GENOVA | Cerruti Arte | 7 febbraio – 15 marzo 2014
Intervista a FRANCO MAZZUCCHELLI di Luisa Castellini
«Tanti anni fa in Thailandia rimasi molto colpito da queste gigantesche statue di Buddha che sono quasi “inscatolate”, compresse nello spazio che occupano al punto, spesso, di non poterle guardare interamente: ecco, con le mie installazioni ho voluto in un certo senso trasporre quella sensazione».
Commenta così Franco Mazzucchelli – Milano, classe 1939 – la grande installazione che conquista parte degli spazi di CerrutiArte, ove è in corso una sua mostra personale con una selezione di sculture, opere su tela (“Bieca decorazione”), documenti e immagini che ripercorrono la sua ricerca dagli anni ’60 a oggi. Capriole con la ventiquattrore. Così accadeva alla Triennale di Milano nel ’73. Così oggi si gioca con la grande spirale installata per la sua mostra a Genova.
Quale storia racconta questo grande gonfiabile a forma di spirale che invade la galleria?
Si tratta di un’installazione che per la prima volta è stata esposta alla Quadriennale di Roma del 1986 e da allora ove lo spazio, viste le sue misure standard di 3x3x3 metri, lo consentiva. Mi piace che i gonfiabili siano quasi compressi nello spazio, laddove siano installati all’interno, che vivano in questa contraddizione. Questo in mostra avrebbe molte storie da raccontare e le sue varie “toppe” lo testimoniano. È uno di quelli che ho conservato e quindi “riesumato”. Altri, invece, sono destinati fin dall’inizio a essere abbandonati al loro destino.
Come è iniziato il suo percorso artistico?
Ero studente di Marino Marini all’Accademia di Brera quando, era il ’64, andai a Parigi con Alik Cavaliere, carissimo amico. Là vidi Arp e Duchamp ma soprattutto fui ospite di un pittore, del quale non svelerò mai il nome, che aiutai a realizzare qualcosa come 60 quadri in un giorno intero… Sì 60 quadri! Lui era incredibile, bravissimo, ma in me quella scena scatenò una reazione violenta. Ma come, mi dissi, ho visto la fatica gioiosa degli artisti… no, così no! Allora iniziai a riflettere su come uscire dalla galleria, che all’epoca poteva anche dettare le misure per una mostra in base al mercato cui era destinata.
Uscire dalla galleria: è stata questa la spinta, condivisa da molti artisti della sua generazione, di fare un’arte che andasse verso l’altro, meno elitaria e più sociale, che ha portato ai gonfiabili?
Sì ma non è stato così semplice! Tornato a Milano volevo scendere in strada, essere libero. Pensai all’espanso ma era troppo complicato. Poi ai cartoni, ma erano troppo fragili: all’aperto cambia tutto. Poi vidi che i distributori di benzina davano come gadget dei piccoli gonfiabili…ed ecco l’idea da cui sono nati gli Abbandoni e poi le altre mie serie.
Le sue opere hanno la più democratica delle pelli ma conservano una natura originale perché realizzati tutti da lei. Quale è stata la parte della tecnica?
I primi Abbandoni, a forma di ricciolo, si sgonfiavano dopo una mezz’ora: dopo aver studiato la poltrona di Zanotta sono passato alla saldatura a radiofrequenza e tutto è stato possibile: realizzare spirali e altre forme gigantesche e abbandonarle in Camargue come sul lago di Como, a Volterra o a Torino davanti agli stabilimenti dell’Alfa Romeo.
Molte delle sue installazioni sono diventate il fulcro di azioni imprevedibili, il tutto lontano dall’etichetta di chi entra in galleria…
È soprattutto grazie a Enrico Cattaneo che le mie opere sono state documentate: fotografate ma anche filmate. L’obiettivo era registrare le impressioni, le reazioni della gente. Così è oggi possibile rivedere gli operai dell’Alfa che con un mio A.TO A. (Art to Abandon o anche a toi, per te, ndr) improvvisano un blocco stradale durante uno sciopero o i bambini giocare con un altro a Volterra.
Dagli A.TO A. alle Appropriazioni: quale percorso le ha generate?
A metà degli anni ’70 mi invitarono per una collettiva alla Triennale di Milano con 1 mq di spazio. Rifiutai: dopo qualche tempo mi richiamarono dandomi carta bianca. Pensai allora a come intervenire sulla percezione dello spazio, questa volta interno. Così presi un rotolo di poliestere alto 10 metri e le cappe da cucina mie e di quanti conoscevo perché il tempo stringeva. Volevo fare un tappo, bloccare l’ingresso. Così è stato e il pubblico all’interno di questo spazio, inusuale, si abbandonava al gioco. Ricordo un distinto signore con la ventiquattrore entrare e mettersi a fare capriole: lì c’era il senso di tutto.
Come nasce invece la “Bieca decorazione”?
Col tempo ho iniziato a realizzare opere su tela, quattro-cinque volte l’anno, per raccolte fondi ed eventi pro bono. Poi, nel 2000, ho trovato questo termine, “Bieca decorazione”, e mi sono sentito libero di fare quello che volevo. Anche al chiuso, nel museo, in galleria. Il primo intervento in questo senso è stato nello spazio Anny Di Gennaro dove ho tappezzato tutta una stanza con le mie opere.
Molte delle rotte aperte negli anni ’60 e ’70 sono ancora oggi al centro dell’indagine di molti giovani artisti. C’è ancora da dire o da fare o è “bieca ripetizione”?
Sul corpo, sullo spazio, sul sociale, c’è certamente sempre qualcosa di “nuovo” da dire. Ognuno ha il proprio sguardo: bisogna però seguire la propria creatività e non quella degli altri. Nell’arte l’importante è sempre stata una cosa sola: decidere.
Franco Mazzucchelli. Omaggio all’aria
7 febbraio – 15 marzo 2014
CerrutiArte
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