CAGLIARI | MACCA GALLERIA D’ARTE CONTEMPORANEA | Fino al 2 AGOSTO 2021
di FRANCESCO PAOLO DEL RE
Una grande tela sviluppata verticalmente e costruita per piani e livelli diversi, paralleli, in cui uno scenario marino si fa cornice narrativa e pretesto di racconto: la dipinge Irene Balia a febbraio del 2020, pensando all’estate in pieno inverno nel corso di una residenza al Museo MACC di Calasetta (Situato sulla punta settentrionale dell’isola di Sant’Antioco nell’arcipelago del Sulcis, ndr). Pervade tutto il dipinto, intitolato Le bambine che non siamo più, un vago senso di sospesa nostalgia, trattenuto nel dispositivo metalinguistico della rappresentazione di una piccola fotografia, che si vede appoggiata su uno dei due variopinti teli da bagno posti in primo piano, e amplificato dalla totale assenza della figura umana dal resto della scena, fatta eccezione appunto per le minute presenze contenute nella foto.
I teli ben distesi sulla sabbia fanno pensare che due bagnanti si siano alzati da poco e si siano immersi in una nuotata oltre il margine dell’inquadratura e la sovrapposizione degli stessi evoca una certa intimità, quasi la consuetudine di un abbraccio di cui resta appena la predisposizione, la sindone, il guscio. Ma il mare agitato oltre la curva della sabbia e il cielo grigio di tempesta che si addensano nella parte superiore del dipinto aggiungono una nota di tragedia all’immobilità della scena, un cattivo presagio alla periferia dell’occhio, un tumulto dell’anima che va ad agitare il nitore della visione, trattenuta in un tempo senza tempo, in una stagione immota del cuore, sulle note di una canzone già lontana.
Una costruzione complessa, a ben vedere, per un dipinto che si porge a chi lo guarda in un modo apparentemente semplice, grazie alla pittura levigata, nitida e fatta di ampie campiture che Balia esercita con una sapienza discreta, dissimulando un vasto mondo interiore e un’ampia gamma di rimandi, echi e suggestioni nelle forme controllate e diremmo quasi esatte della sua arte, intimamente luminosa come una vetrata gotica in virtù del ritagliarsi preciso delle forme nel colore, fino quasi a perdere ogni tridimensionalità e profondità, in una smemorata compresenza di tempi, di dimensioni, di elementi compositivi e narrazioni del vissuto. C’è forse qualcosa di inconsapevolmente sacro nella sua pittura, che attinge alle profondità della memoria schiarendole al sole di una luce infantile, propria delle storie che non ci stancheremmo mai di farci raccontare, e allude inevitabilmente a un’astrazione preziosa, nel semplificarsi della forma che pure resta, fino all’ultimo, situata nella regione numinosa della figurazione.
È un luogo di silenzi, di consapevolezze e di presagi la pittura di Irene Balia, come appare chiaramente in questo grande dipinto fatto nel corso della residenza a Calasetta (poi appena dopo la residenza al museo arriva la pandemia e tutto cambia, o forse no), che unisce la memoria personale dei luoghi in cui l’artista è cresciuta, i ricordi che si fanno paesaggio, alla vertigine del tempo che passa, alla fretta di chi scopre altrove ma non recide le radici e leviga la perdita dei giorni con la sapidità di un sortilegio.
Nella grande tela la pittrice di Iglesias, dunque, fa quello che meglio sa fare, cioè apparecchiare una natura morta, non in un conchiuso interno domestico come nella produzione con cui si è fatta conoscere finora ma stavolta in uno scenario marino, dove troviamo due teli e una fotografia che non avrebbe altro motivo o bisogno di trovarsi lì se non per la magica sospensione dell’incredulità che l’arte permette. La storia personale e familiare che tutto il dipinto trattiene si fa esplicita lì, in quel punto preciso più che altrove, nella vecchia foto con Irene bambina e le cugine al momento della merenda. Il tempo è passato, le bambine sono cresciute e sono uscite dal teatro del dipinto, momentaneamente o per sempre, ma restano le tracce della loro presenza, che lo sguardo ignaro del pubblico vivifica e rinnova, in un’elegia festosa, di evocazione e tradimenti.
L’intera mostra Summer on a solitary beach che vede protagonisti Irene Balia e Roberto Fanari, artisti entrambi sardi ma operanti a Milano, allestita dal 13 maggio al 2 agosto, ha origine proprio dalla residenza al MACC e dal dipinto che lì è nato. Da lì parte l’invito fatto dalla gallerista Claude Corungiu e dal curatore Efisio Carbone a esporre alla Macca Galleria d’Arte Contemporanea di Cagliari, giunta al suo sesto anno di attività, per una “sonata a quattro mani”, come la definisce il curatore, “dove pittura e scultura creano dialoghi site-specific”. Non un accostamento casuale, quello dei due artisti, ma un sodalizio personale ben consolidato che inevitabilmente si traduce in un intenso dialogo negli spazi della Macca, per “una mostra – scrive Carbone – capace di aprirsi a differenti livelli di lettura, uno di questi, probabilmente il più segreto, riguarda i due artisti legati da una lunga relazione: è sempre molto interessante osservare il lavoro di coppie di artisti che condividono la vita ma non la ricerca, si creano imprevedibili punti di contatto, apparentemente così lievi da poter essere trascurati, eppure talmente profondi non potersi comunicare”.
