Non sei registrato? Registrati.

Intervista a ELENA BELLANTONI di Antonello Tolve* 

Nella polifonia linguistica dell’itinerario creativo messo in campo da Elena Bellantoni, la parola (ora cunzata, ora screpolata, ora portata allo scoperto, ora consumata, ora per-formata e dunque sonorizzata o vocalizzata o resa corpus) gioca un ruolo fondamentale, è luogo aperto – offen und offenbar – che caratterizza il mondo dell’uomo e della sua comunicazione con l’altro. Il linguaggio (in generale il kommunizieren wollen) coincide infatti, nel suo lavoro, con il volere dell’arte e con il valore strutturale che la sottende, come si evince da questo dialogo esclusivo che pone l’accento sulla parola e sul linguaggio, anche quello del mare, da ascoltare e in cui perdersi, per capire.

Elena Bellantoni, Il mare si è scocciato, 2022, performance 7 giugno 2022, CUBO, Torre Unipol.

Con I Fear (2020), video che hai realizzato durante la quarantena e con cui hai vinto l’Arteam Cup 2020 nonché il Premio Speciale Dino Zoli Group di Forlì (premio residenza), non solo il sé si identifica con un emblema di terrore collettivo, ma anche la gestualità del corpo sembra ripiegare verso un terrore ulteriore, verso un disturbo che ha a che fare con un mondo sospeso sotto il peso dell’epidemia. «Il lavoro», lo hai sottolineato in un articolo pubblicato su «espoarte.net» (27/08/2020), «è una riflessione sulla condizione di costrizione e di potere sui nostri corpi durante il periodo di quarantena, in cui la pandemia sembra aver prodotto un grande esperimento sociale». In questa tua analisi e in questo tuo brillante lavoro, centrale è lo spazio domestico, il luogo chiuso che si apre all’aperto di rapporti umani differenti, di abitudini paradossalmente blindate, di territori che imbavagliano e mirano soltanto a una società inoperosa della sopravvivenza dove l’opera dell’uomo scompare, dove resta soltanto la traccia impercepibile del dialogo. Cosa ti ha spaventato, in particolare, di quel periodo buio della nostra storia che abbiamo da poco (e non del tutto) posto in un tiretto da tener serrato? Quale il messaggio profondo che hai voluto dare con I Fear? Forse un avvertimento sui pericoli di una situazione?
Nel video che ho prodotto durante il confinamento casalingo emerge una crepa: I Fear è un autoritratto video performativo in cui l’io si identifica nella paura. L’inizio del video sembra spensierato (anche se l’azione del tagliare i capelli non è del tutto quotidiana ma appartiene alla comune condizione di isolamento) e il motivetto sonoro accennato dalla voce sottolinea una situazione di leggera inconsapevolezza. Quando il canto intimo si trasforma in un verso animalesco qualcosa cambia: la trasposizione sul piano visivo è l’assunzione di connotati da dittatore. L’io che emerge è spaventoso, perché come un animale in cattività (tra l’altro l’urlo delle scimmie aggiunge un elemento istintivo e distopico) l’io-autoritratto scopre una parte di sé nascosta, perturbante.
Il lavoro è una riflessione sulla condizione di costrizione e di potere sui nostri corpi durante il periodo di quarantena.
Il personale è politico, slogan del movimento femminista teorizzato da Carla Lonzi, echeggia qui ed indica bene la questione: la messa in discussione della separazione tra la sfera pubblica e quella privata. L’oppressione individuale, il controllo, diventa oggetto da cui scaturisce una riflessione anche sul piano collettivo. La paura che emerge è quella della regolamentazione e del ritorno a nuove forme di totalitarismo – quelle derive autoritarie che echeggiano attualmente in tutta Europa – di sospensione dei diritti, non solo imposta esternamente e socialmente, ma che permea