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MILANO | Studio Visit 

Intervista a DIEGO RANDAZZO di Matteo Galbiati

Credo che sia perfettamente rilevante il passaggio in cui Kevin McManus, rispetto al lavoro di Diego Randazzo (Milano, 1984), nel testo critico redatto per la sua ultima mostra personale, asserisce: “[…] Il perturbante agisce dunque a livello di contenuto simbolico, ma non è questa l’unica componente alla quale Randazzo si dedica; come sempre nella sua ricerca, una forte salienza dell’immagine e dei suoi significati si accompagna a un’indagine specifica e problematica del medium utilizzato. […]”.
Ho voluto far riferimento a questo passaggio perché ben evidenzia l’attitudine intellettualmente sagace e sapientemente dissacratoria con cui Randazzo “manipola” le immagini: l’artista mette al centro del suo sguardo il potere iconico dell’immagine (spesso enfaticamente nota), per poi obliterarne un’altra identità e concederle una nuova credibilità narrativa. Per far questo si facilita il compito proprio grazie alla sua capacità di ampliare il proprio repertorio formale che tiene in conto ogni tecnica, ogni tipologia di lavoro, ogni medium disponibile, così l’ausilio determinante della tecnica utilizzata è passaggio cruciale per capire e comprendere la profondità della sua esperienza estetica.

Lo studio di Milano

Randazzo sfugge la definizione di pittore, scultore, videomaker, etc…, per riassumere ogni pratica in una coerente facoltà di esercitare, nella scelta attuata, l’adeguata risolutezza dell’opera che riverbera poi all’osservatore la disponibilità comunicativa ed espressiva di un ampio repertorio di informazioni, emozioni, ricordi, evocazioni, interpretazioni.
Lo abbiamo incontrato operativo nel suo studio milanese e ci siamo intrattenuti con lui per questa ampia conversazione che permette di scoprirne l’animo umano e la volontà artistica:

Hai lo studio condiviso nel quartiere Isola, un luogo significativo e stimolante, che condividi con altri artisti. Come si concilia il tempo del lavoro e della realizzazione dell’opera con quello che vivi fuori da questo spazio? Penso al fatto che ogni tua opera vive di esperienze altre; ne pensi l’estetica oltre la necessità stessa del luogo. Vedo in questo spazio più il luogo del “fare artigianale” che non il rifugio ascetico del pensare intellettuale. Visto che le tue “fonti” derivano poi dal mondo e a quella sua realtà resti, in un certo senso, fedele…
Da qualche anno condivido lo spazio con Giuseppe Buffoli, bravissimo artista scultore e Davide Bianchi, raffinato designer; le nostre formazioni così diverse sono già motivo di scambio e di nuove influenze. In questo momento storico vivo lo studio nella dimensione ‘artigianale’ a cui tu accenni. È sicuramente un luogo d’azione più che di ideazione e contemplazione. Credo che i processi artistici scaturiscano da momenti e intuizioni spesso casuali, che non possono essere ingabbiati tra quattro mura. L’idea e il concepimento di un’opera per me sono come un’invasione e qualsiasi luogo può generare queste riflessioni. Nel mio caso specifico l’aspetto teorico/progettuale ha una preponderanza nella realizzazione globale di un lavoro. E mentre la formalizzazione deve procedere in maniera fluida, costante e chiudersi in breve tempo, l’ideazione può protrarsi nel tempo, anche a fasi alterne, e sovrapporsi ad altre idee.
Soltanto quando mi cimento nell’animazione questo meccanismo è ribaltato, l’animazione tradizionale che pratico (la tecnica del rotoscope) richiede una fase esecutiva molto molto lunga.

