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Intervista a TOMMASO TISOT di Leonardo Regano

Continua l’indagine di CloseUp sul collezionismo italiano con un nuovo incontro di cui è protagonista Tommaso Tisot, avvocato riconosciuto in ambito civile e della pianificazione patrimoniale e successoria che ha da tempo convogliato il suo interesse per l’arte nel mondo giuridico, occupandosi di diritto dell’arte e delle questioni connesse alla circolazione delle opere e alla loro tutela. La sua collezione si contraddistingue per un importante focus sulle nuove generazioni, con uno spiccato interesse per la scena africana e per i mercati emergenti. Ci sentiamo a pochi giorni dalla conclusione di Artissima, fiera a cui Tommaso Tisot è particolarmente legato anche per il suo impegno come Presidente del Consiglio di Amministrazione del Professional Trust Company, società che nel 2019 ha istituito in collaborazione con la kermesse torinese un progetto di supporto economico alle giovani gallerie, il New Entries Fair Fund.

Incominciamo il nostro dialogo partendo dal principio, dalle origini della tua collezione. La tua attività collezionistica parte nel 2014, continuando con regolarità fino a oggi. Come mai proprio allora e cosa ti ha spinto verso questa scelta?
Sono sempre stato un collezionista in realtà, anche se non subito dedito all’arte. Quando mi prende una mania, la seguo e la assecondo. Ho tutti i numeri del National Geographic, per raccontartene una. In un certo senso, mi ritrovo molto in quella definizione di “animo curioso” che ha usato Enea Righi per definire gli appartenenti al segno dell’Acquario – che con lui condivido (l’intervista a Enea Righi è stata pubblicata sul magazine Espoarte #119, nda).

E perché ad un certo punto proprio l’arte contemporanea?
Si tratta di una passione che coltivo da molto più tempo, fin da bambino. I miei genitori mi hanno sempre fatto masticare arte e cultura visitando mostre e musei o con un approccio più diretto, grazie alle opere presenti in casa. Il loro collezionismo era però orientato a un’arte decisamente più classica, al primo Novecento in particolare. Una grande passione per loro è stato il Futurismo che credo dovuta soprattutto alle nostre origini e al territorio. Questo senso di curiosità per l’arte è rimasto vivo in me, manifestandosi ancora più forte negli anni successivi alla laurea, come ricordavi. Negli anni ho continuato a visitare mostre, gallerie e musei. Crescendo ho però maturato un gusto sensibilmente differente rispetto a quello dei miei genitori, legandomi più al contemporaneo e al non-figurativo. Raggiunta una maggiore disponibilità economica ho sentito anch’io il desiderio di iniziare a comprare opere, con la ferma consapevolezza di non potermi far guidare solo dall’istinto, ma di dover studiare attentamente il mercato prima di definire il mio interesse. Quando si compra arte non si acquistano semplicemente degli “oggetti” ed è importante che si abbia un obiettivo specifico, che si conosca bene quello che si sta comprando avendo un’idea di dove si vuole arrivare.

Evgeny Antufiev, Untitled, 2016, legno, bronzo, ottone e tessuto

E dopo questo periodo di studio e di riflessione, qual è stata la prima opera che hai acquistato?
Ho rivolto il mio interesse fin da subito sugli artisti emergenti. La prima opera che ho comprato è stata un disegno su tavola, acquistata quando ero ancora studente durante un viaggio a Berlino da un giovane artista che aveva il suo atelier in uno spazio occupato. Guardo ancora oggi con attenzione al lavoro dei giovani – anche se ammetto che allora era più per necessità economiche, mentre adesso più per il piacere dell’azzardo, della “sfida” alle regole del mercato. Dello stesso periodo universitario, ricordo anche alcuni lavori presi a New York da due artisti conosciuti in una piccola galleria newyorkese, di cui uno, Adam Handler, americano classe 1986 che oggi continua la sua attività con un certo seguito. Considero però il primo vero acquisto ragionato e consapevole Untitled, 2016, una scultura di legno, bronzo e stoffa dell’artista russo Evgeny Antufiev, artista che stimo tantissimo e che oggi è presente nella mia collezione con ben nove lavori. Io e Evgeny abbiamo un continuo confronto sul suo lavoro che è per me fondamentale, e che mi ha portato a fare un passo in più nel mio modo di collezionare. Con gli artisti che colleziono oggi tendo sempre a creare un rapporto personale, di scambio e conoscenza, di condivisione. E anche con i galleristi. Per esempio, Sara Zanin (Galleria z2o, Roma nda) è stata un riferimento fondamentale per me in questi primi passi della ricerca. Da lei ho comprato, oltre Antufiev e tra gli altri, Ekaterina Panikanova, Giovanni Kronenberg e Silvia Camporesi.

