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ROMA | FONDAZIONE FILIBERTO E BIANCA MENNA | 20 GENNAIO – 10 MARZO 2023

di MARIA VITTORIA PINOTTI 

Parrebbe del tutto assurdo accennare al ritmo uditivo in relazione ad un’opera allestita su un muro e priva di animazione, eppure in un trattato di estetica recentemente ristampato [1], secondo il critico Gillo Dorfles, alla base di qualsiasi creazione artistica v’è il ritmo. Tale singolare pensiero diventa ancor più profondo e di vitale importanza quando lo stesso Dorfles afferma come «senza il ritmo che lega i nostri pensieri, le nostre immagini e infine le nostre facoltà percettive e rappresentative sarebbe impossibile concepire la vita dell’arte e l’intera vita dell’uomo». [2] Sulle tracce di quanto sopra si pone anche un’acuta riflessione del poeta T. S. Eliot, il quale, da par suo, asserisce «so che un poema può tendere a realizzarsi dapprima come un ritmo prima di raggiungere l’espressione delle parole, e che questo ritmo può portare alla nascita dell’idea e dell’immagine». [3] È tanto nitidamente riscontrabile nelle opere di Dan Halter (Zimbabwe, 1977), cui la Fondazione Filiberto e Bianca Menna sta dedicando nella Capitale una mostra, in programmazione dal 20 gennaio al 10 marzo 2023, a cura di Antonello Tolve. Dalla retrospettiva emerge, tra l’altro, la particolare pratica dell’artista che affronta argomenti relativi alla comunicabilità dell’arte, unendo questioni sociali ed economiche d’impatto globale: tematiche queste ultime che presentano il soffio vitale nel perno ritmico dell’insolita pratica ad intreccio di Halter, originale intuizione giocata sul binomio del celare e dello svelare. Il titolo della personale riprende una citazione tratta da un verso del citato poeta T. S. Eliot, Look to Windward (guardi sopravvento), sì da intendere una mostra che muove da un processo di elaborazione tecnica, in cui è distinguibile la regolarità manuale di Halter che si traduce visivamente per il suo carattere gestaltico.

Dan Halter, Look to Windward, 2023, installation view, Fondazione Filiberto e Bianca Menna, Roma

Così, la Fondazione Filiberto e Bianca seguita nell’apprezzato lavoro – in specie nella città di Roma – di ricerca e di proposizione di progetti espositivi cifrati da un allestimento essenziale e mai didascalico. Ed anche la mostra di Halter si inserisce in tale contesto culturale per quel ritmo percepibile dalla trama che compone le opere: la sala, infatti, è allestita secondo una decisa armonia, dimodoché i pezzi che vestono le pareti conferiscono una forte personalizzazione degli ambienti, seppur, come già cennato, venga rispettato il principio della leggerezza e della non uniforme invasività. Ciò che colpisce, in particolare, è la posizione delle sculture anche nella pavimentazione, sì da generare un asse visivo attorno al quale ruotano le opere murarie. Tale peculiare scelta sottende il pensiero creativo del curatore Tolve, laddove chiarisce che la superficie della Fondazione è “pensata metaforicamente (ironicamente) come una grande distesa di acqua”. Da qui, volendo lasciarsi accompagnare dai bagliori della scintilla d’origine da cui deriva il titolo della mostra, si ritorna al profondo significato delle parole di T. S. Eliot, che trovano sintesi nella vis creativa dell’acqua e del suono, tema di riferimento anche della mostra in questione. Tutto ciò evidenzia l’elemento naturale degli spazi espositivi, così da indurci, con certa sagacità associativa, a ritrovarlo nei versi del poeta che immagina come «se vi fosse acqua […] un suono d’acqua. Ma suono d’acqua sopra una roccia». [4]

Dan Halter, Look to Windward, 2023, installation view, Fondazione Filiberto e Bianca Menna, Roma

