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Intervista a LUIGI BONOTTO di Francesca Di Giorgio*

Nel marzo scorso abbiamo avuto la fortuna di passare del tempo a Molvena (VI), a “Casa Bonotto”, accolti ed accompagnati da Luigi Bonotto – fondatore dell’azienda Bonotto Spa, oggi guidata dai suoi due figli Giovanni e Lorenzo – e Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto, istituita nel 2013 per conservare e mantenere viva una vasta collezione di opere e documenti Fluxus e di Poesia Sperimentale tra le più straordinarie e coerenti del Novecento. Un archivio che racconta moltissimo non solo di chi l’ha costituita ma anche di chi la vive ogni giorno all’interno degli spazi di lavoro dell’azienda, ormai perfettamente integrati con alcune delle sue opere più significative.
Come le trame dei tessuti prodotti dai telai di Bonotto, qui l’intreccio tra arte e impresa è talmente fitto da rendere invisibili i confini, dissolti fino a concepire gli “oggetti” come concetti e viceversa…

Fondazione Bonotto, esterno. Ph. Nicola Righetti

La sua passione per l’arte informale, dadaista, concettuale è nata dal suo contatto con un’altra azienda, dove suo padre l’aveva mandata a studiare tessitura. A Valdagno dai Marzotto, ha potuto conoscere gli artisti che ruotavano attorno al Premio promosso dall’azienda…
Molti sono gli incontri che ricordo bene, come se fossero avvenuti ieri! Su tutti è ancora vivido, nella mia memoria, lo sconvolgimento e il fascino procuratomi dall’opera Wrapped storefront di Christo, esposta a Valdagno nel 1965: un vecchio armadio della nonna a due ante il cui specchio era stato sostituito da un semplice telo bianco. Ci domandavamo: ma questa può essere arte?
Dopo molte domande e calorose discussioni con l’artista, divenne la mia opera preferita. Non dimenticherò quando, nel 1968, Alberto Burri ottenne il premio dell’ultima edizione Marzotto con i suoi “sacchi”, mandando quasi all’altro mondo il vecchio Marzotto quando si rese conto di aver sborsato milioni di lire per acquistare ciò che considerava dei semplici sacchi di juta, proprio come quelli che in fabbrica si era soliti buttare via ogni giorno. Per poco non gli prese un colpo.
Mi sembra ieri quando Michel Tapié, storico dell’arte informale, mi raccontava con molto entusiasmo che in Giappone dei giovani artisti di un certo “Gruppo Gutai” dipingevano le loro tele con il corpo e che le loro opere si potevano intendere come delle vere e proprie performances.
Anche Pierre Restany era ricco di spiegazioni sul Nouveau Réalisme, che in quel periodo stava lui stesso teorizzando…. E  i miei orizzonti culturali si allargavano!

Fondazione Bonotto, interno. Ph. Nicola Righetti

La commistione di arte e vita fa parte della poetica Fluxus. Ha mai riflettuto sulle ragioni che l’hanno fatta avvicinare a questo straordinario network di artisti intermediali?
Negli Anni ’70, il mio bagaglio culturale mi ha portato a condividere e promuovere i concetti degli artisti Fluxus che, oltre che ad unire tutte le categorie abbattendo i confini tra le varie arti, esprimevano messaggi molto forti e rivoluzionari per l’epoca. Ad esempio: rispettare la natura se noi uomini vogliamo salvarci. Inoltre condividevo la loro posizione radicale nel non accettare la dinamica dei valori commerciali dell’arte producendo quasi ed esclusivamente documenti, opere multiple, e performances, dalle quali rimanevano solamente tracce scritte, grafiche o fotografiche.
Non c’è stato un primo o un secondo artista che ho iniziato a collezionare, ma piuttosto un insieme d’incontri che hanno costellato la mia vita, arricchendola. A Schio ricordo Alberto Diramati, uno dei primi maestri. A Torino Ben Vautier e Arrigo Lora Totino. A Milano Walter Marchetti, John Cage, Marcel Duchamp e Juan Hidalgo. A Verona il collezionista-editore Francesco Conz, Gustav Metzger, Daniel Spoerri, Ben Patterson, Emmett Williams, Hermann Nitsch e il curatore Harold Szeemann, creatore di un’efficace aura attorno a tanti artisti multimediali. Poi ho continuato ad estendere le mie conoscenze a Parigi e New York. E questi artisti talvolta, nei nostri incontri, mi regalavano una loro opera o un loro documento… Ed è così che ho cominciato ad accumulare senza nessuna velleità collezionistica. Almeno all’inizio.

