’artista non produce materialmente l’opera, permettendoci di giudicarne la fattura, ma si limita a spostare un oggetto da un insieme all’altro (il quotidiano tramutato in oggetto da museo), chi può decidere chi è artista se non l’artista stesso? Non dico che non manchino criteri di valutazione… anche a spostare bisogna essere bravi!… ma solo che, da un certo momento in poi, spetta all’artista dirci se quello che fa è arte oppure altro. Pensiamo alle tante opere d’arte relazionale, che assomigliano molto a quelle pratiche di facilitazione messe in atto con la comunità per la risoluzione dei conflitti, che un tempo rientravano nella prassi dell’antropologia applicata. Quindi, prendendo ad esempio Geco, a cui riconosco notevoli tratti di originalità e interesse, è lui che deve dirci se quello che fa “imbrattando” i muri è arte o no. Kiv (Andrea Marrapodi) ha definito il writing un gioco di ruolo, ma ha aggiunto: “Ai miei occhi era come se Roma divenisse un quadro, sul quale io dovevo solo mettere la firma. Io le mettevo dove stavano bene”. Proprio come Duchamp.

Geco, foto di Marco Lo Rocco

Tu sei anche legato ai movimenti di lotta per il diritto all’abitare, hai sostenuto gli spazi di cultura indipendenti, con un occhio al post-anarchismo, le zone temporaneamente autonome… basti citare il MAAM, nato all’interno, e per difendere, una occupazione abitativa.
Credo che oggi le istanze e le pratiche portate avanti dai movimenti per il diritto all’abitare (e il diritto alla città) siano l’unica forma interessante di fare politica, il resto è teatrino al servizio dell’economia, o meglio della finanza. Sono convinto che gli attivisti condividano con gli artisti la capacità di dire di “no”, e quella di immaginare un mondo che giochi con regole diverse da quelle che li vorrebbero fuori dal gioco. Il MAAM ha ricordato agli artisti che l’arte può tornare ad avere una funzione sociale, un valore politico, che è per definizione l’altra faccia della medaglia rispetto a quella caricatura da dizionario che è l’homo oeconomicus, tutto teso a massimizzare i profitti e minimizzare i costi; l’arte è dispendio, generosità, un’attività non funzionale.

Cover Non autorizzati. L’arte disubbidiente nello spazio urbano, Castelvecchi Editore

Il rapporto con la dimensione urbana: disobbedienti, innamorati dell’arte e dell’intervento poetico, liberi di praticare il territorio in tutta la sua offerta spaziale e temporale. Individui che scelgono il proprio percorso, al di fuori di qualsiasi assurda regola imposta da una società fondata sul garantismo sistemico e curatoriale forzato. Tracce che ritroviamo nel grintoso e ribelle libro a tua cura Non autorizzati. L’arte disubbidiente nello spazio urbano, che affonda le radici in tematiche importanti.
Sì, importanti come lo sono le domande che il “caso Geco” solleva. Vale a dire: chi decide quali siano i luoghi deputati per l’arte, i recinti all’interno dei quali questa è autorizzata a manifestarsi, e chi decide, e con quali criteri, chi può entrarvi e chi invece deve rimanere fuori, chi è artista e chi no. Ma anche quando può entrarvi e quando no… Durante la vernice della Quadriennale di Roma, un artista munito di bomboletta ha realizzato su uno dei muri bianchi del piano terra di Palazzo delle Esposizioni, uno stencil graffito raffigurante un bambino imbronciato… si è pensato potesse trattarsi dell’ennesima incursione di Banksy nello spazio museale. Ma senza avere il tempo di verificarlo l’intervento è stato cancellato. Semplicemente perché non era autorizzato… e pensare che Roma celebra l’artista senza volto di Bristol, con una mostra al Chiostro del Bramante. Il messaggio che si vuole ribadire è che non c’è arte senza autorizzazione, senza committenza, senza curatela? Che si gioca solo con le regole del sistema? E la questione non riguarda solo il museo, ma tutta intera la città: di chi è la città, chi può intervenire nello spazio pubblico, è ancora in grado la città di ospitare forme di alterità (artistiche, ma anche politiche, culturali) non ancora classificate, in ragione della loro “ultra-contemporaneità” (per usare l’espressione proposta da Vazquez nel volume)?

