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Lorenzo Bruni da Roma

Con quali oggetti e spazi del tuo quotidiano hai interagito di più durante la quarantena?
Hanno vinto, in pareggio purtroppo, due oggetti: le cuffie per le lezioni a distanza con i miei studenti e l’oggetto libro cartaceo. Invece ha visto una forte svalutazione il mio preziosissimo Kindle, il quale normalmente è l’oggetto che uso di più durante i miei spostamenti per i viaggi di lavoro. Al suo posto ho riscoperto i miei libri cartacei, saggi che non si trovano in rete, che mi hanno dato la possibilità di approfondire ricerche che avevo lasciato per troppo tempo in attesa come una ricerca sulla videoarte, sulla storia della grafica e sul concetto di crossover negli anni ’90.

Cosa ti è mancato? La tua personale esperienza dell’“assenza” e della “mancanza”.
Le passeggiate di notte nel centro di Firenze dopo gli incontri con il gruppo di artisti del collettivo di Base progetti per l’arte, i tramonti sul Gianicolo di Roma o quelli in montagna… Oltre al momento in cui il tipografo ti consegna il libro appena finito. Erano in dirittura di arrivo tre libri e quell’incontro adesso è rimandato o forse cancellato. Forse potrò compensare in futuro con la presentazione di alcuni libri come quello dei venti anni di attività di Baseitaly.org? Al posto di questi appuntamenti sono riuscito a conquistare più tempo per confrontare le mie idee con mia moglie, storica dell’arte del Futurismo e curatrice. Ho avuto più tempo per ascoltare meglio le sue idee, tra cui quelle legate al ruolo della cultura e della didattica a distanza… tema scottante e sempre più attuale.

Musei e gallerie hanno reagito al momento con la digitalizzazione e la virtualità. Quali sono le tue “strategie” per instaurare nuove relazioni?
Sono sempre stato uno sperimentatore delle possibilità della comunicazione digitale. Ma proprio in questo periodo ne ho avuto un rifiuto. Troppi commenti auto-riflessivi. Troppi monologhi senza un vero dialogo. Così, mi sono concentrato sullo sviluppo di una piattaforma online di contenuti legata al progetto di The Others per indagare il ruolo dei non profit e delle giovani gallerie, oltre all’indagine di come sia cambiato il mercato dell’arte negli ultimi dieci anni. Tale progetto non nasce dal nulla: era iniziato un anno fa con la prima edizione della fiera me diretta, durante la quale si è puntato a creare una piattaforma teorica e pratica su cosa intendiamo oggi per indipendente, ovvero da cosa e come. Nel momento dello sconvolgimento sociale e lavorativo dovuto al Coronavirus, questa mi è parsa una riflessione ancora più necessaria. Abbiamo deciso di aspettare la ripartenza del paese e la fine del lockdown per uscire con una serie di numeri online di una rivista correlata alla fiera. Proprio per non incorrere nella saturazione di informazioni a cui eravamo arrivati in quarantena e non far apparire il progetto soltanto una reazione istantanea alla pandemia, ma un qualcosa di diverso. Infatti, è legato a reagire ad una crisi di sistema più ampia, che questa pandemia ha portato a svelarne solo alcuni aspetti più evidenti.

