di ANTONELLO TOLVE
Forse questo pessimo libro di Jerry Saltz che da qualche mese è nelle vetrine delle librerie italiane e in terza pagina dei più rispettati autorevoli quotidiani locali o nazionali, non abbisognava di una traduzione così elegante: né tantomeno di una così raffinata impaginazione. Saltz è semplicemente un salottiero e mi meraviglia che una casa editrice così brillante nelle scelte e nella organizzazione del proprio piano editoriale (mi riferisco alla Johan&Levi) abbia inserito in una delle sue collane questo pessimo volume intitolato Come diventare un artista. Mi meraviglia anche che qualcuno abbia potuto scrivere che il libro va letto, che è un importante (e quasi indispensabile) strumento per analizzare il nostro presente, magari senza nemmeno accorgersi che esistono libri migliori: «gli americani proprio non ce la fanno a non parlare di successo» ha giustamente apostrofato Luca Beatrice, dopo aver dato un colpo alla botte e uno alla ruota. Certo, se bisogna ricondurre tutto al successo e magari mortificare lo studio e la disciplina, se magari (come si evince da questo terribile libretto) basta essere al posto giusto e con le persone giuste e nel momento giusto perché si venga bagnati dalla dea bendata, allora vuol dire che siamo letteralmente alla frutta, sporca e decisamente marcita.
Nella sua diarrea verbale di tanto in tanto il volume di Jerry Saltz mostra anche qualche pezzetto di nocciolina, indice di qualcosa mal digerito, passato semplicemente per le vie evacuatorie senza grossi problemi e controlli. Saltz non si rende neanche conto di saccheggiare (lo fa incoscientemente) tutta una serie di pensieri altrui. «E se ti dicessi che ogni nuova opera d’arte assume già un determinato aspetto addirittura prima di essere creata?». E se ti dicessi che questa nozione è stata già largamente tratteggiata e trattata da tutta una serie di maestri (di veri maestri) di estetica e di teoria dell’arte attorno alla metà del secolo scorso, nell’ambito delle ricerche – quelle che andavano a impostare il pensiero europeo e americano – legate alla fenomenologia, alla Gestaltpsichologie, alla cibernetica o al behaviorismo? E che tra l’altro in Italia una figura autorevole come Gillo Dorfles, ad esempio, ne parla splendidamente già nel suo Discorso tecnico delle arti? Caro Saltz, il Discorso tecnico delle arti (che i più giovani dovrebbero leggere) non è un antipasto o un secondo o uno stuzzicadenti, ma semplicemente un libro pubblicato nel 1952, in una collana (Saggi di varia umanità, curata da Francesco Flora) dell’editore Nistri-Lischi.
C’è da dire tuttavia che questo volume di Saltz è scritto bene, davvero molto bene. Ci mancherebbe! Del resto parliamo di uno dei quattordici premi Pulitzer (quello per la critica, 2018) che ha un gran dono per la scrittura. Peccato che però abbia scritto un libro per acchiappacitrulli. Il problema è che in Italia non ci sono acchiappacitrulli: i ragazzi studiano ancora e hanno voglia di leggere le cose serie, di farsi le ossa su tessuti teorici reali e non su improvvisazioni o su stupidi risaputi giochetti.
Un altro grande problema è che figure come Jerry Saltz non leggono un libro impegnato da cui eventualmente partire – e non dimentichiamo che i libri si fanno con i libri (lo aveva detto un poeta, Andrea Zanzotto) – per strutturare un discorso: si limitano piuttosto a fare un’antropologia spicciola, da bar metropolitano o da galleria newyorkese (pensando sempre di essere al centro del mondo: e certo non del mondo dell’arte ma del mondo dell’economia dell’arte, del mercatone per intenderci, che è una cosa alquanto diversa), per poi raccontare con un po’ d’esperienza a buon mercato e magari anche con un occhio molto allenato, la prima cacchina che possa fruttare un dibattito, cavalcare un’onda mediatica. Tanto di cappello per Jerry Saltz e per il suo meritatissimo Pulitzer, ma attenzione: va bene l’opinione che scrive sulle pagine del New York Magazine per allietare la comunità americana o anche il recinto ristretto degli amichetti dell’arte: ma non va assolutamente bene quando cade nel ridicolo con un librucolo che magari è diventato un bestseller negli States e che ora qualcuno vuole porre al centro del dibattito italiano, in quella che solo gli stupidi pensano come la piccola provincia dell’impero.
Ma sentite. Se sulla prima dell’edizione americana (How to Be an Artist, Octopus Publishing Group, 2020) campeggia una fragorosa frase di Grayson Perry («I wish I had read these rules forty years ago and carried them around like a bible») – un’altra dichiarazione per accreditare questo libro è quella di Steve Martin («This book is for the artist or non-artist, for the person who gets plain English, for the person who understands that practical talk can coax out the mystical messages that lie underneath») – che sembra quasi di vendere la verdura al mercato, sulla quarta dell’edizione italiana (Johan&Levi appunto, pubblicata nell’ottobre 2020) troviamo, in alto, Francesco Bonami con «un artista fallito diventa il più grande guru per aspiranti artisti. Saltz ti insegna perché essere un grande artista dipende solo da te» (il più grande guru? il più grande? ma stiamo scherzando?) e, in basso, Maurizio Cattelan con lo slogan (spicciolo e ruffianotto) «un libro che dovrebbero leggere tutti quelli che avranno il coraggio di fare gli artisti». Ecco allora come un libro che non vale un fico secco – e per giunta legato a un fenomeno da baraccone che ha il suo orticello di potere (e che magari è anche un influencer) – prendere il suo posto nell’olimpo delle menti degli italiani, grazie (naturalmente) a una marchetta pubblicitaria studiata e impacchettata con tanto di fiocco multi-color.