La museografia è una duplice prigione per l’arte, perché la rinchiude fisicamente nel perimetro della galleria e perché la manipola come oggetto di classificazione tecnica, privandola, almeno provvisoriamente, del suo valore “in quanto arte”.
Tu conosci e hai frequentato il MACRO Asilo, che nel nome e negli intenti richiamava il diritto d’asilo nella sua vocazione all’apertura e all’ospitalità, ma anche il mondo dell’infanzia nella “ingenua” volontà di sbaragliare il gioco dei “grandi” (basato sull’esclusione, la concorrenza, il coefficiente di mercato), ricominciando dall’ABC. Alla “sparizione” degli artisti, obiettivo cui si dedicano con impegno gli addetti ai lavori nel tentativo disperato di arginare lo tsunami generato dal fenomeno dell’arte “espansa”, il museo “ospitale” sostituiva l’“apparizione” degli stessi, il proliferare di una moltitudine indefinita di forme di vita, differenti e r-esistenti, che abbiamo chiamato, in opposizione al “sistema”, l’“eco-sistema” dell’arte.

Geco, foto di Maria Grazia Zappalà

Il tuo era il tentativo di fare del Museo un pezzo di città…
Esatto, mentre spesso si ritiene erroneamente di dover fare della città un museo. Pensiamo al nuovo regolamento di polizia varato dall’amministrazione a Roma, che non solo introduce il Daspo urbano, ma impedisce ai cittadini di sedersi sugli scalini di Trinità dei Monti. Indecorosi non sono solo i graffiti di Geco, gli accampamenti rom abusivi, i senza fissa dimora (in questi giorni allontanati dai portici di Piazza Vittorio, perché troppo brutti per gli occhi dei romani della grande bellezza), ma tutti coloro che abitano la città, che a mio avviso – anche grazie alla pandemia e al confinamento – sta provando a rilanciare la sua utopica vocazione di città “ideale”, dunque di città vuota! Stiamo assistendo ad un progressivo acuirsi delle spinte espulsive della città, calcolata al valore mq, asservita al turismo di massa, messa nelle casseforti di banche e finanziarie come ancoraggio a terra delle operazioni volatili della finanza globale. Ci sono ormai due città che si combattono, ma questa guerra non viene ancora capita dai più. Da una parte la città degli umani-urbani che la abitano, che l’hanno scelta come ecosistema planetario di riferimento; dall’altra chi l’attacca e la sfrutta come si trattasse al contrario di un giacimento da cui estrarre ricchezza. Questa seconda città, la città-cava, la città minerale, può in linea teorica fare anche a meno dei suoi abitanti.

Perché difendere Geco?
Geco lo difendo come artista, ma anche perché credo che si debba difendere chiunque oggi dica IO (esisto!) a gran voce. Come ho appena detto, siamo tutti mal tollerati, zittiti, non interpellati, progressivamente a rischio espulsione o rottamazione… Viviamo in una post-democrazia, e ogni voce che si ribella è potenzialmente una voce amica. Ricordo che il bersaglio della disubbidienza non è la legge, sempre invocata a sproposito, ma l’ingiustizia, la legge del più forte (perché la pubblicità sì e il writing no?). Inoltre dobbiamo diffidare della parola “decoro” applicata alla pulizia, perché il più delle volte si rivolge agli umani (e alle tracce della loro esistenza) rischiando di divenire “etnica”. L’annuncio da campagna elettorale, che è seguito a quello dell’arresto di Geco, è stato quello della “bonifica” di un campo rom abusivo della Capitale.

Giorgio de Finis, ritratto di fuoco. Foto di Paolo Buggiani

Giorgio de Finis, 1966, antropologo, artista, curatore indipendente.
Autore di libri e contributi scientifici, collabora da sempre con le pagine culturali di quotidiani e periodici. Dal 1988 è iscritto all’Ordine dei Giornalisti. Ha fondato e diretto “Il Mondo 3. Rivista di teoria delle scienze umane e sociali”. Ha svolto ricerca e attività didattica presso numerosi atenei italiani e stranieri e dal 1991 al 1997 ha condotto ricerche etnografiche tra i Batak di Palawan come Visiting Research Associate dell’Ateneo de Manila University.
Da oltre vent’anni si occupa del fenomeno urbano.
Ideatore e direttore del MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz_città meticcia, del DIF, il museo diffuso del Comune di Formello (RM), nel biennio 2018 – 2019 ha diretto il Museo d’arte contemporanea di Roma con il progetto sperimentale e ospitale “MACRO Asilo”. Attualmente dirige il RIF il Museo delle periferie.
Tra le sue pubblicazioni recenti: EXPLOIT. Come rovesciare il mondo ad arte. D-istruzioni per l’uso (2015, con F. Benincasa e A. Facchi), Atlantide (2015), Rome. Nome plurale di città (2016, con F. Benincasa), MAAM Museo dell’Altro e dell’Altrove (2017), R/home. Abitare diritto Capitale (2018, con I. Di Noto). Uguali vs diversi. Universalismo e relativismo in antropologia (2020), Mork chiama Ork. Microetnografia della pandemia (2020), Non autorizzati. L’arte disubbidiente nello spazio urbano (2021). In uscita: Museo. Istruzioni per l’uso.

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