Halilaj Petrit, Abetare (Smoky House), 2015, acciaio

Quali gallerie sono oggi i tuoi riferimenti?
Attualmente ho un rapporto di scambi intensi con Spazio A, ma anche con ChertLüdde, Rolando Anselmi, P420, e con APalazzoGallery, cofondata da Francesca Migliorati che è oggi uno dei miei indiscussi riferimenti tra i galleristi. Un gran bel percorso è stato anche quello che ho intrapreso con Magazzino, altra galleria romana come quella di Sara Zanin. Da Mauro Nicoletti e Gabriele Gaspari ho acquistato alcuni pezzi importanti che caratterizzano alcuni aspetti della mia collezione. In particolare ho dei lavori che rispecchiano il mio modo di collezionare come il disegno con china su carta da pacco di Mircea Cantor, un’opera materica creata con la cera delle chiese di Roma di Alessandro Piangiamore e le sculture ottenute con particolari processi di Namsal Siedlecki. Ma non mi confronto solo con realtà italiane. Ho un dialogo continuo, per esempio, con tre gallerie sudafricane, di Cape Town per la precisione, ovvero Smac, Blank Projects, Whatiftheworld.

Tommaso Tisot con la moglie Ilaria Mori e gli artisti Wallen Mapondera e Flavio Favelli alla fiera di Cape Town ph. credit Gianluigi Collin

La tua collezione è conosciuta, infatti, anche per l’importante focus che hai dedicato alla scena artistica africana contemporanea. Come ti sei approcciato a questo mercato?
Credo che sia stata una naturale evoluzione del mio gusto personale, orientato fin dai primi acquisti verso artisti – e quindi poi anche mercati – emergenti. Come ti dicevo, investire in arte è per me quasi una questione di “gioco”, se mi passi il termine, una ricerca che mi porta spesso a iniziare a interessarmi ad un artista quando ancora non ha una galleria o le quotazioni che non superano certi valori seguendolo nella sua crescita professionale. L’Africa poi è stata una scelta quasi spontanea, un retaggio della mia infanzia e dei viaggi fatti con i miei genitori in Namibia, in Kenya o nel Nord e nel Sahara. Per questo ho accetto con una certa curiosità l’invito a seguire la fiera di Cape Town, magistralmente gestita dalla direttrice Laura Vincenzi.

Da sx a dx: Giulia Cenci, exercise for a fall, 2019; Athena Papadopoulos, Gurney I, 2017; Namsal Siedlecki, Nerbo 2017; Charles Brett Seiler, Flowers for mother 2020 e A Portrait of your father 2020, untitled 2018, Arcangelo Sassolino e Namsal Siedlecki

Non si può però negare che sia un mercato che oggi attira molti investimenti…
Certo, ma nella mia collezione manca tutta quella pittura che è oggi di gran moda e che, onestamente, non mi interessa. Il mio gusto è da sempre più incline alla scultura. Oltre ad Antufiev, di cui parlavamo, ho acquistato opere di Petrit Halilaj, Arcangelo Sassolino, Giulia Cenci, June Crespo o Ibrahim Mahama, per farti altri esempi. Nella scena artistica africana ritrovo un utilizzo dei materiali e un’espressività scultorea degna di attenzione per come le nuove giovani generazioni si stiano rivelando capaci di innovare la tradizione locale guardando anche al nostro passato occidentale, studiando per esempio l’Arte Povera. Per me questa spinta verso nuove possibilità creative si ritrova solo in quei luoghi dove ancora c’è “fame”, dove c’è una decisa voglia di emergere e di affermazione.

Europei e americani sono quindi, a tuo avviso, artisti ormai troppo invischiati con le regole del mercato per avere voglia di andare oltre?
In parte sì, e questo a me un po’ disturba. E oggi anche le istituzioni guardano a questa nuova creatività, come dimostra la presenza di tanti artisti di origine africana in Biennale a Venezia. E tra questi anche il sudafricano Igshaan Adams, Wallen Mapondera dello Zimbabwe o Kaloki Nyamai del Kenia, da me scoperti e comprati in Sudafrica ormai qualche anno fa.

