a cura di MARIA ROSA SOSSAI
La rubrica Cronache dal Sud nasce dall’esigenza di offrire informazioni e spunti di riflessione sullo stato della ricerca artistica in quella parte d’Italia spesso dimenticata e assente nelle riviste specializzate di arte e nelle pagine culturali dei giornali. La rubrica sarà un osservatorio di fenomeni culturali e di progetti artistici nati e cresciuti in quel Sud che, pur presentando ritardi cronici di sviluppo del sistema dell’arte, accoglie e attrae artisti, musicisti, creativi da ogni parte del mondo. Lasciate le grandi capitali del Nord dominate dalle logiche neoliberali di massima estrazione del profitto, sono molti coloro che desiderano vivere in luoghi dove esistono spazi di immaginazione disorganizzata ancora da esplorare.
Cronache dal Sud #1: Silvia Maglioni & Graeme Thomson
PAROLE PERDUTE / LOST FOR WORDS, vincitore del Bando Italian Council, Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura (XII Edizione), pone la questione drammatica della scomparsa delle lingue e degli ecosistemi. Qual è l’origine di questo nuovo progetto?
PAROLE PERDUTE / LOST FOR WORDS è un progetto transdisciplinare che si situa in continuità con molti dei nostri lavori precedenti. In particolare con il lungometraggio Common Birds, un adattamento sperimentale dell’opera di Aristofane che racconta la storia di due umani che decidono di fuggire da un debito ingiusto e si trasferiscono nel Regno degli Uccelli, dove regna una sorta di proto-commons fuori dal capitale. Nel nostro film, gli uccelli si esprimono in una lingua fischiata, il silbo gomero, e vivono nella foresta primaria del Garajonay, uno degli ultimi rifugi delle foreste pluviali di Laurisilva, ecosistema subtropicale che nell’era Terziaria ricopriva gran parte dell’Europa meridionale e dell’Africa settentrionale. Durante le riprese di Common Birds si è creata una alleanza magica tra le specie vegetali e la lingua a rischio di estinzione.
Nei vostri film create spesso alleanze al di là delle parole e della visione, per comprendere cosa ci tiene legati…
L’arte del creare alleanze è anche uno dei principi fondamentali di LOST FOR WORDS. In questa prima fase di ricerca ci stiamo concentrando su parole e pratiche provenienti da una serie di lingue cosiddette “indigene”, parole portatrici di una visione olistica, spesso animistica del mondo. Se una lingua muore, se viene oppressa, proibita o sterminata, è un intero ecosistema di interconnessioni che scompare. Ed è proprio a partire da queste interconnessioni tra parole, pratiche comunitarie e natura che si sta costituendo (e destituendo) la nostra ricerca. Esistono numerose iniziative per la difesa e la riattivazione delle lingue, spesso coordinate dai membri della comunità e, in alcuni casi, dagli ultimi parlanti. Il nostro progetto si sofferma su parole e concetti che, attraverso pratiche di uso e condivisione, potrebbero aiutarci a riattivare visioni altre del mondo. Un po’ come campioni di piante fragili, vorremmo imparare a proteggerle attraverso la cura collettiva e tentare di decostruire e intensificare le nostre limitate prospettive epistemologiche.
Il progetto ha debuttato con una presentazione multimediale all’Ecomuseo Mare Memoria Viva. Cosa vi ha portato a Palermo? Quali sono le differenze che più vi hanno colpito tra una capitale del Nord Europa come Parigi, dove in parte ancora abitate, e la città di Palermo, che incarna le contraddizioni tipiche di una città del Sud dell’Europa?
Palermo è un interessante crocevia di storie e energie in transito, narrazioni nomadi e saperi vernacolari, ed è questa una delle ragioni che ci ha portato in questa città dove si vive una concezione del tempo completamente diversa da luoghi come Parigi, Londra o New York. Ovviamente siamo anche consapevoli delle sue contraddizioni e criticità.
Quali metodologie adottate nel corso della vostra ricerca?
