Yinchuan (Cina) | MOCA – Museum of Contemporary Art Yinchuan | Fino al 19 settembre 2018
Intervista a MARCO SCOTINI di Eleonora Roaro
Nella prima scena di A Tale of the Wind (1988) di Joris Ivens una pala di un mulino a vento ruota rumorosa nella campagna olandese. Un bambino con gli occhiali da aviatore sale su un aereo giocattolo che ha costruito da sé. Mamma, mi imbarco, dice. Vado in Cina. Ed è in Cina, più precisamente nel deserto dei Gobi, che si reca il regista novantenne per compiere un’impresa impossibile e utopica, ovvero quella di realizzare un’immagine invisibile del vento. Le sequenze delle dune di sabbia in cui, aiutato da una troupe, Ivens registra i movimenti dell’aria che fanno da cornice al footage documentario sulla Cina della fine degli anni ’80. Similmente Marco Scotini, assieme al suo team curatoriale formato da Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xinghua, parte dal deserto dei Gobi (che si trova vicino alla città di Yinchuan di cui cura la seconda edizione dell’omonima biennale, Starting from the Desert), per parlare di ecologia e nomadismo. Ne abbiamo discusso con Marco Scotini in un’intervista.
Il titolo della biennale Starting from the Desert è esso stesso una dichiarazione di intenti. Implica la volontà di incominciare dal deserto, da una sorta di punto zero. Perché?
Ci sono molte risposte alla tua domanda, anche se tutte interconnesse. Potrei cominciare dal deserto come luogo dell’esodo. Anche se il riferimento è biblico, per anni e anni ho costruito il progetto Disobedience Archive attraverso la parola “esodo” come una metafora chiave della filosofia politica, seguendo Paolo Virno. Attraverso l’esodo si cerca di uscire dalla terra del Faraone (di sottrarsi alla sua schiavitù) piuttosto che prendere il potere nella terra del Faraone. Non si tratta solo di dire di no allo stato di cose trovate, ma di dar origine ad un movimento di distacco (dall’obbligo di obbedienza), di creare soluzioni alternative, nuove forme di vita. Diciamo che il deserto non è tanto un grado zero (il vuoto, l’assenza, l’inospitale) quanto un punto di rottura. Ma, una volta raggiunto il deserto, non si può diventare che nomadi. Ecco allora l’altro contributo importante di Deleuze e Guattari: quello dell’incontro con una Scienza Nomade contro la Scienza di Stato. Qui mi pare si possa situare il vero nucleo di una dimensione ecologica a tutto tondo. Altro che fonti di energia alternativa, decrescita o quant’altro. Se non de-colonizziamo o de-statalizziamo il rapporto tra noi e tutto il resto (tutto ciò che non è ‘noi’), ogni discorso sull’ecologia diventa tecno-burocrazia, economicismo, neo-autoritarismo. Di fatto, quello che i due filosofi francesi mettono a fuoco nel deserto, in un luogo, almeno all’apparenza, dell’impossibilità per la vita (e in cui questa deve superare sé stessa per sussistervi) è l’origine di una nuova posta in gioco per la vita come tale, una nuova dimensione dell’ecologia. Un’ecologia che poi Guattari declinerà al plurale, secondo tre registri: quello dell’ambiente, quello dei rapporti sociali e quello della soggettività umana. Trovare nel deserto i modi e i mezzi della propria sopravvivenza (così come le risorse vitali) sarà possibile solo a patto di immaginare una ‘scienza minore’ che si faccia carico di nozioni come mutamento, eterogeneità, variazione continua – in opposizione a ciò che è stabile, identico, costante. E qua introduco l’ultimo riferimento al film che citavi di Joris Ivens, dove il deserto diventa teatro del vento. Quel vento di cui il grande regista olandese cerca di catturare l’immagine invisibile. Ma in Ivens non c’è nessuna ricerca del vuoto, se è vero che per tutta la sua vita ha rincorso le rivoluzioni proletarie per tutto il mondo. Ecco tutto questo è precipitato ad Yinchuan, sotto il deserto del Gobi, mentre cercavo qualche traccia (o filo da annodare) per definire il tema della Biennale.