Diego Randazzo, Carta, Mutoscope II, legno, ecoline su carta, plastica, manovella a mano, 13x13x14 cm, 2022, Fondazione Leonesio, Puegnago del Garda (BS) Courtesy l’artista

Conoscendo da tempo il tuo lavoro vorrei subito mettere l’accento sull’importanza della “narrazione” e del “racconto” nella tua riflessione: come hai sviluppato e affrontato questi “temi” nella tua ricerca visiva?
Sicuramente la narrazione e il racconto sono da sempre alcuni degli espedienti fondamentali nella mia produzione, sono radicati nel mio essere. Ma con una sfumatura particolare.
Quando parlo di ‘racconto’ non intendo linearità narrativa, ma mi riferisco allo sviluppo narrativo di un lavoro e a questo si può associare l’elemento del tempo, altro concetto chiave. Per intenderci mi interessa tutto ciò che contiene intrinsecamente un movimento, non necessariamente lavori filmici / immagini in movimento, ma anche opere ‘statiche’ che prevedano un trasformazione interna, uno sviluppo temporale e narrativo. Un esempio concreto: nel trittico intitolato La biglia blu, premiato durante l’ultimo Arteam Cup, ci troviamo davanti a tre immagini apparentemente distanti che rappresentano tre momenti precisi: il lancio dell’Apollo 11, la terra fotografata dagli astronauti durante il viaggio di ritorno dalla Luna (blue marble) ed una foto da me realizzata che rappresenta un’adolescente in volo sulla tradizionale giostra del ‘calcinculo’ (seggiolini volanti, n.d.r.) Attraverso l’immaginazione possiamo unire questi tre momenti e, con un salto temporale, passare dal desiderio di scoperta degli astronauti al desiderio di libertà dei giovani; così le distanze spazio-temporali tra due mondi agli antipodi vengono colmate. Traguardi e vertigini diventano un tutt’uno. C’è un ulteriore aspetto. Possiamo intendere la narrazione come la capacità di raccontare e, nello specifico, nel racconto che l’opera fa di sé. Questo è un tema molto rilevante nel linguaggio contemporaneo ed in un panorama di fruizione pubblica considero determinante l’autonomia narrativa dell’opera.
Non a caso mi affascinano tutti gli aspetti didattici e progettuali, che a livello subliminale, fuoriescono, come piccole spie, dalla forma chiusa dell’opera. Io lo chiamo ‘scenario di produzione’ e spesso mi diverto ad inserirlo nei miei lavori.

Diego Randazzo, La biglia blu, cianotipie su Marmo bianco di Carrara frantumato (trittico), 100x40x4 cm, 2020, Arteam Cup 2021 Courtesy l’artista

Sei un artista polivalente in termini di tecniche e media che assecondano e rispettano sempre il contenuto di ogni singolo progetto. Disegno, fotografia, video, pittura, scultura, incisione, stampa, … fanno parte del tuo repertorio linguistico. Come riesci, nonostante tutto, a mantenere coerente e sicura l’impronta della tua poetica?
È vero, come hai appena descritto, mi esprimo attraverso i linguaggi più disparati, spesso mi definisco un artista di passaggio, ospite di linguaggi e discipline. Forse la mia unica coerenza sta proprio in questo, nel movimento fluido tra i linguaggi in cui mi lascio trasportare con pacata tranquillità.
In linea generale, però, non credo che la coerenza, in questo ‘mondo dell’arte’, sia una dote. Soprattutto quando questa coerenza si tinge nel facile compiacimento estetico. ‘‘Se una cosa piace, ripetila sempre uguale a se stessa’’… non voglio semplificare, ma questo atteggiamento dogmatico e consumista esiste ed è frutto di un retaggio antico (o meglio vintage), che non dovrebbe avere nulla a che vedere con la ricerca contemporanea. Perciò la mia produzione è così mutevole, perché considero la ripetitività un grande rischio per l’artista contemporaneo. Nel mio vissuto la noia può sopraggiungere molto facilmente, quindi bisogna attuare tutti quei meccanismi che diano una spinta ad una rigenerazione continua (a scapito della riconoscibilità, si intende).
Tutto il mio percorso in fondo è costellato di queste trasformazioni, dalle origini della mia formazione fino ai giorni nostri. E non è un caso che ‘i miei maestri’, quelli che mi hanno scosso e fatto riflettere, oltre ad avermi ispirato per lungo tempo, siano dei cineasti unici nel loro genere. Registi e nello stesso tempo notevolissimi ‘artisti visivi’, facitori di immagini. A titolo di esempio cito David Lynch, con tutta la sua carica di angoscia e perturbanza tanto nei film quanto nella pittura e nell’animazione (i suoi primi esperimenti all’epoca dell’Accademia sono appunto delle animazioni) e Peter Greenaway, uno dei primi intellettuali che ha concepito la multimedialità come dispositivo estetico, inserendola nel linguaggio cinematografico classico. Secondo me la contemporaneità riguarda proprio questo moto incessante di contenuti, che ha bisogno di essere ‘inquadrato’  e ‘capito’ da più punti di vista.