Bonotto, Campioneria. Sullo sfondo: Yoko Ono, Word Painting, 2007. Ph. Livia Savorelli

Forse non tutti sanno che le famose giacche e i vestiti destrutturati del prêt-à-porter italiano nascono anche grazie alle sperimentazioni sui tessuti all’interno dell’azienda Bonotto, già fortemente contaminata dal dialogo con gli artisti che amava incontrare. Quali sono stati altri momenti in cui questo rapporto si è manifestato dando vita a progetti iconici?
Mescolare le fibre artificiali, sintetiche alle fibre naturali, ci ha permesso di ottenere dei tessuti sempre più fluidi. Considerando la mia formazione e la mentalità di continua ricerca che si era plasmata negli incontri della mia giovinezza, è stato naturale imprimere questa direzione anche alle nostre produzioni. Ma questo è un discorso possibile solo a posteriori. All’epoca era un percorso inconsapevole. Questa attitudine è stata poi sviluppata dai miei figli che hanno reso l’azienda Bonotto un brand a livello internazionale.
Tra i diversi progetti realizzati penso alle performances avvenute tra le macchine tessili… Ricordo con più simpatia quella del musicista Fluxus Philip Corner. Il musicista americano ha eseguito il suo Posso passeggiare ascoltando il mondo come un concerto, coinvolgendo con grande divertimento tutte le maestranze presenti in fabbrica. Negli ultimi anni abbiamo iniziato a realizzare, con le nuove tecnologie digitali, dei manufatti che io considero gli arazzi del XXI secolo per la varietà dei filati e degli intrecci utilizzati ottenendo i più incredibili effetti materici.

Performance di Philip Corner in fabbrica

Negli Anni ’70, quando ha iniziato a prendere forma la sua collezione e ad intrecciare uno stretto rapporto di “convivenza” con gli artisti Fluxus, quello della residenza d’artista non era certo un fenomeno diffuso. Può raccontarci qualche aneddoto particolare per farci comprendere la quotidianità che ha vissuto con la maggior parte degli artisti/amici che fanno parte oggi della sua vasta collezione?
Più che parlare di un “progetto” di residenza di artisti, c’è stato un legame di amicizia con questi uomini. Prima di tutto, mi considero un collezionista di rapporti umani. Quando venivano a trovarmi, erano sempre i benvenuti! Talvolta lo spazio per gli ultimi arrivati era esaurito, ma trovavamo comunque il modo di starci tutti. Erano incontri di euforia, di simpatia e di grandi progetti. La mia abitazione e il capannone erano un tutt’uno, la mia giornata la trascorrevo con i miei familiari, con i clienti, i fornitori, gli operai ma anche con gli artisti. L’ammirazione era reciproca facendoci crescere tutti dal punto di vista culturale e di rispetto umano. Ognuno faceva il proprio lavoro, avvolto da un grande entusiasmo. È questo lo spirito con il quale molti progetti furono realizzati. Un aneddoto particolare, tra i tanti, che ricordo con piacere, ha come protagonista Ben Patterson. Un giorno mi disse “Luigi, sono preoccupato per la tua incolumità. Vivi in campagna con poche protezioni, non si sa mai che ti entri qualche malintenzionato in casa. Mi sento in dovere di pensare alla tua sicurezza!”. Non persi tempo e gli chiesi immediatamente che cosa intendeva dire; mi illustrò così un progetto che prevedeva la messa in sicurezza della mia camera da letto. Il progetto si sviluppò nella piccola stanza che faceva da anticamera. Qui appese al soffitto tutta una serie di coltelli… Su ognuno dei quali scrisse un pezzo della sua autobiografia! Poi si dedicò alla porta d’accesso alla camera per la quale aveva studiato un sistema elettrico ben preciso. Per aprire la porta e poter accedere bisognava essere un esperto d’arte… Era necessario rispondere a delle domande e collegare, tramite i circuiti elettrici, ogni domanda alla giusta risposta. La presenza dei coltelli sul soffitto generava una certa inquietudine… Poi, per mettere in sicurezza anche la mia anima oltre che il corpo, su una parete appese quello che lui chiamava “auto-confessionale”, un macchinario con luce abbagliante intermittente, uno specchio, un telefono e vari altri oggetti cosicché ogni giorno mi potessi confessare ad alta voce. A completamento della stanza, appese anche dei brani della storia di Fluxus e molti altri oggetti. Dopo qualche mese di lavoro, ancora non del tutto contento, lo trovai nell’abitazione con dei muratori. Incredulo gli chiesi “Ben, e ora cosa stai progettando?”. Mi disse che stava facendo levare il pavimento per fare un fossato d’acqua. Al che sono intervenuto con determinazione, “No scusami, questa cosa non si può fare!”.

Bonotto, Campioneria. Sullo sfondo: Nanni Balestrini, Artist’s proofs, 2015. Ph. Livia Savorelli

Ricorda il momento in cui ha acquisito consapevolezza di aver creato – da un rapporto personale e casuale con l’arte – una delle più grandi e coerenti collezioni del Novecento?
Ho avuto consapevolezza di quanto avevo raccolto, nel momento in cui ho realizzato che la mia casa e la fabbrica erano invasi da documenti e opere! Mi sono dunque posto alcune domande: “Che fine faranno tutti questi oggetti una volta che non ci sarò più? Tutti questi documenti che testimoniano un preciso periodo della storia dell’arte, al di là delle esperienze da me vissute in prima persona, se non verranno conservati e catalogati, finiranno nel dimenticatoio della storia”. Allora mi sono sentito in dovere di iniziare a mettere in ordine tutto quello che avevo raccolto e che ho avuto la fortuna di vivere. Catalogando, mi sono poi reso conto che c’erano dei buchi, e ho iniziato a cercare di colmarli…. e così mi sono preso la malattia del collezionista Fluxus e di Poesia Sperimentale!