ed incide sul piano intimo e personale trasfigurandolo. Considero il dittatore tedesco un’icona negativa del nostro Novecento, già utilizzata da altri artisti che ne hanno evidenziato la violenza evocativa attraverso concetti di brutalità e caduta. I rimandi chiari alla storia della performance sono molti: lo stesso gesto di tagliarsi i capelli che è il punto di partenza, appartiene qui invece ad una condizione comune del periodo di quarantena forzata. Come artista e donna ritengo che il corpo sia un soggetto politico, trasformarlo cambiandone i connotati è un atto duro e di protesta contro una condizione imposta.
«Il potere è una relazione che ha il suo punto d’attacco nel corpo e proprio attraverso di esso organizza le masse di individui», scrive Foucault. Il corpo non può essere assoggettato all’infinito, lo stesso corpo opporrà resistenza che è sintomo di una volontà e di un’intransigenza e tensione verso la libertà. Non esiste politica che non sia anche una forma di politica dei corpi. Per Foucault, le norme di governo biopolitico si sono propagate come una rete di potere che ha valicato la sfera giuridica o punitiva per diventare un’energia orizzontale e oppressiva, attraversando l’interezza dei territori e irrompendo infine nel corpo singolo. Il corpo, il nostro personale corpo, come spazio di esistenza e come luogo di potere, come nucleo di procreazione e di impiego di efficienza, è diventato il nuovo spazio all’interno del quale si manifestano le aggressive politiche di confine che concepiamo e sperimentiamo da molto tempo sull’Altro da noi, ingaggiando una battaglia al virus, agli intrusi a cui ho fatto già riferimento parlando di Nancy. Il moderno confine necropolitico è dunque il risultato dell’intreccio tra «sovranità» e «razza», esercitare la sovranità significa esercitare il controllo sulla mortalità e definire la vita come il dispiegarsi e il manifestarsi del potere, almeno secondo Achille Mbembe.
Questo confine si è spostato dalle nostre coste verso la porta di casa. Il nuovo confine è la mascherina che abbiamo indossato tutti i giorni. Lo spazio che attraversiamo così come l’aria che respiriamo vogliamo che sia solo nostra, se incontriamo qualcuno camminando siamo pronti a cambiare marciapiede o ad attraversare anche la strada. Sfiorarsi è identificato come una minaccia e, allo stesso tempo, come un bisogno. Il contatto corporeo è fondamentale all’esistenza di tutti, allo sviluppo dei neonati, alla memoria degli anziani, al rafforzamento del sistema immunitario, alla guarigione, così afferma Elisabeth von Thadden ne La società che non si tocca, citando inoltre gli studi del patologo tedesco Martin Grünewald. Il confine è diventato oggi la nostra stessa pelle. Per molto tempo abbiamo inviato migranti, profughi ed esuli, i minori, i richiedenti asilo, i senza fissa dimora nei centri d’accoglienza dei luoghi sospesi, in between. Nel periodo di lockdown siamo stati noi a vivere in una forma di carcerazione dentro le nostre stesse case. Forse non è un caso che all’inizio della pandemia siano stati proprio i carcerati a protestare e richiedere riconoscimento dei diritti basilari.
Nell’attuale periodo post-pandemico che stiamo vivendo, i corpi sono diventati sempre più luoghi di violenza e sottomissione, ma anche di rivendicazione sociale come da parte del movimento Black Lives Matters. L’obiettivo comune è quello di non inginocchiarsi più di fronte a forme di suprematismo bianco così come nuove dittature e nazionalismi. Quello che resta da tirare giù sono le nostre paure che rimbombano e, come polvere, restano appiccicate addosso creando un velo di pregiudizio sottile che a volte facciamo fatica a riconoscere.