Diego Randazzo, #Kids, disegno opalino stampato in negativo su poliestere trasparente, luce led, 200×200 cm, 2019 Courtesy Casa della Memoria, Milano

Non riesco poi a limitare quanto fai al solo ambito della ricerca estetica ed artistica contemporanea, nella semplicità (apparente) delle tue proposte c’è il peso fondante di una cultura ampia e solida. Non mancano riferimenti antropologici, sociologici, economici, etc. Come attui questa coscienza riduttiva che condensa il “molto” nella qualità estrema del “poco”?
In effetti, oltre ai linguaggi utilizzati, non ho argomenti o temi che mi identificano univocamente. Ho trattato temi molto differenti con lo stesso piglio e rigore. Dai temi scientifici come l’Allunaggio, a drammi storici come la Strage dei Piccoli Martiri di Gorla passando per i personaggi dei fumetti come Pluto, argomento quest’ultimo che mi sta coinvolgendo ampiamente su più fronti.
Tutto apparentemente molto distante, ma in profondità ‘simile’, perché si parla sempre di immagini che diventano icone e viceversa. Ma tutto questo, ci tengo a sottolinearlo, non è affrontato con lo sguardo analitico e scientifico del ricercatore, bensì in termini dichiaratamente simbolici e poetici.
Per quanto riguarda la tua domanda sul condensare il ‘molto’ nella qualità del ‘molto poco’, ti ringrazio. Coglie un punto di vista interessante che vorrei approfondire. Credo che il mio fare artistico possa essere sintetizzato nella ‘sineddoche’. Questa figura retorica mi affascina sempre, penso, ad esempio, alle connessioni tra grande e piccolo che ci vedono coinvolti simbolicamente ogni giorno, ma spesso non ce ne accorgiamo.
La sineddoche in italiano corrente si può definire come ‘comprendere più cose assieme’ e, detta così, sembra già una sintesi dei miei intenti poetici. Ma è proprio nella poesia che ha origine e prende forma questa ‘figura’. Consiste essenzialmente nel sostituire una parola con un’altra con cui ha legami di vicinanza, quindi il nome per la parte per quello del tutto, il tutto per la parte, il nome del genere per quello della specie, la specie per il genere etc, ect.
Se prendiamo queste associazioni letterarie e le trasliamo, in termini simbolici, sul piano della realtà, connettendo luoghi e spazi differenti, otteniamo delle immagini vibranti e significative.
Penso a diversi lavori che ho realizzato, uno fra tutti l’opera Quel che resta finalista al Premio Cramum del 2018. Si trattava di un progetto nato da una riflessione condivisa con i miei genitori intorno al tema del bando (Avevo vent’anni. 1968 – 2018). Un lavoro nato dal confronto con chi ha vissuto il ’68 per portare una testimonianza storica all’interno del progetto. Attraverso la cianotipia ho trasferito su dei blocchi di marmo due immagini apparentemente distanti: da una parte l’orma del primo astronauta che ha varcato il suolo lunare nel 1969 (storica foto di repertorio) e dall’altra il cammino dei miei genitori da giovani immortalati nella loro quotidianità (una foto raccolta da un album di foto di famiglia, datata anch’essa 1969). Le due vicende si fondono (in una modalità che riassume ‘il tutto per la parte’) seguendo un principio molto semplice: il cammino universale può spesso coincidere con quello dei singoli individui.