Gli oggetti, le persone assenti eppure presenti, le storie fatte di indizi disseminati, rebus da risolvere, una spiaggia solitaria e metafisica e un esplicito omaggio alle canzoni di Franco Battiato nei titoli dei dipinti. Le altre opere di Balia presentate in mostra, tutti acrilici su tela realizzati nel 2021, sono anch’esse nature morte e conservano la stessa ambientazione marina, gli stessi cieli aggrottati e lo stesso agitarsi delle onde, lo stesso piglio autobiografico e la stessa assenza di figure umane. Si caratterizzano per un disporsi di oggetti alla rinfusa, che appaiono quasi dimenticati sulla spiaggia in una sorda casualità e sono invece sapientemente disposti come simulacri in un teatro dei sentimenti. In alcuni casi il riferimento alla vanitas della tradizione barocca è esplicito (come per il teschio, l’orologio e gli ossi di seppia di Eco), in altri casi tornano le fotografie, o si trovano gli specchi e i frutti cari alla poetica di Balia, le piante, i riferimenti a un mondo femminile fatto di pettini e bracciali.
Ci sono libri spaginati in un pomeriggio assolato, una scarpa dimenticata e persino due costumi da bagno tolti e abbandonati come mute di serpenti, laddove la pittrice decide divertita di citare se stessa e un suo vecchio dipinto del quale erano protagonisti gli indumenti intimi. La pittura di Irene Balia congela il tempo nel ricordo, lo sublima, ritaglia in esso una precisa misura – niente di troppo e niente di meno. In essa si compie la persistenza di uno struggimento, il fiore della perdita, la bellezza di quello che non si potrebbe trattenere.
Intimamente connesso e complementare al lavoro della pittrice appare in questa mostra l’inserimento di due grandi sculture di Roberto Fanari, realizzate nel 2021, voluminose e allo stesso tempo leggere perché innalzate attraverso a un’armatura di filo di ferro cotto e quindi completamente cave, traforate e attraversate dall’aria. Sono due figure in spiaggia, due bagnanti che sembrano fantasmi.
Se Balia decide di concentrarsi nei suoi dipinti sui paesaggi e sugli oggetti composti nelle forme di nature morte, Fanari modella invece due corpi umani che, sebbene si caratterizzino per una grande precisione anatomica, sono vuoti e completamente decontestualizzati, avulsi da qualsiasi scenario e fermati in un gesto dal quale sono esclusi anche gli oggetti. E così il suo Bevitore, di gusto novecentesco e con un esplicito riferimento ad Arturo Martini, non regge nessun bicchiere e nessuna bottiglia nella mano che porta verso la bocca, con il braccio sollevato in alto nel gesto di dissetarsi.
E lo Spinaro, che rilegge con un corpo femminile il classicissimo modello della celebre scultura ellenistica conservata ai Musei Capitolini di Roma, non ha spine e compie il suo gesto nella bolla di un dolore smaterializzato. Se davvero quella che la figura scolpita da Roberto Fanari si sta togliendo dal piede sia una spina e se il luogo in cui questa si sia infilata sotto la sua pianta sia una spiaggia, a dircelo è un esercizio dell’immaginazione, uno di quegli atti di fede che l’arte richiede, alleggerito da una sottile e garbata ironia. A conferma che l’aria rarefatta nella quale ci stiamo muovendo è quella dei sogni dentro i sogni, dove i drammi più neri sono già decantati e i rumori che si sentono solo parvenze rotolate nel cavo di una conchiglia.
Come sinopie di affreschi sognati o lacerti sopravvissuti da un tempo intangibile (Efisio Carbone nel suo testo parla di “luoghi mitici del ricordo, irreali ma vissuti” che “ci appartengono ma non esistono”), sia il dipingere di Balia sia la scultura ariosa di Fanari, al di là delle forme e dei singoli esiti della loro ricerca, raccontano un modo di fare dell’arte che, nel tempo di oggi, non può più avere nessuna pretesa di abbracciare il mondo nella sua complessità e di ordinarlo, ma ne corteggiano il mistero, ne inseguono la linea d’ombra delle storie, nell’intricarsi di enigmi senza gloria e di memorie senza destinazione, per un puro moto ardente di immaginazione che si dà però con temperanza oltre la misura del reale, come la parabola luminosa di un oggetto siderale che si consuma nel firmamento conservando una traccia che solo i naviganti e gli insonni sono destinati a conservare, come spina, negli occhi e nel cuore.
Irene Balia e Roberto Fanari. Summer on a solitary beach
a cura di Efisio Carbone
Fino al 2 agosto 2021
Macca Galleria d’Arte Contemporanea
Via Lamarmora 136, Cagliari
Info: www.galleriamacca.com