Elena Bellantoni, I fear, 2020, video full HD, durata 60”

L’azienda Dino Zoli Textile ha deciso, per la mostra che terrai nei loro spazi (alla Fondazione Dino Zoli con opening il 25 febbraio, ndr), di produrre anche un tuo nuovo video, Se ci fosse luce sarebbe bellissimo… (2022). Se non mi sbaglio in questo progetto di mostra diventa centrale anche una riflessione sull’abitare. Leggendo infatti il proposal form, mi pare che tu abbia messo a fuoco un pensiero sul carattere spaziale dell’essenza umana, coniugandolo, però, a una serie di oggetti d’affezione. Ti andrebbe di raccontarci qualcosa su questo prossimo progetto per il quale hai anche pensato un primo step, durante la residenza, come laboratorio di arte partecipata (L’immagine che abito)?
Il progetto nasce da una riflessione sullo spazio del lavoro come luogo abitato da corpi. In media ogni persona trascorre nel proprio luogo di lavoro circa 12 anni senza sosta. La fabbrica diventa una nuova casa dove abitiamo, in cui emergono lati importanti del nostro vissuto e della nostra personalità. Il luogo di lavoro rispecchia e racconta di noi della nostra esperienza intersoggettiva con il mondo e le persone. Credo sia molto importante partire da questo contenitore casa-lavoro e analizzarne la relazione con i corpi che abitano lo spazio. Ho pensato di costruire un percorso visionario con il luogo di lavoro riflettendo sul vissuto di chi lo abita, partendo dall’immagine corporea che ogni lavoratore ha di sé. La prima parte del progetto si è svolta durante i diversi mesi in cui ho svolto svariati laboratori con il personale dell’azienda. Le persone sono state invitate a lavorare sull’idea di immagine corporea: ovvero quella proiezione / mappa della nostra intersoggettività che racconta, attraverso il disegno su stoffa e carta, i nostri confini, la nostra relazione tra noi e la realtà in cui siamo immersi. Da queste immagini raccolte è affiorata, quindi, non solo l’idea forma/corpo nello spazio, il riflesso, ma qualcosa di più legato alla storia intima di chi ha partecipato, con le sue memorie, percezioni e affetti.
In questo processo è emerso il concetto di habitus ovvero l’insieme di pratiche spontanee, grossolane, naturali che concorrono a costituire la naturalezza dell’individualità dell’uomo. L’habitus è ciò che consente agli uomini di prendere decisioni, orientarsi fra le scelte, osservare il mondo e attribuirgli un significato. Qualsiasi azione, volontaria o meno, è frutto di un’elaborazione implicita dell’habitus secondo Pierre Bordieu che vede la pratica quale sistema di azioni improvvisate e approssimative mediante le quali l’individuo si confronta con la realtà in cui vive. Mediante tale pratica, il singolo riesce a muoversi, stringere relazioni, evolversi. Questo elemento pratico-performativo è stata la base su cui ho costruito il laboratorio esperienziale con i lavoratori della Dino Zoli Textile.
L’intero progetto nasce da una riflessione pandemica, nel periodo di lockdown abbiamo passato molto tempo a casa, lontani dai nostri cari ma anche dai luoghi di lavoro. Tutto, per mesi, è diventato virtuale e immateriale così come le relazioni tra i corpi, come ti spiegavo prima.
Il 5 maggio 1978 Aldo Moro scrive la sua ultima lettera dalla prigionia alla moglie Eleonora Chiavarelli, nella sua situazione tragica di chiusura e isolamento si esprime con queste parole: se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Sono stata attratta da queste parole di luce in un momento buio della vita della vita del politico democristiano conclusosi, purtroppo, drammaticamente.
Credo che quest’elemento della luce sia un simbolo molto forte per raccontare non solo il passato ma anche il nostro complesso presente; così anche Leonardo Sciascia nell’Affaire Moro (1978) legge con acume ed interesse le lettere di Moro facendo emergere lati oscuri e articolati della nostro sistema politico. In un altro contesto, parlando della pandemia, Francesco Guccini racconta che, dopo la seconda guerra mondiale, c’era una voglia di ballare che faceva luce. Ecco, ho cercato di seguire queste suggestioni e costruire un percorso condiviso e collettivo per raccontare il sistema-mondo.

Residenza d’artista di Elena Bellantoni presso Dino Zoli Textile, Forlì. Premio Speciale Fondazione Dino Zoli e Dino Zoli Textile ad Arteam Cup 2020. Ph. Milo Adami