Diego Randazzo, Quel che resta, cianotipie su Marmo bianco di Carrara frantumato, 80x80x1.5 cm, 2018 (dettaglio), Premio Cramum 2018 Courtesy l’artista

Se riassumo tutto in tre parole potrei rincorrere a tempo, luce, movimento. Come ti riconosci in ciascuna?
Sono sicuramente parole chiave. Tempo e movimento vanno a braccetto. Ne abbiamo in parte già parlato. Sono entrambi concetti riconducibili alla ‘temporalità delle immagini’ che per propria natura e statuto tendono ad essere poco veritiere e, perciò, sfuggenti, oggi più che mai. Del resto lo stesso Cinema, linguaggio vecchio più di un secolo ma ancora tra i più nuovi, non fa altro che ripetere questa dialettica tra finzione e fuggevolezza ogni giorno.
La luce è quel mezzo che permette tutto questo; non mi soffermo su tutte le componenti simboliche che possiede questo elemento. Mi fermo alla tecnica: tutte le mie avventure sperimentali con la proto-fotografia, il pre-cinema, l’animazione e l’immagine in movimento derivano dall’utilizzo della luce, come supporto e come agente fisico ‘impressionante’.

Il senso del ricordo come incontra la sensibilità di chi guarda le tue opere e come innesca esperienze nuove innestandosi su vissuti individuali spesso assai diversi tra loro?
Il concetto di ricordo per me è sovrapponibile a quello di memoria, perché riflettendo sull’ampio tema della memoria collettiva, trovo sempre delle ripercussioni e riverberi sulle nostre singole vite. Nella mia produzione tutto ciò viene condensato proprio attraverso l’associazione di memoria universale e ricordo individuale.
Ad esempio, nel mio ultimo progetto, sviluppato a partire dal personaggio di Pluto della Disney, è molto evidente questa associazione: sono, infatti, partito dalla mia infanzia, ho voluto fare un lavoro di sintesi cercando nel passato i primi segni del mio fare artistico. I primi ricordi, infatti, risalgono alla tenera età quando copiavo compulsivamente le forme dei personaggi Disney.
Pensavo inizialmente ad una mia unicità, ma facendo un’indagine tra amici, cercando, quindi, un riscontro nella collettività, mi sono reso conto che questo mio ricordo unisce trasversalmente diversi ragazzi della mia generazione ed anche più anziani.
Pluto rimane un’irriducibile icona universale, ma per ognuno di noi ha formato uno sguardo differente. In questa ‘intercapedine’ si inserisce il mio lavoro, che si sostanzia nel creare un ponte tra visione collettiva e vissuto personale e tra passato e presente.
Ricorro alle parole di Bianca Trevisan che spiega bene questo concetto nel testo della mostra personale Immagini Simili presso la Galleria ADD-art di Spoleto: “Gettare ponti, si diceva: tra passato e presente, tra archivio privato e dominio pubblico, ma anche tra le stanze interiori – domestiche, emotive – e il mondo fuori, in un momento in cui l’accesso ad esso è stato proibito. La cassetta degli attrezzi è fornita dal linguaggio della finzione filmica, nel senso etimologico di fingĕre, ovvero plasmare: se la narrazione è necessariamente frantumata, resta sempre la capacità di proiezione verso l’esterno, fornendo una rappresentazione che è un garbuglio dove «ogni minimo oggetto è visto come il centro d’una rete di relazioni […] moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite». Superare la vertigine e farne uso è una scelta di coraggiosa, immaginativa libertà’’.

