MILANO | Galleria Giovanni Bonelli | 20 novembre 2014 – 10 gennaio 2015
Intervista a NICOLA VERLATO di Francesca Caputo
Negli ultimi decenni, un nuovo tipo di arte figurativa e il suo immaginario, che affonda le radici nella Pop culture, si è diffusa a livello planetario anche grazie alle nuove tecnologie digitali e ai social media. Dopo Los Angeles, alla Galleria Giovanni Bonelli di Milano va in scena la mostra Juxtapoz Italiano, a cura di Matteo Sapio e Nicola Verlato, che presenta al pubblico quattro talenti del Pop Surrealism Made in Italy: Agostino Arrivabene, Fulvio Di Piazza, Marco Mazzoni, Nicola Verlato. Ne abbiamo parlato con Nicola Verlato, nella doppia veste di curatore ed artista.
Quando e come nasce il progetto Juxtapoz Italiano che coinvolge istituzioni e città diverse?
Nasce a Los Angeles, quando Matteo Sapio mi parlò della possibilità di fare una mostra all’Istituto Italiano di Cultura. Da subito ho pensato di mettere insieme gli artisti italiani accolti, negli ultimi anni, nel “sistema Juxtapoz”. La rivista d’arte più diffusa nel pianeta che raccoglie tutte le pulsioni artistico-culturali e antropologiche californiane: dal Pop Surrealism alla Street Art, dal Tattoo allo Skating, dal Surf alla “Custom culture”.
La galleria Bonelli si è mostrata molto disponibile a sostenere l’iniziativa (per una strana coincidenza tutti gli artisti ci lavorano o ci hanno lavorato). Così come la mia amica Gwynn Vitello, proprietaria di Juxtapoz, ha risposto entusiasticamente mettendo a disposizione la rivista. Non ultimo l’Istituto Italiano di Cultura, con Massimo Sarti che, dopo le prime titubanze, ha accolto il progetto e lo ha fatto suo.
Quali sono gli obiettivi e com’è avvenuta la scelta degli artisti presentati in mostra?
L’obiettivo è duplice: mostrare, oltre alle opere, anche il nuovo meccanismo mediatico che le ha portate all’attenzione di una platea molto ampia e diffusa.
Ho sempre trovato interessante vedere come il mio lavoro e quello dei colleghi coinvolti nella mostra, avesse – proprio per il suo forte radicamento con una tradizione prettamente italica – potuto ottenere così tanto riscontro in questo nuovo orizzonte che sta ridefinendo le prospettive dell’arte mondiale.
La mostra dunque non è frutto di una scelta curatoriale, arbitraria e soggettiva, né di tipo stilistico. Non è un tentativo di imporre una linea interpretativa, è piuttosto una mostra “constatazione” del processo di formazione del consenso operato dagli utenti della rete intorno alle opere degli artisti presenti in mostra. La rivista Juxtapoz ha realizzato un primo livello di ufficializzazione, facendosi strumento di promozione di questo fenomeno spontaneo. La mostra stessa si pone, quindi, come ulteriore livello di formalizzazione istituzionale.
Come mai questo tipo di arte figurativa si è diffusa, a livello planetario, attraverso i nuovi strumenti di comunicazione? Hanno modificato il rapporto con pubblico, collezionisti, critica e galleristi?
La pittura figurativa, con un forte contenuto narrativo, si adatta perfettamente ad un sistema come quello di Google Images, Tumbrl, Pinterst o Instagram, dove le immagini viaggiano libere, senza alcun tipo di supporto critico o curatoriale. Finalmente anche la pittura ha trovato un supporto mediatico che le corrisponde, senza dover più dipendere da altri media e figure professionali ad essi collegati.
Dalla rivoluzione industriale in poi, è stato lo scrittore, nelle sue varie manifestazioni (critico, giornalista, storico dell’arte) che si è preso carico di traslare le arti visive nel mondo dell’editoria (libri e riviste), unica via che permettesse l’accesso alle grandi masse, altrimenti negato ad una disciplina caratterizzata dall’unicità dei suoi prodotti.
Mi piace definire Internet la “Radio delle immagini”, poiché sta operando quel cambio strutturale che la radio degli anni ‘60 ha fatto con la musica, rendendola un fenomeno centrale della nostra cultura, tramite la promozione di Rock e Pop. Sicuramente questo fenomeno sta trasformando le relazioni fra le diverse figure del sistema dell’arte e, certamente, sta riportando al centro l’opera in sé, da tempo resa un oggetto di scambio con scopi puramente finanziari.