Sulla scia di questa immaginifica lirica, Halter affronta una questione che il saggio Dorfles riscontra come una difficoltà di unificazione delle arti [5], in quanto nelle opere in mostra, proprio per la peculiare tecnica artistica, la parola e il lavorio ritmico, tipico della musica, si uniscono in una armoniosa osmosi. In questo modo è il legame dei media espressivi a suggerirci la modulata operosità di Halter, che si pone ora precisa, quindi lenta e fortemente controllata, al punto da immaginare il movimento del filo che passa alternativamente sotto la trama e sopra l’ordito, generando una salda e cadenzata armatura. Solo dopo aver percepito questo ritmo visivo, a seguire ed alla giusta distanza, si comprende che il fine dell’artista non è solo la creazione legata alla tecnica, ma è anche l’operare su iconografie e iconologie tratte dal contemporaneo mondo globalizzato. V’è in Halter il tentativo di far sentire lo spettatore non come una entità astratta, bensì una persona fisicamente, socialmente e politicamente attiva, inserita, nei gangli della globalità diffusa. Da qui derivano le acute scelte di Halter in relazione ai titoli delle opere, An Outpost of Progress e Poverty and Progress, espressioni che lasciano spazio ad una riflessione su quanto la società industrializzata stia caratterizzando la vita di interi popoli, soprattutto quello africano, luogo d’origine dell’artista. Ed ecco la sua fredda e lucida visione dell’insieme mondo, laddove sono sviluppate immagini e idee come l’uso dell’iconografia delle tavole del Monòpoli e la riproduzione del dollaro americano, le cui trattazioni illustrative suggeriscono la fatua resistenza dell’uomo contemporaneo al regime del potere, che altresì lo porta a trasgredire i confini tra morale ed etica. Quello di Halter, in altri termini, è un discorso tecnico da cui si rivela un rapporto di frizione tra l’uomo e la società tutta, questione accentuata anche dalla visibilità degli stralci letterari vergati a mano sulle trame delle opere; cosicché il logos si presenta con una prospettazione differente rispetto a come siamo soliti ad immaginare, poiché la parola è ora alla riconquista di uno spazio sociale, soggettivo, critico e di denuncia. Pare che Halter sia convintamente consapevole di come le libertà espressive e creative, derivino sia dai vocaboli così come dal tessuto sociale, dove quest’ultimo, beninteso, è da intendersi l’archetipo materiale dell’opera.

Dan Halter, Look to Windward, 2023, installation view, Fondazione Filiberto e Bianca Menna, Roma

E come non ricordare ancora, per meglio descriverle, il gruppo delle sculture posizionate sul pavimento della Fondazione, caratterizzate come sono da un peculiare materiale, ovvero da buste di plastica intrecciate e mantenute in vita da scheletri di fil di ferro. Così, coerentemente con quanto detto, queste creazioni si offrono visivamente secondo un proprio ed apprezzabile ritmo compositivo, in quanto protagoniste di una immaginaria scenografia teatrale dal carattere velatamente drammatico ed allucinante. Inoltre, la cifra che marca l’unicità di queste opere ci suggerisce un paradigma, tra i tanti, del modo attuale di essere al mondo, con i coccodrilli impegnati ad inseguire una persona piegata dal fardello di una bizzarra bisaccia sulle spalle, tale da far riferimento alle condizioni di sopravvivenza sociale, garanzia minima di vita. Le opere di Halter, in conclusione, marcano a fattor comune, il ritmo del tempo: un cadenzare collettivo ed attuale mantenuto dinamico da un corpo sociale dalla laboriosa visionarietà ed il cui ordine, considerando l’ordinata tecnica a trama utilizzata dall’artista, potrebbe apparentemente sembrare rigidamente disciplinato, ma che evidenzia, invece, la sua scompaginazione.

 

Dan Halter. Look to Windward
a cura di Antonello Tolve

20 gennaio – 10 marzo 2023

Fondazione Filiberto e Bianca Menna
Via dei Monti di Pietralata 16, Roma

Info: www.fondazionemenna.it
+39 089 254707;  +39 340 1608136

 

[1] Il trattato è il Discorso tecnico delle arti di Gillo Dorfles la cui prima edizione risale al 1952 a firma della casa editrice Nistri – Lischi, ed è stato ristampato dalla casa editrice Christian Marinotti Edizioni nel 2003.

[2] Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Christian Marinotti Edizioni, 2003, p. 44

[3] T. S. Eliot, Music of Poetry, 1942, in Gillo Dorfles, Discorso tecnico delle arti, Christian Marinotti Edizioni, 2003, p. 56

[4] T. S. Eliot, Ciò che disse il tuono, in Poesie, a cura di Roberto Sanesi, Tascabili Bompiani, 2000, p. 277

[5] Gillo Dorfles, Op. cit., p. 77

 

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