Diego Randazzo, Pluto on me, film d’animazione, rotoscope su carta, 2’, colore, 16:9 HD, Subplace, Passante Ferroviario Villapizzone, Milano Courtesy l’artista

Proprio in riferimento al passato: tra poco meno di una settimana ricorre l’anniversario della strage di Gorla del 20 ottobre 1944 alla quale hai dedicato un’opera permanente (mi piace moltissimo la relazione che hai creato con l’opera di Dusi) presso la Casa della Memoria che non è pensata per essere monumento dell’accaduto, ma un memento a quanto continua accadere. Ancora una volta riesci a generare un meccanismo visivo che tesse relazioni tra attimi diversi, che rinsalda legami, che avvicina esistenze e vicissitudini lontane. Ci raconti questo tuo intervento e come si configura all’interno della tua produzione?
Si parlava un attimo fa di connessioni tra immagini universali ed individuali e sulla vicinanza di momenti distanti nel tempo. Tutto questo è evidente nell’opera Kids, installazione luminosa esposta in modalità permanente a Casa della Memoria di Milano, dal 2019.
Quest’opera fa parte di un nucleo di opere esposte nell’omonima mostra Kids. Ancora piccoli martiri a cura di Sabino Maria Frassà. Gorla è il quartiere milanese nel quale il 20 ottobre 1944 morirono 184 alunni della scuola elementare Francesco Crispi, a causa di una bomba lanciata dalla 15ª Air Force americana che si infilò nella tromba delle scale della scuola. Fu una strage. Son partito da questo tragico evento, che scosse il quartiere tutto e l’intera comunità milanese, per allargare lo sguardo sul tema dei bambini vittime di tutte le guerre: sicuramente un esercizio di memoria, ma vuole essere anche un monito per la società odierna.
L’opera è un disegno che, stampato su PVC opalino e retroilluminato, rappresenta un momento preciso tratto dalle testimonianze della strage dei Piccoli Martiri di Gorla. Parla Maria Luisa Rumi: “Sono già fuori dalla scuola, in piazzetta, all’incrocio tra via Asiago, via Aristotele e Ponte vecchio. È una splendida giornata di sole, venerdì 20 ottobre 1944. Là vedo mio fratello, che frequentava la classe quinta, mentre io faccio la seconda, ma ho solo 6 anni, avendo saltato la prima. Sono pochi giorni che ho iniziato la frequenza in quella scuola: non conosco né maestra né compagni. Massimo è in un crocchio di compagni, che guardano verso l’alto, in un punto del cielo in cui stanno passando alcuni aerei che sganciano qualcosa e i ragazzi li osservano vociando e scambiandosi commenti. Io chiamo mio fratello, ma lui non mi ascolta, poi corre verso casa davanti a me’’.

Diego Randazzo, #Kids, disegno opalino stampato in negativo su poliestere trasparente, luce led, 200×200 cm, 2019 Courtesy Casa della Memoria, Milano