Quando parli della fabbrica come contenitore, come «luogo di lavoro» che «rispecchia e racconta di noi, della nostra esperienza intersoggettiva con il mondo e le persone», come «una “nuova casa” dove abitiamo, in cui» tra l’altro «emergono lati importanti del nostro vissuto e della nostra personalità» non posso non pensare alle idee rivoluzionarie di Adriano Olivetti.
Adriano Olivetti è stato una delle figure più singolari e straordinarie del Novecento. Il suo progetto di riforma sociale in senso comunitario è oggi riconosciuto come uno tra i modelli più attuali e avanzati di sostenibilità, perché rifiuta l’idea di impresa ridotta a merce e abbraccia la concezione dell’impresa come comunità di intenti. È all’interno di tale prospettiva che viene a delinearsi la concezione-progetto della Comunità concreta. La Comunità è da lui intesa come unità organica economica, amministrativa e politica, animata da un contenuto sociale e da un fine morale e spirituale. Costituisce la dimensione entro cui l’agire economico può concretamente porsi l’obiettivo di favorire la complementarietà e l’armonica integrazione delle espressioni della vita umana. È quindi innanzitutto un ambiente, un habitus geograficamente delimitato e socialmente connotato, entro il quale i luoghi di lavoro, della vita familiare, della fruizione artistica, della tecnica sono momenti distinti ma complementari, ciascuno essendo fonte di ricchezza materiale e spirituale per l’altro. Su questa prospettiva di pensiero ho provato a fare la mia proposta di laboratorio artistico all’interno dell’azienda Dino Zoli Textile proprio durante l’orario di piena attività produttiva. Questo mio progetto di riflessione sul lavoro è il secondo step di On the breadline, vincitore della IV edizione dell’Italian Council, che ho realizzato per un anno intero in giro tra Grecia, Serbia, Turchia ed Italia. Circa cento donne hanno performato in fabbriche abbandonate e dismesse che raccontano la meccanica del capitalismo. Ho voluto quindi ora confrontarmi non più con un’ideologia ma con i corpi pulsanti e lo spazio reale di un luogo di lavoro.

Elena Bellantoni, CeMento, 2019, veduta dell’installazione CUBO, Porta Europa. Courtesy dell’artista

Tra le tue ultime personali, la mostra premio di Arteam Cup, Imperfetto mare, curata da Leonardo Regano e organizzata a Bologna per il doppio spazio di CUBO (in Porta Europa e in Torre Unipol), è un percorso in cui riunisci per la prima volta i tuoi pensieri su dove finisce l’azzurro. Si tratta, nello specifico, come sappiamo, di una splendida quadrilogia dove troviamo per la prima volta insieme Hala Yella adiòs/addio (2013), Maremoto (2016), Ho annegato il mare (2018) legato a un capolavoro che toglie la voce alle parole (CeMento, 2019) e Corpo morto (2020). Ti andrebbe di parlarci di questa scelta? Perché soltanto questi e non anche altri lavori che sono sempre legati ai flutti marini?
Nei miei progetti non faccio mai accenni espliciti alla mia biografia, ma il mare rappresenta la mia infanzia. Da bambina trascorrevo l’estate nel capanno sul mare dei miei nonni materni in Calabria. Anni di libertà, di scoperte, in cui mi misuravo con il mondo e la natura. Il mare per me è sperimentazione, gioco, rispetto, ma anche attraversamento, orizzonte. Tutti elementi che sono confluiti nella mia poetica. È un elemento forte d’ispirazione non solo lirica, ma politica, nell’accezione che ti ho spiegato. Il mare è l’elemento estetico centrale, protagonista indiscusso delle opere che presento in mostra, è un soggetto agìto con il quale mi relaziono rispettosamente e dolorosamente, compiendo in parallelo un viaggio nel mio Io, che è singolo ma anche collettivo, cogliendo spunti dall’attualità della storia del nostro Paese.
Nell’arco di circa dieci anni ho prodotto quattro video, senza legarli volontariamente fra loro, per poi rendermi conto che il confronto con l’elemento naturale è una costante.
Il mare sottolinea la fragilità dell’essere umano, il suo affanno nel sopravvivere, la sua violenza usurpatrice, la sua paradossale ricerca di superamento che si tramuta in virulento parassitismo distruttore. Mi ispiro al blu del mare come fosse un soggetto linguistico, luogo di incontro e di narrazioni. I lavori che presento creano un percorso dentro la mia pratica artistica, la mia immagine-azione viene a galla e prende forma. Il mare come luogo di esplorazione, crocevia, come liquido amniotico, come riflesso del sé, come voce che diventa scrittura nelle lettere colore arancio che getto nel mare pugliese vicino Tricase. Dove la mia voce e quella dal mare si sovrappongono in ancora corpo morto tra cielo e terra coraggio.