Stiamo capendo che si può vivere con meno mobilità?
Stiamo capendo che abbiamo usato le nuove potenzialità tecnologiche per intrattenimento più che come uno strumento o un fine per trovare nuove soluzioni. D’altra parte, dobbiamo renderci conto che l’economia dell’epoca post-ideologica deve essere ancora compresa fino in fondo. Si tratta di un’economia che è andata sempre più verso una dimensione che non produce oggetti, bensì servizi, o meglio esperienze di intrattenimento. Alcuni germi di questo cambiamento possono essere visti nella grande diffusione, venti anni fa, di Ikea che per l’appunto non vende semplicemente oggetti, bensì un evento in cui il consumatore diviene il produttore (montatore) dei suoi mobili. Esagerando potremmo dire che tutti noi, oggi, siamo dei creatori di servizi (grazie ai nostri social media) e consumiamo e ci relazioniamo con gli altri solo per accedere ai materiali, per completare i servizi che dobbiamo fornire. È quello che accade con la piattaforma Gnammo, che mi porta a comprare alimenti per invitare degli estranei per una cena cucinata da me a pagamento. Lo stesso accade con il ben più noto Airbnb, in cui possiamo vendere, da due anni, servizi come guide turistiche nella propria città e non solo la propria casa a tempo. Queste modalità di servizi (forniti e ricevuti) oltre a essere dei modi aggiuntivi di guadagno, cosa sono se non dei modi per intrattenere il tempo e divertirsi in maniera alternativa? Infatti, questo tipo di servizio non è adatto a chi è senza lavoro, ma si rivolge ad un altro tipo di di audience. Un audience che è legato alla ricerca di un nuovo tipo di intrattenimento e che è alla ricerca di nuovo ruolo in questa società liquida. Il periodo della quarantena ha amplificato questo stato di cose legittimato dal fatto che ognuno aveva tanto tempo libero, legalizzato, da investire. Il punto è che si è spostato tutto nel mondo del virtuale, svelando a tutti il nuovo stato delle cose in maniera equivoca. Quello che veramente abbiamo scoperto è che il mondo non è a portata di click, ma che il mondo è nella nostra stanza. La vera nuova sfida, quindi, non è praticare i servizi (usati e forniti) da remoto, bensì capire non soltanto quali sono le nuove esigenze, il desiderio di desiderare, ma quali sono i nuovi possibili obiettivi di questo mondo economico/sociale/politico di servizi virtuali. Questa è la vera domanda che ci dobbiamo porre.

Ad oggi quali sono state per te le conseguenze immediate della diffusione del Covid-19 sul tuo lavoro e quali pensi possano essere le conseguenze a lungo termine?
Le conseguenze immediate riguardano il mio portafogli. Tanti progetti curati da me che stavano per inaugurare o che si erano da poco inaugurati si sono bloccati. Il lavoro era già stato fatto, ma non è stato pagato a fronte del momento di crisi con la sua mancanza di pubblico, di collezionisti ecc. Certo tutto riprenderà e anche gli appuntamenti fissati semplicemente slitteranno. Alla lunga anzi i progetti si moltiplicheranno. Però la vera questione da far emergere è la precarietà del sistema economico legato alla cultura, debolezze che non possono più passare inosservate. Nel nostro caso specifico di curatori e di storici dell’arte è evidente che negli anni c’è stata una confusione. Ovvero il nostro lavoro, che consiste nel dialogo tra ricerca teorica e organizzazione dei vari ruoli coinvolti in un progetto, è stato sempre più interpretato come una semplice azione fluidificatoria di possibili contatti che devono portare consenso e soldi. Dovremmo imparare come categoria, come gli architetti anglosassoni, a far pagare il progetto e la progettualità. Spostando tale riflessione dal ruolo degli operatori della cultura visiva a quella della cultura dell’intrattenimento (dal museo al teatro) è evidente che da qui in avanti, dopo il Coronavirus, dovrà essere affrontato un ripensamento del lavoro rispetto all’utente smaterializzato; smaterializzazione che, per il distanziamento sociale, è diventata ancora più necessaria. I musei dovranno essere pagati solo quando verranno fruiti fisicamente? o dovrebbero offrire un servizio differente? In questo periodo, infatti, è stato chiamato in causa, per quanto riguarda il teatro o le arti performative, il modello Netflix. Quest’ultimo si paga prima di aver visto effettivamente il film, ad essere pagata è la libertà di poter vedere dei prodotti in potenza. Questo tipo di piattaforma non è però la soluzione, anche se pensarla come tale solleva il grande problema di come trasformare il servizio/retribuzione dei lavoratori della cultura senza incorrere nel famoso incubo dell’industria cultura di adorniana memoria. È una bella questione che aspettava da lungo tempo di essere affrontata, insieme a quella sul nuovo ruolo dei musei: cosa conservare e soprattutto per chi? Oggi dobbiamo aggiungere a queste domande: fruirne i contenuti come e in quale modalità?