La Nomadologia di Deleuze e Guattari è dunque il framework concettuale di questa Biennale. Qual è la potenzialità di questo tipo di pensiero non-lineare?
Il primo aspetto basilare che mi viene in mente è l’abbandono definitivo dell’idea di ‘universalismo’ con cui l’arte contemporanea (e l’idea di democrazia che l’accompagna) ha colonizzato il mondo, spacciando se stessa come qualcosa di neutrale, autonomo, atemporale. Questo non è altro che il miglior prodotto di una Scienza di Stato. Come affermano Deleuze e Guattari: “l’immagine classica del pensiero e la striatura dello spazio mentale che essa opera hanno una pretesa di universalità. Infatti essa opera con due universali: il tutto come fondamento ultimo dell’essere o orizzonte che lo ingloba, il soggetto come principio che converte l’essere in essere per noi”. Cioè, Impero e Repubblica…
La mostra è costituita da quattro sezioni – che hai curato con l’aiuto di quattro curatori diversi – che ruotano attorno ad altrettanti nuclei tematici. Ci vuoi spiegare quali sono e in che modo sono stati scelti gli artisti, occidentali e non?
Intendere una biennale come qualcosa di situato significa individuare degli artisti secondo una geopolitica precisa. In questo caso i novanta artisti partecipanti sono stati selezionati con un’attenzione particolare al bordo occidentale della Cina: un margine storicamente poroso, permeabile, grazie alla leggendaria Via della Seta. Gli artisti provengono dunque dalla Mongolia fino alla Cambogia e all’Indonesia (nel senso della latitudine) ma anche dalle aree lungo le rotte della Via della Seta (in senso longitudinale). Come si sa le vie carovaniere euroasiatiche univano Roma con Xi’an: dunque perché tenere esclusi gli artisti italiani?
Non solo si parla di ecologia, ma si cerca, nella maniera stessa in cui è stata concepita la biennale, di proporre un modello di mostra ecologica. In che modo?
La soluzione è stata quella di una mostra trasversale e inclusiva. Nulla sarebbe dovuto rimanere fuori dall’oikos: la casa (l’unità abitativa indigena di Marjetica Potrc), il cibo (il porridge di Kimsooja), il lavoro (la cooperativa agricola di Bouba Touré e Raphael Grisey), il minerale (le pietre di Wang Sishun), il vegetale (la piantagione di Zheng Bo), l’animale (la tigre Turan di Saodat Ismailova), l’acqua (il catamarano di Peter Fend), la terra (le sabbie di Song Dong), il genere (i ritratti femministi di Sheba Chhachhi), la voce (le Diplofonie di Demetrio Stratos), la scrittura (i pattern di Xu Bing), le religioni (il mandala di rame di Tserin Sherpa), la storia (il ritratto dell’Imperatore di Giuseppe Castiglione), la geografia (le mappe tibetane di Penba Wangdu) e molto altro ancora. Tutto ciò che potremmo definire extra-disciplinare, in sostanza.
Come si pone questa biennale all’interno del sistema dell’arte in cui termini come ecologia, natura, antropocene fanno parte della retorica mainstream, con il rischio di cadere nell’estetizzazione e, quindi, nella banalizzazione di tematiche sempre più urgenti e importanti?
Posso rispondere con un’altra domanda che mi ha fatto una giovane studentessa ad una conferenza che ho tenuto all’Università di Yinchuan. Dopo una mia presentazione lei mi ha chiesto: “L’ecologia è sempre associata con il colore verde, perché lei ha scelto un’immagine arancio-marrone per comunicare la biennale di Yinchuan?” Credo che questa domanda colga perfettamente la differenza, senza dover aggiungere altro.
Second Yinchuan Biennale
Starting from the Desert-Ecologies on the Edges
a cura di Marco Scotini
in collaborazione con Andris Brinkmanis, Paolo Caffoni, Zasha Colah e Lu Xingh
Fino al 19 settembre 2018
MOCA – Museum of Contemporary Art Yinchuan
No.12, HeLe Road
Xingqing District – 750101 Yinchuan (Cina)
Info: www.moca-yinchuan.com
ycmoca@moca-yinchuan.com