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#crossingover

“Tutto quello che ho fatto di importante potrebbe stare in una piccola valigia”

Torna l’appuntamento mensile online, a cura di Alessandra Frosini. Un viaggio attorno all’idea di Museo nella sua forma ideale e concreta, per molti (troppi) ancora oggi considerato il luogo statico di conservazione della memoria mentre stiamo sempre di più imparando a riconoscerlo come luogo di produzione e ad accoglierne i suoi lati sempre più cangianti e necessariamente mutevoli.

Pratica anche in tempi di quarantena, distanziamento sociale e chiusura delle collezioni, la Boîte-en-valise di Marcel Duchamp, chiamata anche De ou par Marcel Duchamp ou Rrose Sélavy, era una vera e propria “macchina da esposizione” (per citare Le Corbusier), un museo portatile di repliche in miniatura delle opere realizzate fino ad allora dall’artista.
Il progetto prende avvio negli anni Trenta e trova concreta realizzazione nel 1941 con il primo esemplare realizzato per Peggy Guggenheim, sostenitrice del progetto (la Boîte è oggi conservata alla Collezione Peggy Guggenheim di Venezia): una valigia Louis Vuitton in pelle con maniglia contenenti 69 riproduzioni delle opere realizzate con tecniche diverse ed elaborate e un’opera “originale”, ovvero colorata ex novo, tutte etichettate con le specifiche relative alle opere di cui erano copia. A questo primo esemplare seguiranno negli anni, in versioni diverse e anche ampliate, altri 311.

Marcel Duchamp Boîte-en-valise, 1941
© Collezione Peggy Guggenheim. Photo Matteo De Fina

La Boîte è al tempo stesso album/catalogo/portfolio tridimensionale, opera e museo, certo una versione reinventata e dissacrante del museo, senza pareti e mobile, composto di copie miniaturizzate e trasportabili, meccanismo pronto a nuovi allestimenti senza l’ausilio di curatori o conservatori. Un vero e totale spazio indipendente, paradossale ready made del concetto di museo.
Con un solo gesto Duchamp arriva infatti al cuore di tematiche fondamentali per l’arte e per la riflessione museologica, in primis il rapporto tra originale, copia e riproducibilità dell’opera d’arte (gli anni di elaborazione della Boîte sono gli stessi in cui Walter Benjamin pubblica il suo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica): creando un “museo-multiplo”, fatto non di autentici, ma di copie di opere di dimensioni diverse, riprodotte con metodo quasi industriale. Duchamp mette in discussione il nostro rapporto col museo, che presuppone il tacito accordo che ciò che noi vediamo sia di fatto un originale. Il formato pone l’attenzione sull’importanza della scala di realizzazione delle opere e di quanto essa incida sulla percezione dell’opera.

Marcel Duchamp Boîte-en-valise, 1941
© Collezione Peggy Guggenheim. Photo Matteo De Fina

Il piccolo formato dà l’impressione di poter possedere ciò che guardiamo e crea inoltre un’amplificazione dell’attenzione dello spettatore, che si focalizza sull’essenza delle opere. La Boîte è costruita poi secondo un gioco di meccanismi scorrevoli e incastri e fornita di sostegni, che permettono allestimenti diversi in cui non è previsto un ordine predefinito o un percorso lineare. Qual è l’importanza del ruolo curatoriale e quanto incidono l’ordinamento e l’allestimento nella percezione e nel significato di ciò che guardiamo?

Marcel Duchamp Boîte-en-valise, 1941
© Collezione Peggy Guggenheim. Photo Matteo De Fina

La Boîte è contenitore ma anche, al tempo stesso, contenuto e opera in sé conclusa e quindi anch’essa oggetto da mostrare e collocare all’interno di un museo. Mentre si propone come messa in discussione del concetto di museo come contenitore e riflessione sull’ambiguità e mutabilità dello statuto delle opere, punta il dito anche contro la staticità – intesa in ogni senso – dell’istituzione. La Boîte può essere presa per la maniglia e portata via, divenendo un museo nomade sempre in movimento (concetto molto caro agli artisti contemporanei, come vedremo), paradigmatico del viaggio intrinseco delle opere, compiuto nel tempo, nello spazio e nel significato.
Un museo che ha bisogno solo di spettatori. E del resto lo aveva già capito Duchamp: “più che l’artista, più che il critico o il curatore, è lo spettatore che fa il museo.”

https://www.guggenheim-venice.it/it/arte/opere/box-in-a-valise/

“tutorial” di allestimento alla Scottish National Gallery of Modern Art:
https://www.youtube.com/watch?v=tuM0G73gEtg

Leggi anche #crossingover: Musei d’artista. “Noi vogliamo distruggere i musei”

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