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REGGIO EMILIA | Collezione Maramotti | 30 aprile – 30 luglio 2023

di MATTEO GALBIATI

Il peso del dolore, dell’orrore, dell’incertezza; il senso della ferita, della distruzione, dell’oblio e poi il silenzio della disperazione, il grido del tormento; ma anche il tentativo di recuperare una quotidianità, di cercare altrove la speranza di un nuovo inizio, la dimensione della casa come rifugio per quanto in condizioni di smarrimento. Sono numerose le sollecitazioni che la fotografia del particolarissimo reportage di Ivor Prickett (1983) ci suggerisce e che arrivano a toccare, prima che lo sguardo, direttamente il nostro animo, il nostro pathos umano. Il suo è davvero un viaggio minuzioso, puntuale e potente, nella nostra storia recente, vissuta e testimoniata attraverso quelle guerre e quei luoghi di esodo le cui vicende ci hanno accompagnato negli ultimi decenni e di cui Prickett restituisce sempre l’umanità schietta cogliendola nelle persone e negli ambienti immortalati nei suoi scatti.

Ivor Prickett, No Home from War: Tales of Survival and Loss, veduta di mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. © Masiar Pasquali

La Collezione Maramotti di Reggio Emilia ha scelto di presentarsi al pubblico del Festival di Fotografia Europea 2023 con No Home from War: Tales of Survival and Loss, la prima mostra in Italia e la più completa e ricca antologica dedicata al fotografo irlandese sino ad oggi realizzata. Questo progetto espositivo è un resoconto di ampio respiro che, grazie alla dimensione più intimamente sollecita delle sue immagini, costringe il visitatore a confrontarsi soprattutto con la propria coscienza e con quella sensibilità verso l’altro troppo spesso trascurata, se non completamente ignorata.
Nelle sale, seguendo un percorso cronologico, si scandisce la sequenza di un racconto per capitoli che, tra Europa e Medio Oriente, ha visto Ivor Prickett essere testimone oculare della storia nel suo farsi/riflettersi nella quotidianità di un’umanità resa piccola, nelle comunità che subiscono gli effetti di decisioni, orientamenti e visioni stabilite dal potere. Sono uomini e donne, bambine e bambini, che danno corpo a comunità offese dalle  ineluttabili conseguenze di errori tragicamente ripetuti che, nella diversità specifica dei singoli “eventi storici” e sempre rispettoso di quanto osserva, lui fotografa restando dignitosamente e ugualmente vicino a tutti questi individui di cui sente, vede e tocca l’esistenza travagliata.

Ivor Prickett, La madre di Tengo Inalishvili prepara una pasta piccante di peperoncini secchi nella casa della famiglia Inlaishvili nel villaggio di Rechxi, 2010, Rechxi, Abkhazia, Fotografia dalla serie “Returning Home – Abkhazia”, Courtesy and © Ivor Prickett

Oltre 50 fotografie, provenienti da zone di conflitti recenti a coprire un arco temporale che va dal 2006 al 2022, ripercorrono la storia di questi contesti che, veicolata dai media spesso solo con l’enfasi eclatante della notizia data al momento, ci è diventata assai famigliare, ma che abbiamo saputo (colpevolmente) tenere più distante da noi. Questi fatti, allora, sono stati per noi un triste sentito dire verso il quale si è maturata una certa compassata abitudine, arrivata a renderli, nel percepito comune, lontani nel tempo e nello spazio. Eppure non lo sono mai troppo, basta un diverso racconto a spezzare questa distanza mentale auto-prodotta: un racconto che, nei termini condotti da Prickett, diventa assai efficace. Le immagini delle sue fotografie riconsegnano quei fatti alla nostra prossimità, soprattutto quando diventa evidente l’inutilità della sofferenza e del tormento che li accomuna. L’abitudine, infatti, non è mai un antidoto per accettare lo scempio e, così, un lavoro umanamente toccante come il suo ci mette in contatto con vicende che, volendolo o meno, sono parte del nostro presente.

