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INTERVISTA DI FRANCESCA DI GIORGIO

La pittura è questione privata sia per chi la fa sia per chi la guarda. Giulio Zanet assimila dall’esterno, elabora, sperimenta, rigetta. Il procedimento alla base del suo lavoro è un percorso di orientamento e scelta che, per quanto osanni il casuale, non è mai di facile elaborazione e si stratifica per livelli di azione e lettura.
Cose, persone, animali… non hanno un reale peso specifico, o meglio, dialogano su di un piano “paratattico” dove ciò che, solo ipoteticamente, potrebbe congiungerle – negli occhi di chi guarda – non fa parte delle sue priorità… La sua pittura sembra man levarsi, liberarsi dal compito di narrare storie e, soprattutto, dare risposte, perché un “why” è più forte di un “because”…

Francesca Di Giorgio: La tela bianca… e poi?
Giulio Zanet:
Uno spazio libero (la tela) e l’arte (il mondo delle possibilità). Mi piace giocare con le forme, i colori, le figure, facendoli convivere in uno stesso spazio. È come provare a mettere in uno stesso recinto tante cose diverse e vedere come interagiscono. Benché non riesca a individuarne le regioni, la scelta dei soggetti è un atto molto forte, importante, coraggioso, poiché si deve sceglie un oggetto/immagine in mezzo a una miriade a disposizione. È sicuramente un atto privato, ma questa è la natura stessa della pittura; quando sono in studio a lavorare e a compiere quelle scelte devo fare i conti solo con me stesso. Non opero con l’obiettivo di raccontare delle storie, perché la mia attenzione è rivolta al processo che è stato innescato dal primo elemento che ho posto sulla tela e tale rimane la mia attenzione fino al momento in cui considero l’opera finita, ovvero quando mi pare che tutto sia “completo”, poiché tutto, anche stridendo, sembra convivere. Quando arrivo al termine del processo creativo sono curioso di esporlo, forse per verificare la riuscita dei miei intenti. Mi interessa che l’osservatore si ponga delle domande. Non posso che offrire domande, poiché non posseggo alcuna risposta! Inoltre, tutti i quesiti che emergono, oltre le varie interpretazioni, aggiungono significato al lavoro. La lettura delle mie opere non è univoca e tanto meno immediata. Cerco di creare dei momenti in cui è possibile sospendere il giudizio per porsi delle domande le cui risposte non sono poi così necessarie… è un po’ come se fosse più importante il WHY piuttosto che il BECAUSE!

Potrei tentare di sintetizzare in tre passaggi il tuo work in progress: prelievo esterno di immagini (tratte dalla rete e altri media), metabolizzazione (semi-consapevole) dei materiali e relativo rigetto…
Sì, penso si possa sintetizzare così. Anche se forse la sequenza non è sempre così rigorosa. Accumulo immagini in continuazione, questo sì, ma non è detto che debba sempre metabolizzarle per rigettarle. Non partendo mai da un progetto quando lavoro, può capitare di fare scelte poco elaborate a priori. Il tutto ha un decorso piuttosto naturale, non sempre lineare, anzi ci sono momenti difficili che impongono grandi capacità risolutive, ma il tutto rientra in questo senso di naturalezza, in fondo da alcuni errori o imprecisioni la soluzione può portare a inaspettate soluzioni. Lo stesso meccanismo lo applico costantemente nella mia vita quotidiana, non si può decidere e programmare tutto! Con questo non mi ritengo un fatalista, credo semplicemente che lasciar correre e vedere cosa deriva dai tempi naturali sia molto interessante. In fondo scelgo ciò che scelgo perché non potrei scegliere altro e compongo il quadro in un determinato modo perché non potrebbe essere altrimenti.

Il colore è un tratto distintivo forte del tuo lavoro. Le campiture piatte e sature assieme alle stesure acquose ed imperfette, gli sgocciolamenti, segni sovrapposizioni e cancellature…
Tantissimi livelli. Non avendo un progetto, o un bozzetto, tutto sulla tela si compie in divenire. Comincio a inserire immagini e colori sulla tela, sbaglio, correggo cancellando, mi contraddico, ci riprovo…il risultato è ciò che rimane di questo processo e non ho motivo di nasconderlo. Anzi, la compresenza di diverse pennellate mostra il processo, sottolinea lo stesso procedimento nel combinare le figure. Si creano miriadi di contrapposizioni, di contrasti e tutto è funzionale alla lettura del lavoro.

Il polittico, Il segreto della felicità è non pensare (2011), la dice molto lunga sul “messaggio” di molti tuoi lavori… lo si può prendere come invito, come avvertenza o ancora (io leggo questo) come ironica constatazione di un diffuso ordine costituito a cui ribellarsi…
Lo si può prendere come si vuole. Mi piace che rimanga un po’ ambiguo, proprio come tutto il mio lavoro. Come ho detto prima, non mi interessa veicolare un messaggio, mi accontento di porre delle questioni. Per quanto mi riguarda, purtroppo o per fortuna, questa affermazione è vera come sono vere e possibili tutte e tre letture che hai dato tu.
Quando ho intitolato questo lavoro dopo aver assemblato tutte le sue parti, ho pensato che spesso imprigionarsi nelle varie elucubrazioni non serva a nulla, credo che sia molto meglio ripulire la mente per godersi la bellezza dell’ingenuità e dell’inconsapevolezza.

La mostra in breve:
Giulio Zanet. Hangover
a cura di Ivan Quaroni
GiaMaArt studio
Via Iadonisi 14, Vitulano (BN)
Info: +39 0824 878665
www.giamaartstudio.it
28 maggio – 31 luglio 2011

In alto, da sinistra:
“Non è per niente facile tenere pulito”, 2011, tecnica mista su tela, cm 50×50
“La strana tendenza alla non curanza”, 2011, tecnica mista su tela, cm 120×100

In centro:
“Il segreto della felicità è non pensare”, 2011, tecnica mista, misure variabili

In basso, da sinistra:
“Senza titolo”, 2011, tecnica mista su tela, cm 28×40
“La disabitudine a scrivere”, 2011, tecnica mista su tela, cm 140×100
In basso, da sinistra:

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