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BOLZANO | Galleria Alessandro Casciaro | 11 aprile – 11 maggio 2024

Giovedì 11 aprile inaugura una nuova personale di Domenico Grenci, a cura di Gabriele Salvaterra, negli spazi della Galleria Alessandro Casciaro a Bolzano che, da pochi giorni, ha aperto anche una nuova sede a Venezia con la mostra collettiva Lost Directions, Urs Lüthi, Santiago Reyes Villaveces, Silvia Rosi.
Per approfondire la mostra personale,  dal titolo Domenico Grenci. Light years, pubblichiamo il testo critico a firma di Gabriele Salvaterra.

Domenico Grenci, Light Years

“Si dice che Piet Mondrian (chissà quanta verità ci sia realmente in questa storia) durante il suo ultimo periodo newyorkese fosse solito dipingere piccole nature morte di fiori quando fame e mancanza di soldi lo mettevano allo stremo, costringendolo a trovare forme d’arte più colloquiali e vendibili.
La recente esposizione Stop Painting (2021) alla Fondazione Prada di Venezia ha mostrato un altro “rimosso modernista”, quello di Kurt Schwitters, intento lungo tutta la sua carriera a portare avanti una placida produzione borghese e intimista – piccole composizioni di fiori, oggetti e frutta, svolte per piacere personale – parallela e indipendente al lavoro che lo ha reso celebre nella storiografia artistica: il Merzbau di Hannover. In entrambi questi casi i fiori o più generalmente il lavoro sugli stereotipi della pittura appaiono come un antidoto alla febbre avanguardista, un virus benefico che si insinua tra le crepe del cemento progressista, proprio come piccoli virgulti di vegetazione che riescono a crescere anche tra i selciati e i marciapiedi della grande griglia urbana di New York, di cui le composizioni ortogonali di Mondrian costituiscono il possibile corrispettivo estetico.

Domenico Grenci, Light Years

La pittura di Domenico Grenci si rivolge effettivamente a questo genere di composizioni. Il suo corpus produttivo è fatto di soggetti consolidati del dipingere – fiori, ritratti, superfici e nature morte – tra loro molto diversi, distinti nel loro procedere come serie quasi autonome, ma anche profondamente affratellati tanto nel loro trattamento espressivo quanto nel senso che portano con sé. Immagini della distanza astrale e della vicinanza tattile, epifanie sognanti e crepuscolari che sembrano osservate tra i vapori attenuanti del tempo passato o della lontananza che si frappone tra i nostri occhi e il bersaglio a cui si indirizzano, oggetti visti attraverso un vetro smerigliato dalla qualità quasi fotografica ma di stampo eliografico, di tipo ottocentesco, flou, instabile, fantasmagorico…

Domenico Grenci, nel buio dello sguardo (Roberta), Bitume, 202, carboncino su tela, 200x150cm

Volendone parlare ordinatamente bisognerebbe partire dai soggetti femminili, quelli maggiormente caratterizzanti il suo lavoro. Quando non espongono la loro nuca, la parte più sensuale e indifesa del corpo umano, i volti di donna ritratti da Grenci hanno occhi che calamitano e trafiggono. Ci stanno guardando direttamente, qui e ora, proprio noi, nonostante la loro natura di simulacro. Figure femminili che potrebbero sembrare amanti o compagne del passato, persone comunque profondamente frequentate, ma che si rivelano, invece, alla prova dei fatti, immagini riprese prosaicamente da riviste e periodici patinati. Si tratta dunque dell’esatto contrario, di volti dell’anonimato, del marketing e del flusso mediale che vengono “portati avanti” e umanizzati dalle stesure di Grenci, per poter assurgere alla statura di veri e propri ritratti.

Domenico Grenci, Light Years

I fiori, diversamente, mettono in scena una natura a portata di mano e ammaestrata che come una sineddoche o una metonimia si fa parte domestica per un tutto incontaminato lontano e irraggiungibile, quello del creato. L’ambiente costituisce così, in queste composizioni, una riserva immacolata che fa capolino e ci osserva dal comò, inserita in cattività all’interno di vasi, bicchieri e contenitori vari, in modo simile a quanto accadeva di fare a Giorgio de Chirico con i suoi tardi “soli da interno”, dislocati ironicamente sul cavalletto nel proprio studio al posto del quadro, come degli autentici surrogati di realtà.

