BOLZANO | Museion | 30 settembre 2023 – 25 febbraio 2024
di GABRIELE SALVATERRA
Dopo la mostra Techno del 2021 e Kindom of the Ill del 2022, lo scorso 30 settembre ha aperto Hope, ideale conclusione della trilogia pensata dal direttore Bart van der Heide per il Museion e ruotante attorno all’ampio e complesso orizzonte delle techno humanities. Un ambito che – ne possiamo essere certi – non si esaurirà con questa mostra e che, nei tre anni appena passati, ha affrontato temi di più stringente attualità, non solo per le estetiche contemporanee di maggiore ricerca visionaria ma anche per la società, la politica, la progettazione di comunità e il ruolo delle istituzioni pubbliche (ad es. i musei) nel futuro.
Le techno humanities, nella declinazione che si è vista al Museion, cercano di rimettere le scienze umanistiche al centro del dibattito sul nuovo, riflettendo su utopie possibili che stanno coinvolgendo sempre più artisti, filosofi, pensatori e scrittori: l’ibridazione uomo-macchina, la costruzione di paradisi artificiali, lo sviluppo di nuove forme di società, la riscrittura della storia occidentale e capitalista secondo prospettive più inclusive e sostenibili, l’applicazione di nuovi punti di vista all’ottica usuale dell’uomo bianco occidentale e borghese.
Molta carne al fuoco dunque, ma se in Techno l’elemento della musica underground e del club alternativo come nuovo modello comunitario davano una chiusa tematica alla mostra, cosa che avveniva anche in Kindom of the Ill rispetto al rapporto tra corpi sani e corpi malati, l’impostazione di Hope scricchiola leggermente proprio a causa della mancanza di un unico tema forte e, forse, anche per la presenza di opere sicuramente molto complesse ma dalla minore carica iconica.
Il presente capitolo della trilogia è quindi quello dedicato alla speranza e a una visione propositiva rispetto al futuro. L’intero spazio del museo è coinvolto in una collettiva che sa anche un po’ di Biennale o Documenta, a partire dall’installazione sonora di Ulrike Bernard e Caroline Profanter in grado di rendere l’ascensore una specie di rampa di lancio retro-avveniristica per l’osservatorio/Museion, un museo che di fatto riesce a porsi sempre come piattaforma e termometro per quanto si sta riflettendo nel mondo di più nuovo e di ricerca. Osservando le numerose opere disposte lungo i quattro piani del percorso espositivo si nota la presenza costante, quasi nostalgica, del passato, come se la visione del futuro non potesse prescindere e da un esaurimento della carica innovativa del Novecento e da una riscrittura della storia che ci è stata consegnata. In questo senso il lavoro sulla fantascienza e la fiction come strumenti di revisione di quanto è avvenuto tornano più volte, ad esempio nel video di Sophia Al-Maria o nella narrazione a tre canali del collettivo Black Quantum Futurism.
Un’intera sala è poi dedicata all’epopea “afrofuturista” con un progetto corale che racconta una storia afroamericana alternativa, originata dal mito di Drexciya, attraverso grafica, linee temporali, musica e dischi. Molto accattivanti le opere di Irene Fenara, intenta a guastare video di sorveglianza remoti, e di Bojan Šarčevič che, con un congelatore funzionante e lasciato aperto, ragiona sugli sprechi e la sostenibilità dei musei.
Le “sculture africane” di Matthew Angelo Harrison, inserite in calchi industriali di resina poliuretanica o le inquietanti visioni post-umane di Michael Fliri, invece, ben sintetizzano il mix complesso e sofferto a cui si appresta la nostra umanità, in cui storia e innovazione, corpo e tecnologia, tendono a ibridarsi con sempre maggiore facilità. I video di Lawrence Lek e la chiesa iper-post-post-moderna di LuYang rappresentano le opere di maggior impatto e probabilmente le meglio riuscite. Il primo immagina con ricostruzioni 3D un’isola paradisiaca e solitaria a metà tra l’ambiente tropicale e la spa di lusso dove le persone possano trovare relax e dimenticanza. L’artista cinese inserisce invece nel rifacimento di uno spazio sacro alcuni video coloratissimi e rumorosi, nei quali divinità da videogioco costituiscono il nuovo oggetto di culto della contemporaneità.
Davvero molti, complessi e stratificati i discorsi che si possono intavolare: religione, salute, tecnologia, memoria, futuro, corpo, società, vita privata, tempo libero, mondi alieni, rovine, paesaggi bucolici e via dicendo. L’aspetto però forse più inquietante a emergere, e che probabilmente si può intuire anche da quanto qui detto, è che la grande spinta verso la speranza per il nuovo e le visioni avveniristiche spesso non fa che suggerire rimossi angoscianti che hanno il sapore di un passato a noi prossimo.
Hope merita di essere visitata (probabilmente più volte e a piccole dosi) per tentare di capire quanto ci prepareremo a vivere presto come esseri umani. Ciò che si percepisce però è che l’utopia sembra giocare sempre sul filo del rasoio della distopia, persino nei suoi momenti più solari; d’altra parte, il futuro – tra animazioni 3D, video, fumetti, serie televisive, cinema, ritrovati di società antiche – non ha affatto le sembianze di qualcosa di mai visto, ma corrisponde piuttosto al déjà vu di un tempo che abbiamo vissuto, appena trascorso.
HOPE
a cura di Bart van der Heide e Leonie Radine
in collaborazione con DeForrest Brown, Jr.
HOPE è il terzo capitolo di TECHNO HUMANITIES con un gruppo di ricerca internazionale di cui fanno parte Bart van der Heide, Leonie Radine, DeForrest Brown, Jr. e Gruppo Museion Passage
Exhibition design: Diogo Passarinho Studio
30 settembre 2023 - 25 febbraio 2024
Museion
Piazza Piero Siena 1, Bolzano
Info: + 39 0471 22 34 13
info@museion.it
www.museion.it