Lorenzo Bruni è critico e curatore indipendente e dal 2000 è coordinatore dello spazio non-profit BASE / Progetti per l’arte (baseitaly.org) a Firenze per cui continua a realizzare progetti con i più importanti artisti attivi oggi a livello internazionale. Negli ultimi dieci anni insegna fenomenologia ed economia delle arti presso differenti accademie italiane oltre ad essere docente di Storia delle Arti visive e di storia della grafica, dal 2017, presso AANT di Roma. Dal 2019 ricopre il ruolo di direttore di The Others, una fiera dedicata agli spazi non profit e alle giovani gallerie emergenti che si svolge a Torino e per cui inizia un progetto di rivista online. Inoltre prende parte al board di The Phair una fiera dedicata alla fotografia e continua la sua collaborazione con il museo 900 di Firenze (iniziata nel 2018) dove cura il ciclo Duel con cui coinvolge artisti di fama internazionale (Ulla von Brandeburg, Jose davila, Yuyang Wang) a dialogare con un’opera scelta da loro dalla collezione permanente. Sempre nel 2019 avvia il ciclo di mostre dal titolo Connection in collaborazione con la galleria Frediano Farsetti di Milano producendo la prima mostra dal titolo ‘iniziamo da qui’ e il primo volume incentrato sull’eredità degli anni ‘90 in italia con interviste a Stefano Chiodi, Giorgio Verzotti, Angela Vettese e Giacinto di Pietrantonio. Nel 2018 ha collaborato con il MAGA – Museo di Gallarate e con Manifesta12 a Palermo per l’evento collaterale nel Museo Geologico della città dove sono stati coinvolti artisti di differenti generazioni. Sempre nel 2018 pubblica il libro “Oltre i colori come tabù” attorno alla storia dell’arte italiana dagli anni ’60 agli ‘80 e di come può essere interpretata oggi in un’era post-internet. Nello stesso anno è uscito anche il suo libro dal titolo Making Time sul tema della narrazione al tempo della post-verità analizzata attraverso il lavoro di tre artisti che lavorano sulle immagini in movimento dagli anni ‘90: Grazia Toderi, Slater Bradley e Park chag-kiong. Nel 2017 cura la mostra collettiva dal titolo “Io sono qui” al Museo Macro Testaccio di Roma e la mostra “Il frammento come strumento”, presso gli spazi della Galleria Enrico Astuni di Bologna, coinvolgendo Piero Gilardi, Maria Thereza Alves e Oysten Aasan. Sempre nel 2017 realizza il libro monografico su David Medalla oltre a curare la mostra di Eliseo Mattiacci per la Galleria Poggiali di Firenze per cui pubblica il libro dal titolo “Misurazioni”. Nel 2016 è stato consulente per la nuova apertura del Museo Pecci di Prato, sotto la direzione di Fabio Cavallucci, oltre ad aver pubblicato il libro “66/16. Ieri, oggi, domani eccetera” (Prearo Editore versione italiana, Sputink editions versione inglese) incentrato sulla smaterializzazione dell’opera d’arte dagli anni Sessanta ad oggi. Negli anni precedenti è stato curatore per differenti istituzioni museali italiane e straniere tra cui il centro d’arte Karst a Plymouth (Uk), il Museo RISO di Palermo, il Museo KCCC di Klaipeda, in Lituania; HISK a Gand in Belgio. E ancora alla Fondazione Lanfranco Baldi di Firenze, il Musée d’art modern de Saint-Etienne Métropole, Francia. La sua pratica curatoriale di ricerca lo ha portato a dare vita a differenti cicli di mostre, sempre intese come piattaforme di riflessione teorica e pratica, tra queste sono da segnalare quelle sull’idea di paesaggio contemporaneo, del viaggio all’epoca di Google Maps, sulla temporalità della scultura contemporanea, della tradizione pittorica astratta dopo la diffusione degli schermi digitali, sulle interazioni tra la performance, il video e il sound design fino a quello – ciclo di mostre dal 2005 al 2010 realizzato presso lo spazio di ViaNuova arte contemporanea di Firenze – sull’eredità del Modernismo.

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