È l’immagine che mi ha più colpito, tra le diverse testimonianze raccolte: i bambini si fermavano a guardare il cielo. La loro ingenua meraviglia, contro la mostruosità della guerra. Sempre riallacciandomi al racconto dei superstiti, in un primo momento le bombe, così distanti, vennero scambiate per dei bigliettini e sicuramente il caos, l’inconsapevolezza, la curiosità presero il sopravvento in quegli istanti di orrore. Volevo che questa immagine vibrasse, e che fosse visibile da tutti i passanti anche nelle ore serali. Ho scelto, perciò, di fare un lavoro visivo sulle finestre dell’edificio. La finestra, dispositivo implicitamente pregno di significati simbolici ed estetici, è portatrice di nuove istanze: un varco di luce per entrare dentro la storia.
Sapendo che un’altra finestra sulla facciata di Casa della Memoria era già occupata dal neon Don’t Kill di Fabrizio Dusi, ho pensato che fosse la situazione ideale per effettuare una sovrapposizione. I bambini che nel 1944 indicavano le bombe nel cielo, oggi indicano la scritta Don’t Kill. Attraverso questa ri-semantizzazione, il comandamento ‘Non uccidere’ illuminato dal neon assume ulteriori significati, ancora più pregnanti dell’isolato comandamento. È un grido universale, amplificato e non più generico; sono delle piccole vittime innocenti a dircelo. I bambini, anime pure e senza secondi fini, ci indicano cosa è sbagliato. Quest’immagine, questo segnale luminoso, occupa una finestra di Casa della Memoria a Milano, rammentandoci gli orrori del presente. È un grido silenzioso che si accende nel buio e chiede attenzione. Ogni sera alle 18.00 la vetrofania si illumina ed è ben visibile anche a distanze elevate.
Mi piace immaginare questa stampa luminosa (come anche il neon di Dusi e il Monumento all’attenzione di Gianni Moretti a Sant’Anna di Stazzema) come un Monumento alla Memoria. Al pari di una statua o una lapide, esprime con forza un messaggio universale che supera i confini temporali. Quindi, spostandoci dai contenuti sulla memoria a quelli delle forme, avrebbe senso fare una riflessione più ampia ed accurata sulla monumentalità oggi. Non è questo lo spazio per farlo, ma lascio degli spunti di riflessione. Come si aggiornano tecniche e linguaggi, bisognerebbe aggiornare anche questo settore. Non solo monumentalità da una parte e street art dall’altra. La definizione di ‘monumento’ andrebbe rivista ed ampliata, introducendo nuovi criteri di selezione e valorizzazione, che diano maggiore spazio alle installazioni, e siano più aderenti ai linguaggi della contemporaneità.

Diego Randazzo, FLAT / Perché un algoritmo elimina l’uomo da una stanza piena di solitudine
36 istantanee Fuji instax square, 80x80x4 cm, 2021 (dettaglio) Courtesy Galleria ADD-art, Spoleto

Recentemente sei stato protagonista di diversi progetti espositivi ci racconti le tue ultime mostre?
Sono in corso due mostre collegate da un unico progetto ed una collettiva.
Il macro progetto Pluto on me prevede una mostra personale alla Fondazione Leonesio all’interno della rassegna Scintille d’arte VI edizione, a cura di Kevin McManus e Mariacristina Maccarinelli, e un intervento video allo spazio indipendente Subplace lungo il passante ferroviario di Villapizzone a Milano.
Pluto on me è un progetto complesso e al contempo semplice, perché ruota tutto attorno ad un cortometraggio di Pluto del 1941, materia filmica di intrattenimento e di facile lettura. Questo materiale, però, è stato completamente stravolto negli intenti narrativi e nella resa estetica. Il tema ossessivo di Pluto sembra riportarci all’infanzia, alle memorie riposte nei cassetti del vintage ed anche alle ossessioni dei bambini, che fagocitano contenuti allo sfinimento, memorizzando con accuratezza ogni dettaglio e sfumatura. In effetti il mondo dell’infanzia è uno dei referenti principali in questo mio viaggio, ma l’intento ultimo non è quello di affrontare questa tematica in maniera generale. Il motivo è preciso, personale e fa riferimento alla ‘mia’ di infanzia. I primi passi, in tenera età, avvennero attraverso la copia. Non la copia dal vero, ma copiando qualcosa di preesistente ed in quel caso si trattava proprio dei personaggi di Disney.
Iniziavo copiando le figure dai fumetti ed in seguito li disegnavo a memoria. Credo di aver perso molto tempo a fare queste cose, forse in maniera ossessiva o forse in maniera del tutto naturale per un bambino, ma la volontà di mettere mano ad un materiale già disponibile e con una sua ‘storia’ non mi ha mai abbandonato.
Nel realizzare questo progetto sono partito proprio da lì. Ho cominciato a cercare e ho trovato su internet diversi cortometraggi Disney, concentrandomi su quelli dedicati al personaggio di Pluto. Pluto è una maschera autentica. Senza sovrastrutture umanizzanti si presenta per quello che è: un meraviglioso cane da compagnia, ingenuo,  simpatico e caparbio allo stesso tempo.