Elena Bellantoni, Hala Yella addio/adios, 2012-2013, photo on paper museum etching. Courtesy l’artista

L’arco temporale coperto dalle opere scelte (2013-2020) con Imperfetto mare si sovrappone a un itinerario geografico fra la Patagonia e la Puglia, a un viaggio fisico ancor prima che metaforico. Cosa rappresenta per te il viaggio?
Chi si sposta da un confine all’altro deve spesso attraversare il mare, per farlo escogita diverse strategie per compiere un viaggio di cui si conosce bene il punto d’inizio ma non quello di arrivo. Maremoto, ad esempio, è un lavoro di natura performativa girato sulle coste siciliane che spiega bene la mia idea di movimento verso un altrove. Alle prime luci dell’alba cerco di cavalcare le onde del mare in sella ad una bicicletta. Il video riprende il tentativo impossibile di attraversare il mediterraneo utilizzando un mezzo poco affidabile. Trascinata via dalla forza dell’acqua mi immergo fino a scomparire; dallo stesso punto, emerge un ragazzo di colore che ripercorre a ritroso il percorso per approdare finalmente alla spiaggia e proseguire il suo viaggio in bicicletta.

Elena Bellantoni, Maremoto, 2016, foto on hahnemühle fine art paper. Courtesy dell’artista

Maremoto, presente in mostra, è un’opera circolare in cui gli elementi dell’acqua, del mare e dell’attraversare raccontano la storia di Ibrhaima, un ragazzo arrivato a Lampedusa dal Senegal. È la sua voce ad accompagnare il video in lingua pulaar, il suo dialetto. Nell’andare si trova il sé, così come nel tornare. Il desiderio di quest’incontro avviene sul confine del mare, il viaggio diventa un tentativo di ricucire due sponde, due orizzonti, più culture. Il Mediterraneo da sempre ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano. Le azioni riprese dal video sono costituite da due unici piani sequenza che danno corpo alla reale fatica dell’attraversamento. Non c’è traduzione linguistica delle vicende raccontate da Ibrhaima ma, mediante le immagini e il suono della sua lingua, si percepisce la storia di uno dei tanti migranti approdato sulle coste mediterranee. La migrazione è un viaggio di sola andata, non c’è una casa dove fare ritorno. La storia viene mietuta e fatta parlare, riletta e riscritta, e la lingua prende vita nel transito e nell’interpretazione. Tradurre è trasformare. In Maremoto non traduco il racconto di Ibrahima, ma lo restituisco attraverso uno sforzo e la resistenza fisica. Non volevo ricadere nel retorico con l’ennesimo racconto sul migrante, ma piuttosto volevo sperimentare questa alterità e la sua storia in maniera concreta e poetica. Il mar Mediterraneo abbraccia visivamente questa narrazione, diventa il confine e il luogo d’incontro allo stesso tempo. Dove l’io sparisce l’Altro emerge, da questa posizione comincio a capire che dove ci sono limiti esistono anche altre voci, altri corpi, altre parole, dall’altra parte, al di là dei miei confini specifici. Trasportata dall’acqua guardo uno spazio potenzialmente ulteriore: la possibilità di un altro posto, un altro mondo, un altro futuro.

Elena Bellantoni, CorpoMorto, dettaglio installazione, nell’ambito di Imperfetto Mare, a cura di Leonardo Regano, 1 giugno-23 settembre 2022, CUBO, Torre Unipol, Bologna. Courtesy l’artista

Mi pare che importante, in questi lavori, sia lo scavo sulla – nella – lingua assoluta del mare (torniamo dunque al linguaggio, alla parola, alla comunicazione?), sulla perfezione della sua divina indifferenza, sul suo raccontare spietato che ascende come una risacca i minuti, le ore, i giorni, i mesi, gli anni, i decenni, i centenni, i millenni.
Riflettere sull’acqua significa anche specchiarsi, avere una visione di sé, guardarsi dentro. Ho pensato di scegliere la prospettiva dal mare per buttare un ancoraggio, gettare l’ancora o un corpo morto implica sia uno sforzo fisico che simbolico ovvero quello del gettarsi. Buttare, lanciare… sono tutti sinonimi che sottolineano questa dimensione del coraggio di immergersi ed attraversare il mare. In questa tensione, in questo gioco-forza nasce Corpomorto prodotto nel 2020 grazie al sostegno del Teatro Pubblico Pugliese per la mostra Sta come Torre, a cura di Paolo Mele.
Ho deciso di lavorare sul concetto di corpo morto (ripreso dal linguaggio marinaresco) producendo delle lettere galleggianti in polistirene espanso che diventano dei punti di ancoraggio per i corpi morti in cemento gettati in fondo al mare in una piccola gola vicino al porto di Tricase.
Mi interessano gli aspetti linguistici di questi elementi marinari: la parola corpo-morto che evidenzia con il peso del cemento e la presenza di molti corpi morti nei nostri mari; la parola an-coraggio sottolinea l’azione di buttarsi, il coraggio di avvicinarsi ed attraccare per raggiungere la terra ferma.
Il linguaggio diventa un salvagente, un luogo su cui potersi appoggiare. Tutte le lettere che butto in acqua attraverso un’azione performativa sono di colore arancio intenso, lo stesso dei giacchetti di salvataggio usati in mare. I corpi morti, in fondo al mare, riportano come un riflesso la stessa scritta che affiora a pelo d’acqua: ancora corpo morto tra cielo e terra coraggio.
Appare in questo processo di scrittura il rapporto tra il corpo che diventa traccia e la parola. La poesia e la performance hanno, per me, un linguaggio performativo molto simile alle artiste dagli anni Settanta che si occupano di Poesia Visiva e lavorano su una narrazione asciutta efficace che fluisce per immagini. Dal mio punto di vista il corpo scrive, incide lo spazio, diventa segno e forma allo stesso tempo. La performance ha un enunciato secco, lavora e de-scrive immagini chiare, esattamente come fa un certo tipo di poesia a me molto cara: la parola diventa incarnata.