Cos’è per te il Pop Surrealism e quali i punti di contatto con la Street Art?
È tutto e il contrario di tutto. È solo una definizione, ormai datata e non più efficace, con cui si è soliti delimitare un’area artistica relativamente recente. Robert Williams mi ha spiegato che, in realtà, l’idea di questo termine venne a Kirsten Anderson, una decina di anni fa, durante una visita al suo studio. Ora, lo stesso Williams non considera più il termine adeguato a circoscrivere il fenomeno che nel corso del tempo sta cambiando, rivolgendosi verso nuove direzioni.
Il Pop Surrealism è spesso accomunato alla Street Art. In effetti, molto spesso i protagonisti della Street Art si spostano nell’area della pittura da cavalletto e viceversa, creando delle dinamiche estremamente interessanti. Sono movimenti “cresciuti insieme” e marginalizzati dal sistema ufficiale. Questa posizione di debolezza li ha resi capaci di impadronirsi immediatamente delle meccaniche comunicative dei nuovi media, che premiano entrambi proprio per il loro forte impatto visivo e narrativo, garantendone l’esistenza con un vasto fenomeno di supporto dal basso. All’opposto dell’arte contemporanea ufficiale, tradizionalmente supportata da piccoli gruppi elitari che si riconoscevano nel concetto di avanguardia sociale, sempre latente, nonostante lo scorrere del tempo e l’evidente obsolescenza. L’arte contemporanea ufficiale ci ha messo molto più tempo ad avvicinarsi a internet sia per intrinseca diffidenza sia perché i linguaggi dominanti poco si adattano ai sistemi comunicativi del web.
Vivi da anni in America. Dal tuo osservatorio, perché in Italia sono ancora forti le perplessità a livello ufficiale? Esiste una via italiana al Pop Surrealism?
Le perplessità a livello ufficiale, rispetto a questo tipo di lavoro, sono ovunque, anche negli Stati Uniti. È intrinseco alla logica del sistema ufficiale diffidare di coloro che possono mettere in crisi i criteri di esclusività, su cui le istituzioni museali sono basate. Si stanno aprendo, però, alcune crepe: proprio in questi giorni si è inaugurata una grande mostra al Long Beach Museum (dove partecipo con un grande quadro), dedicata a questo nuovo movimento senza però, intelligentemente, chiamarlo Pop Surrealism.
Non credo esista una via italiana di questo movimento, che non va considerato secondo i criteri tradizionali e logori del movimentismo artistico del Novecento. Semplicemente alcuni artisti Italiani – che si sono sottratti al massacro identitario e iconoclasta perpetrato negli ultimi sessant’anni di colonizzazione culturale americana e Nord europea – sono stati resi visibili nella rete e nei nuovi media ad un livello internazionale proprio per la loro differenza e qualità. Si tratta di capire quindi che l’adesione a principi formali considerati tradizionali (disegno e figurazione, prospettiva e anatomia etc.) – proprio quelli che la tradizione “modernista” ci ha insegnato a considerare superati – se coniugati con una forte innovazione della narrativa, possono essere l’unica via di uscita alla morte civile che l’arte contemporanea italiana sta manifestando da troppo tempo.
Nella tua pittura tornano temi e icone dalla valenza universale ma sempre riconducibili al sociale. Quali sono i tuoi obiettivi?
Da sempre il mio obiettivo principale – sicuramente molto ambizioso – è riportare l’arte al centro delle cose del mondo, di sottrarla alla marginalità del ghetto in cui è stata e si è essa stessa rinchiusa da un paio di secoli. Ho sempre ritenuto che l’arte sia il motore al centro di tutte le civiltà umane e se questo non accade, è perché ci si trova di fronte ad una volontà deliberata che questo non avvenga, che si chiama Iconoclastia, fenomeno da lungo tempo ciclicamente presente, non solo in Occidente. Sono convinto che oggi si stia manifestando la possibilità di uscire da questo periodo secolare di evidente irrilevanza delle arti nella formazione delle comunità e personalmente sento fortemente la responsabilità di assecondare questo fenomeno.
JUXTAPOZ ITALIANO
Four Artists who Defy Convention
a cura di Matteo Sapio e Nicola Verlato
20 novembre 2014 – 10 gennaio 2015
Galleria Giovanni Bonelli
Via Luigi Porro Lambertenghi 6, Milano
Info: info@galleriagiovannibonelli.it
www.galleriagiovannibonelli.it