Diego Randazzo, La caccia, installazione di disegni ad ecoline su carta (fotogrammi del film Pluto on me), dimensioni ambientali, 2022, Fondazione Leonesio, Puegnago del Garda (BS) Courtesy l’artista

Ho passato in rassegna un po’ di cortometraggi, ma la ricerca non è durata molto, l’attenzione si è subito soffermata su A Gentleman’s Gentleman. In questo cortometraggio è presente un aspetto che mi ha sempre affascinato e, che in maniera più o meno velata, è presente nei miei lavori. Si tratta dell’annidamento di un’immagine dentro l’altra, cioè quando un’immagine incornicia un’altra immagine all’interno dello stessa ambientazione. Si crea una moltiplicazione ed un rispecchiamento di soggetti, un gioco di scatole cinesi, un abisso. Così ho pensato di sfruttare questo tema, operando una trasformazione formale. Sovrapporre la mia identità a quella del personaggio Disney ed infine creare una sorta di cortocircuito visivo/narrativo: il mio Pluto ripercorre essenzialmente le azioni narrate nel film originale fino a quando, nell’epilogo, non si scopre ‘diverso’, trasfigurato nel volto.  E questo gli provoca un tale smarrimento da piangerne.
Una deviazione di percorso che rivede il contesto narrativo di partenza trasferendolo in una dimensione leggera e poetica, che mi appartiene.
Finché l’idea e l’immagine del ‘mostro’ rimangono nella sfera della finzione ne siamo, in qualche modo, attratti ed affascinati. Ma non appena la diversità ‘si fa corpo’ e si mostra plasticamente nella quotidianità, entra in gioco la paura, si fugge. Ho attraversato l’animalità edulcorata e l’ingenua comicità di Pluto, avvicinandomi sempre di più, fino a creare una sovrapposizione tra finzione e realtà; la mia identità con il personaggio di finzione. La dialettica bellezza-mostruosità diviene protagonista, l’ambiguità si palesa ma non nuoce. Qui siamo nel mondo del disegno, nel mondo della rappresentazione. Identità, rimediazione, memoria e finzione, tutti temi cari restituiti attraverso il linguaggio che prediligo, quello dell’immagine in movimento.
Dispositivi ottici e cinetici, installazioni fatte di carta (in mostra sono esposti i disegni che compongono il cortometraggio) e di luce sono immersi nello spazio della Fondazione.
Una moltitudine di immagini che, invece, di condurre verso una direzione univoca, verso un finale certo, si danno alla macchia creando tante direzioni possibili.

Cosa stai preparando? A quali nuovi orizzonti sta guardando il tuo sguardo?
A breve uscirà una pubblicazione del progetto Pluto on Me, edita dalla mia galleria di riferimento ADD-art di Spoleto. Infine sto lavorando ad una nuova opera sul tema dell’infodemia, ma è ancora un progetto in divenire.

Mostre in corso:

Pluto on me
mostra personale di Diego Randazzo all’interno della rassegna Scintille d’arte VI edizione
a cura di Kevin McManus e Mariacristina Maccarinelli
catalogo edizioni ADD-art 

Fino al 30 ottobre 2022

Fondazione Vittorio Leonesio
Puegnago del Garda (BS)

Orari: sabato e domenica 15.00-19.00
Ingresso gratuito

Drawing as concept #2
testi di Maila Buglioni e Aldo Iori
catalogo freemocco edizioni

Artisti: Paolo Assenza, Peter Bartlett, Franca Bernardi, Arianna Bonamore, Anja Capocci, Lea Contestabile, Elfrida Gubbini, Clara Luiselli, Serenella Lupparelli, Giulia Manfredi, Saverio Mercati, Laura Palmieri, Diego Randazzo, Nicola Rotiroti, Dafne Tafuri, ScAle architects

Fino al 30 ottobre 2022

Centro per l’Arte Contemporanea Trebisonda
via Bramante 26, Perugia

Info: www.diegorandazzo.com

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