Igshaan Adams, Vloer lap, 2020, perline e conchiglie e spago di cotone, 150x72x18 cm

Il “gioco” del mercato dell’arte consiste nella capacità di anticipare i nuovi trend, sfida che ti piace cogliere correndo anche i dovuti rischi. Cosa significa esattamente questo?
È ciò che mi diverte di più. Per farti un esempio concreto, sono convinto che oggi la nuova frontiera sia il Brasile e conto di andarci nel 2023 per Art Rio per iniziare ad investire in questo mercato, anche se in parte ho già iniziato a farlo. Come per il Sudafrica, voglio conoscere direttamente gli artisti del territorio, visitare i loro atelier, capire quali energie si respirano in quei luoghi. Purtroppo, la pandemia ha frenato per un po’ questo mio desiderio, ma mi sto organizzando per andarci presto. Un altro mercato da tenere d’occhio è sicuramente il Sud-est asiatico, il Vietnam, il Borneo, la Malesia, territorio quest’ultimo dal quale, ad Art Basel, ho comprato un’artista molto interessante di nome Yee I-Lann.

Tornando in Europa, qual è il tuo punto di vista su questa prima tranche di grandi fiere che abbiamo appena vissuto?
Assolutamente non ho gradito la loro vicinanza temporale che costringe a fare delle scelte in termini di partecipazione. Potrebbe avere senso iniziare a ragionare seriamente su una riduzione del loro numero. Detto questo, mi è piaciuta molto Parigi dove si è respirata una grande energia rispetto a Londra. Sembra quasi che il mercato dell’arte stia tornando proprio lì dove è nato. E poi la città offre un contesto imparagonabile con tutta la sua straordinaria offerta di musei ed eventi collaterali. Pensa al confronto con Basel, oltre la Fondazione Beyeler cos’altro ha da offrire la città ai suoi visitatori? Il contesto fa la differenza, perché le grandi fiere che tendono tutte un po’ a assomigliarsi tra loro, a differenza delle realtà più piccole, quelle locali, dove realmente per un collezionista è possibile fare scouting e instaurare nuovi rapporti con artisti e galleristi.

E sulla nuova direzione di Artissima cosa ne pensi?
Luigi Fassi ha avuto il coraggio di puntare su proposte nuove, aprendo a gallerie che ancora non si erano mai viste a Torino. Il suo lavoro è stato molto stimolante. Abbiamo certo sentito tutti tante lamentele da parte di gallerie italiane che non sono state prese e hanno contestato le scelte della direzione. Personalmente, però, credo che bisogna trovare un giusto compromesso nell’offerta fieristica italiana. Se vogliamo che Artissima sia la Fiera internazionale in Italia, è giusto e logico che vengano accolte più gallerie estere. Perché come collezionista italiano, per esempio, io vado a Torino proprio per questa sua connotazione e non per ritrovare realtà italiane che invece posso visitare in altre occasioni.

Tra i nuovi nomi visti a Torino, chi mi segnali?
Una galleria di Londra, Arcade, presente nella sezione Disegni con dei lavori molto interessanti dell’artista Dapper Bruce Lafitte, una galleria di Parigi, In Situ, con dei lavori incredibili di Mark Dion oppure la galleria berlinese Kow, che rappresenta tra gli altri l’artista egiziana di origini armene, Anna Boghiguian.

Hai mai comprato opere in asta?
No, non ancora. Guardo le aste e le studio per capire che tipo di movimenti ci sono. Per il momento, però, l’acquisto attraverso questo canale mi toglie un po’ il gusto di quello che mi piace realmente fare.

June Crespo, Optico, 2022, acciaio, rivestimento in ceramica, 65 × 24 × 70 cm

June Crespo, Optico, 2022, acciaio, rivestimento in ceramica, 65×24×70 cm

Qual credi che sia la più grande responsabilità per un collezionista?
Ritengo che un collezionista abbia un vero e proprio ruolo sociale nel momento in cui costruisce la sua collezione. Noi abbiamo la possibilità di educare all’arte le nuove generazioni rendendo, laddove possibile, fruibili le nostre collezioni al pubblico. Io, per esempio, mi sono messo a disposizione di ar/ge Kunst, qui a Bolzano come consulente, perché credo che il collezionista oggi costituisca anche una parte “tecnica” nel dialogo istituzionale tra artista, curatore e gallerista. Spesso siamo anche i motori di nuove iniziative, come nel mio caso è stato con Palazzo Monti, a Brescia, di cui ho creato e amministro con Edoardo Monti il Trust che sostiene il progetto di residenze da quest’ultimo curate.

CloseUp è un appuntamento mensile con il collezionismo, a cura di Leonardo Regano, realizzato in collaborazione con Art Defender.

Leggi gli altri episodi di #CloseUp: www.espoarte.net/tag/closeup/

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