Ivor Prickett, No Home from War: Tales of Survival and Loss, veduta di mostra, Collezione Maramotti, Reggio Emilia Ph. © Masiar Pasquali

Gli scatti esposti ci aiutano a comprendere, a non avere paura della paura, a non banalizzare lo sconcerto, a non smaltire il dolore, perché non si può (né si deve) fingere di guardare senza avere conseguenze. In questo senso il lavoro di Prickett sfugge dalla convenienza dell’eclatante di certa informazione e, con la solennità di un ritrovato rispetto umano, porta l’immagine a essere opera, a diventare monumento visivo del momento immortalato. La memoria che ci consegna è attiva, agente, reattiva, non si ferma né si consuma secondo una scadenza a breve termine. Prickett nemmeno rinuncia all’evocazione estetica, mai sguaiato, di quello sguardo artistico di certa pittura antica che, in autori come Caravaggio o Rembrandt per citarne alcuni, aveva saputo elevare al bello e a cronaca di storia la sconveniente e scomoda rugosità del quotidiano. Prickett insegue la storia attraverso volti e azioni, luoghi e accadimenti, cercando la dignità potente della verità più schietta, ma mai banalmente immediata e svelta.

Ivor Prickett, Un uomo esce con impeto da un veicolo blindato presso la postazione di pronto soccorso di Mosul Est, stringendo il corpo del fratello minore ucciso qualche momento prima da un attacco di mortaio dell’ISIS, 2016, Mosul, Iraq, Fotografia dalla serie, “End of the Caliphate”, Courtesy and © Ivor Prickett

Così qualsiasi orrore non è più una velina passata dalle agenzie di stampa, perché torna a essere in noi spaventoso, fastidioso, doloroso e struggente. Prickett parte dalle conseguenze di un conflitto, dal tentativo di quelle genti di recuperare una normalità brutalmente offesa in una nuova e diversa dimensione; parte dalle ferite lasciate aperte ed è attraverso queste lacerazioni fisiche e sociali, reali e morali, che noi siamo indotti a recuperare una partecipazione empatica. Sentiamo, pur da lontano, un puntuale disagio e il dovere di custodirlo. In noi palpita la fatica dello sguardo che osserva il vero. Prickett ci riporta a sentire anche noi quel vuoto, quell’incertezza, quella disperazione e quella voglia di riscatto alla speranza che alberga nelle comunità in cui è stato. E se lui non incontra solo persone quando ne immortala l’esistenza “difficile”, a noi fa ritrovare la nostra anima sensibile proprio dentro quel dolore diffuso. Ci consegna il ritrovarci nella comunità umana di cui facciamo parte quando capiamo che, come lui, siamo anche noi testimoni oculari di un orrore ripetuto.

Ivor Prickett, Mohammed Haj Ali, nel periodo che precede la festa musulmana di Eid, è impegnato a tagliare i capelli ad alcuni dei pochi residenti ritornati nel suo quartiere a Raqqa, 2018, Raqqa, Siria, Fotografia dalla serie “End of the Caliphate”, Courtesy and © Ivor Prickett

Avremmo dovuto e voluto intervistarlo, con più calma, per cogliere l’importanza della sua testimonianza diretta e la dimensione più profonda del suo lavoro e del suo racconto umano, ma è dovuto ripartire per ritornare in Ucraina. Di nuovo nel cuore del dove e del quando le cose accadono. Pronto a registrare quell’orrore che ancora si sta riproponendo. Pronto ad essere testimone oculare del triste ripetersi drammatico della storia.

Ivor Prickett. No Home from War: Tales of Survival and Loss
in occasione del Festival di Fotografia Europea 2023 Europe Matters. Visioni di un’identità inquieta
un libro con un testo di Arianna Di Genova

30 aprile – 30 luglio 2023

Collezione Maramotti
via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia

Orari: giovedì e venerdì 14.30-18.30; sabato e domenica 10.30-18.30
Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente

Info: +39 0522 382484
info@collezionemaramotti.org
www.collezionemaramotti.org

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