Bonotto, Magazzino Filati. Sullo sfondo: William Xerra, Omaggio a Jacopo da Ponte, 2018. Ph. Livia Savorelli

Nel 2013, in occasione dell’apertura della Fondazione Bonotto al suo fianco c’era Yoko Ono, una dei molti artisti internazionali con cui ha condiviso il suo percorso. Da quel momento tanti sono stati i progetti che hanno portato il suo nome e la sua collezione in Italia e all’estero. Penso al più recente, La Voix Libérée, una mostra al Palais de Tokyo di Parigi incentrata sulla poesia sonora, a cura di Eric Mangion e Patrizio Peterlini, direttore della Fondazione Bonotto. Ce ne vuole parlare?
Nel 2013 è sorta l’esigenza di istituzionalizzare la Collezione. È nata così la Fondazione Bonotto. Per l’occasione Yoko Ono ha accettato di esserne la madrina. Con lei avevamo già organizzato diversi progetti e così, grazie alla disponibilità dell’Università IUAV di Venezia che ci ha messo a disposizione la sede di Ca’ Badoer, abbiamo organizzato una sua lecture. Poi, grazie alla dinamicità del direttore della Fondazione Bonotto Patrizio Peterlini, abbiamo sviluppato molti altri progetti nazionali ed internazionali, come ad esempio l’istituzione tre anni fa del “Prix Littéraire Berenard Heidsieck – Centre Pompidou”, la mostra Sense Sound / Sound Sense dedicata alla musica, le partiture e i dischi Fluxus, organizzata nel 2016 all’Auditorium di Roma e che, dal prossimo settembre, sarà alla Whitechappel di Londra, fino alla mostra più recente La Voix Libérée. Poésie sonore al Palais de Tokyo. Un progetto ambizioso, quest’ultimo. Prima di tutto perché esporre il suono è sicuramente una sfida. Inoltre, la poesia sonora è una ricerca che potremmo definire “storica”, sebbene non sia molto conosciuta, e portarla al Palais de Tokyo, uno dei maggiori centri per il contemporaneo in Europa, è stata una scommessa.
Il punto cruciale era come renderla contemporanea e suscitare l’interesse del pubblico, tendenzialmente giovane che frequenta il museo parigino. Le mosse vincenti sono state essenzialmente tre. La prima: lo straordinario lavoro grafico e di progettazione degli ambienti sviluppato da Anette Lenz che ha dato un segno estremamente contemporaneo a tutta la mostra. La seconda: lo sviluppo del catalogo APP reso disponibile gratuitamente sui principali app-store. Anche in questo caso un mezzo estremamente contemporaneo e innovativo, molto vicino alle nuove generazioni, che ha permesso una grande diffusione dei temi della mostra. La terza, che ne ha decretato il successo internazionale: la creazione di una rete di oltre 50 tra radio e siti web, che ha coinvolto numerosi paesi al mondo, tra cui Cile, Brasile, Svizzera, Francia, Italia, Austria, Israele, Zambia, USA, che hanno dedicato delle trasmissioni di approfondimento alla mostra.

La Voix Libérée. Poésie sonore, veduta della mostra, Palais de Tokyo. Ph. Anette Lenz

*Intervista tratta da Espoarte #106.


Luigi Bonotto nasce nel 1941 in una famiglia in cui, da sempre, si è coniugato arte, politica ed affari. Il padre, e precedentemente il nonno, erano stati imprenditori a Marostica dove avevano fondato all’inizio del XX secolo una fabbrica di cappelli e articoli di paglia. Il padre Giovanni portava spesso il giovanissimo Luigi a visitare i principali musei veneti, facendogli scoprire Antonio Canova, Jacopo Dal Ponte e Tiziano e tutti quegli artisti che, nei secoli, hanno operato in questo straordinario territorio. Successivamente vennero i principali musei italiani: Uffizi, Musei Vaticani, ecc. Nel 1972 inizia la sua attività come imprenditore tessile e di consulente stilistico per alcune delle più importanti firme dell’arredamento e d’abbigliamento.
Negli stessi anni inizia a studiare l’opera di Duchamp, che avrà l’opportunità di incontrare presso un circolo scacchistico di Milano. Inizia così a capire il concetto di oggetto. Si avvicina anche all’insegnamento di John Cage e, in seguito all’incontro con Francesco Conz, Rosanna Chiessi, Henry Ruhž ed Emily Harvey, entra in contatto con molti artisti Fluxus. Grazie alla frequentazione con gli artisti nasce anche la Collezione Luigi Bonotto, tra le più importanti al mondo per Fluxus, Poesia Concreta, Visiva, Sonora e Digitale. Nel 2013, nasce la Fondazione Bonotto con lo scopo di diffondere la collezione e lo spirito Bonotto che coniuga arte e impresa.

Info: www.fondazionebonotto.org

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