La serie tripartita nella produzione di Domenico Grenci si chiude con le opere dedicate ai tessuti, in particolare lenzuola e coperte, che nella quotidianità le persone conoscono quasi esclusivamente in maniera tattile. Vi ci si avvolgono e si coprono con esse: solitamente queste superfici non possono essere viste ma vengono toccate nella più intima fisicità dagli individui. Nelle opere dell’autore questi vuoti panneggi diventano memoria di una presenza ormai assente, visione di un sentire che si è fatto immagine poetica e astratta di qualcosa che non è più qui.

Domenico Grenci, il letto, 2024 bitume olio e acrilico su tela, 137,5x100cm

Se nei ritratti ciò che si osserva è un avvicinamento estremo di qualcosa di distante, in tessuti e nature morte si nota invece un allontanamento di ciò che abbiamo di più prossimo, come se si applicasse una procedura di straniamento radicale su oggetti in fondo piuttosto banali. Ma a ben vedere è vero anche il procedimento contrario e i volti taciturni e pensosi di donna sfuggono via in lontane nebulose mentre fiori e stoffe premono sulla nostra retina con la loro effettività. Più in generale sembra che Grenci – e con lui la sua pittura – giochi malinconicamente a muovere di continuo la posizione della percezione delle cose, che possono apparire per un istante a portata di mano per poi sprofondare misteriosamente a distanze siderali.

Hal Foster, all’interno de Il ritorno del reale, nel sottocapitolo Visioni dell’altro, interpreta i rapporti con l’alterità e con il diverso come questioni di corretta distanza. Cambiando completamente contesto ma conservando l’interessante impostazione critica, sembra che per l’artista non ci sia alcuna ambizione alla correttezza nella misura da cui guardare ma tutti i soggetti abbiano unicamente solo due possibilità estreme di esistenza, la radicale consistenza o l’incredibile evanescenza. Quello che si rivela paradossale è che spesso i due stati siano mescolati in un’unica immagine che, come un ossimoro, ingloba entrambe le qualità.
Per questa pittura distanza e attualità non sono condizioni che si escludono a vicenda ma, al contrario, danno vita a oggetti confidenti ma sognanti, visti tra i barlumi di un ricordo o offuscati da un vetro appannato, ma sempre lì, a portata di mano, sottoposti a costanti operazioni di avvicinamento e allontanamento lirico, visivo, empatico.

Quante volte accade nella quotidianità di sentire una persona familiare assente e incomunicabile, percepirla ad anni luce di distanza? E quante volte ci si commuove o ci si innamora per personaggi immaginari che sentiamo così vicini nella finzione di un libro, di un’opera d’arte o di un film? È la potenza gentile di un certo tipo di discorso estetico, capace di toccarci come un dardo scoccato anche da punti a noi invisibili o, viceversa, la forza silenziosa di un desiderio che teniamo appresso ma che scivola via in un gorgo d’assenza.

Domenico Grenci, Light Years

Lo dice bene Sandro Parmiggiani parlando dei ritratti di Grenci e richiamandosi a Braque: “Sono, questi volti, evocazioni che vengono da lontano, richiamate da un mondo ‘altro’: esprimono una sorta di sentimento lancinante della lontananza (…). Si respira, in tanti dipinti di Grenci, ciò che Georges Braque aveva nel tempo maturato: ‘La sola cosa che ci rimane è quella che ci tolgono, ed è la cosa migliore che possediamo’”. Sono le rose che non colsi del crepuscolare Guido Gozzano (“non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e che non sono / state”) che con Grenci condivide anche la predilezione per i trapassi luministici tra la luce e il buio, momenti struggenti in cui non è possibile decidere se ci si trovi nell’ultimo momento del giorno o nel primo della notte appena cominciata. E in fondo tutto questo continuo gioco degli opposti, nel quale stiamo mettendo alla prova nella ripetizione il diligente lettore, ripercorre e reitera a un grado più alto l’ultima dinamica di antitesi, il rebus definitivo della nostra esistenza, quella tra presenza e assenza, tra vita e morte.