Elena Bellantoni, CorpoMorto, 2020, photo on paper museum etching. Courtesy l’artista

Mi definisco spesso un’archeologa-investigatrice poiché il mio lavoro è di ricerca: metto insieme tracce e frammenti per arrivare all’opera finale. Questo succede perché il mio lavoro è di natura processuale e di analisi del territorio in cui decido di passare del tempo. Qui l’essenza del mar Mediterraneo emerge con tutta la sua forza, da sempre esso ha rappresentato una strada d’acqua percorsa da popolazioni che giungevano e ripartivano.
Lavoro per immersione: e in questo caso, con Corpomorto l’immersione avviene anche in senso letterale, buttandomi in mare per costruire la mia azione. Il gettarsi, il buttarsi fa emergere un aspetto importante sia della mia pratica artistica che del ruolo dell’artista oggi: attraverso il mio agire posso dichiarare apertamente lo shock di questa gettatezza (il desein heideggeriano), manifestando esplicitamente – attraverso il mio processo di lavoro e le mie performance – questa discrepanza fra il mondo interno ed il reale.
Il mondo ci attraversa e noi in quanto artisti engagé possiamo prendere delle posizioni rispetto a quello che abbiamo davanti e utilizzare il nostro linguaggio creando nuovi punti di vista, così come quello dal mare. Non posso non pensare a Camus che, dopo il suo viaggio in Grecia, rielabora il così detto pensée de midi che abbraccia i paesi del mediterraneo. Mi rivolto dunque siamo scriveva Camus nel 1951 (frase da cui nel 2014 ho prodotto anche un lavoro a neon per una mostra da te curata) in un’azione dove si scopre la dualità, il sé plurale. Con Corpomorto la storia viene mietuta e fatta parlare, riletta e riscritta, il linguaggio dal profondo prende vita con un gesto artistico e come un mezzo di salvataggio resta a galla.

Elena Bellantoni

Elena Bellantoni (1975) vive e lavora a Roma, è docente all’Accademia di Belle Arti dell’Aquila. Dopo essersi laureata in Storia dell’Arte Contemporanea, studia a Parigi e Londra, dove nel 2007 ottiene un MA in Visual Art al WCA University of Arts London.
La sua ricerca artistica si concentra sui concetti di identità ed alterità utilizzando il corpo come mezzo di interazione. Nel 2018 è tra gli artisti vincitori della IV edizione dell’Italian Council del MIBACT; nel 2019 presenta il libro dell’intero progetto al MAXXI di Roma con un Focus sul suo lavoro.
Nel 2018
Ho annegato il Mare è selezionato nei Collateral di Manifesta12 a Palermo. Tra gli altri premi: 2020 Premio Arteam Cup, 2018 premio Nctm e l’Arte Studio Legale. Tra le mostre: Il video rende felici a cura di Valentina Valentini, Palazzo delle Esposizioni 2022, You got to burn to shine a cura di Teresa Macrì La Galleria Nazionale Roma 2019.

*Articolo tratto dall’intervista pubblicata su Espoarte #119: https://www.espoarte.net/shop/shop/espoarte-119-limited-edition/

Condividi su...
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •  
  •