Probabilmente non è un caso che tutti i generi che Domenico Grenci impiega mettano in campo contraddizioni. La natura non può essere morta, eppure la natura morta, se debitamente frequentata, permette di sondare entrambe le condizioni, mantenendole sospese, concomitanti e opposte. Il ritratto ha già nella sua definizione la doppia sostanza, di cui si è detto sopra, corrispondente a un’estrema presenza – “Io ti ritraggo, ti vedo, concretizzo le tue fattezze qui e ora” – che è anche misterioso ripiegamento – “Io mi ritraggo, mi ritiro, mi nascondo, mi oblitero facendomi vedere”. Stratificazioni di senso che sono state fissate in maniera magistrale da Georges Didi-Huberman:

Nel ritratto, nel suo ritratto – nel suo “proprio” ritratto (espressione più di ogni altra ambigua) l’altro si ritira. Si ritira mostrandosi, fa ritirata in seno alla sua stessa manifestazione. L’altro che viene ritratto, è anche l’altro ritirato, e di conseguenza l’altro riconosciuto – se la somiglianza vale come riconoscimento – è anche l’altro reso più sconosciuto di quanto lo fosse prima di questo riconoscimento. Egli è più sconosciuto dal momento che è ritirato nella sua alterità. Ma questo ritiro rivela il mistero di questa alterità: non lo svela, al contrario rivela che si tratta di un mistero – e che senza dubbio non è questione di dissiparlo.

Domenico Grenci, come un ricordo, 2024, 150x150cm, olio ed acrilico su carta 

Parole che assumono tanto più spessore se immaginate a fianco dei ritratti del nostro artista, sempre rivolti a persone mai veramente conosciute e ri-conosciute solo sulla base del proprio anonimato mediale. Volti, fiori e tessuti, dunque, nella loro semplicità, forniscono già gli strumenti per sostare sulla soglia del trapasso, tra vicinanza e distanza, tra vita e morte, tra contatto e contemplazione, soglia che Domenico Grenci ha eletto a suo proprio territorio di predilezione dal quale produrre evanescenti visioni. Epifanie su tela che rimandano all’eredità di Odilon Redon, intensissimo pittore che ha praticato i reami di visibile e invisibile per riportare, alla fine della sua carriera, tra accesissimi bouquet e delicati volti (quindi attraverso soggetti assolutamente presenti e reali) tutto il portato visionario e onirico che aveva accumulato, come una profonda riserva interiore, nella sua fase più chiaramente simbolista.

Tutto questo è, in definitiva, già presente nel mito sulla nascita della pittura, dove l’esigenza di tracciare segni minimali su un supporto viene dettata dalla prossima partenza dell’amato al fine di serbarne il ricordo. Il dipingere è quindi, come ricorda anche oggi Grenci attraverso il suo fare e gli esempi concreti che presenta, una questione di vicinanza e distanza. Un discorso che, a partire dalla luce, riesce a unire nella qualità cromatica di un quadro, nella sua atmosfera coloristica, il tempo con lo spazio. Perché luce è sì elemento funzionale alla visione e alla pittura ma anche misura di una velocità e di una lunghezza, di una durata insomma, all’interno della quale si svolge il mistero della creazione delle immagini.

Together but we were miles apart
Every inch between us becomes light years now (…)

Your lights reflected now
Reflected from a far
We were but stones
Your light made us stars

(Gabriele Salvaterra)


Domenico Grenci. Light years
a cura di Gabriele Salvaterra

11 aprile – 11 maggio 2024
Inaugurazione giovedì 11 aprile, ore 18.00

Galleria Alessandro Casciaro
Via Cappuccini 26/A, Bolzano

Info: +39 0471 975461
info@alessandrocasciaro.com
https://www.alessandrocasciaro.com/

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