Partendo da una prospettiva decoloniale, stiamo utilizzando diversi metodi e strumenti di ricerca con cui abbiamo già lavorato negli anni: la riattivazione dell’archivio, la conricerca, lo storytelling, la micropolitica di gruppo, la cartografia, il deep listening. Ispirati dalla pratica del collettivo indonesiano ruangrupa della “living room”, che abbiamo avuto modo di sperimentare l’anno scorso quando siamo stati invitati a presentare la nostra radio firefly frequencies a documenta fifteen, abbiamo aperto la nostra living room palermitana durante tutto il mese di novembre, invitando la gente a venire a trovarci con una parola. Si sono creati momenti di intimità straordinari con persone e lingue di vari paesi del mondo, in parte grazie al fatto che abbiamo trasformato uno spazio solitamente semi-privato in una base conviviale per la riflessione collettiva e gli incontri. Come direbbe Mahmoud Darwish, è stato forse un modo per ricostruire la casa nella lingua.
L’idea di commoning è presente in tutte le vostre opere e rappresenta quella condizione sospesa di soglia nella quale spesso ci troviamo, anche se a volte non riusciamo a percepirla.
La nostra ricerca si situa spesso in un territorio che in inglese chiamiamo in-between o, per utilizzare un termine in lingua nahuatl, nel *nepantla, zona di soglia dove i confini si rimescolano e il possibile prende forma. Ci piace molto l’idea di destituire l’oggetto artistico e farne una tecnologia vernacolare. Un esempio recente è il nostro Dark Matter Cinema Tarot, che abbiamo realizzato durante una residenza d’artista ai Laboratoires d’Aubervilliers. Si tratta di un gioco di carte liberamente ispirate ai Tarocchi di Marsiglia in cui abbiamo sostituito gli Arcani maggiori e minori con 78 fotogrammi tratti dalla storia del cinema. Nel corso del tempo abbiamo organizzato Comitati Notturni in vari paesi del mondo, dall’India all’Armenia, dagli Stati Uniti all’Olanda alla Spagna. A partire dalle domande poste alle carte dai membri del Comitato e dalle immagini che ne risultano, condividiamo pensieri, visioni, storie, divinazioni politiche.
Potete raccontare le tappe a venire di PAROLE PERDUTE / LOST FOR WORDS? Quale sarà il risultato finale? Una pubblicazione? O cos’altro?
Nei prossimi mesi, oltre a proseguire la ricerca d’archivio, abbiamo previsto una serie di incontri partecipativi, presentazioni multimediali e giornate di studio che stiamo organizzando in collaborazione con i partner del progetto (la Sorbona di Parigi, l’EDHEA di Sierre, le Belle Arti di Marsiglia, il centro d’arte Bulegoa di Bilbao e la Fondazione Merz di Torino). L’idea è di continuare a mappare parole e pratiche che rischiano di scomparire, immaginando come trasformarle in strumenti affettivi per sviluppare un’ecologia della cura e dell’attenzione. Uno degli obiettivi finali è la creazione di un Glossario del Reincanto, anche se non sappiamo ancora quale forma prenderà. Come ci mette in guardia un proverbio guarani, una lingua in cui “parola” e “anima” sono racchiuse nello stesso termine, *ne’è, quando le parole vengono separate dalla pratica perdono la loro anima e diventano veleno. Per la tappa di Marsiglia inaugureremo una CLINICA DELLE PAROLE, per cercare di curare quei termini a cui eravamo legati che non riusciamo più a utilizzare talmente sono diventati tossici, o avvelenati.
Cosa intendete con la parola “reincanto” applicato alla lingua e alla costruzione di un glossario? È vero che nelle lingue cosiddette indigene esiste una percezione dello spazio e del tempo acuita e dilatata?
Il pensiero del reincanto è in parte legato a quello che Weber descriveva il “disincanto della modernità”, ossia l’imposizione epistemologica della ragione occidentale, il dominio del cosiddetto progresso e la logica dell’estrattivismo, che ha portato a un impoverimento devastante delle relazioni sociali, dell’immaginario politico e del nostro rapporto con il cosmo. Come scrive Silvia Federici, reincantare il mondo significa “riconnettere ciò che il capitalismo ha diviso: il nostro rapporto con la natura, con gli altri e con i nostri corpi”. Per poter immaginare un glossario del Reincanto, siamo consapevoli che bisogna innanzitutto reincantare l’idea di glossario, decolonizzarlo, farne uno strumento nomade di ricerca, memoria collettiva, condivisione. Uno strumento che contenga in sé le potenzialità aperte da ciò che rimane intraducibile, indeterminato, opaco, affinché si possano sperimentare nuove forme di divenire eterogenee, ritrovare il corpo nella parola, tentare traduzioni affettive e abitare nuove percezioni spazio-temporali. Imparare da ecosistemi che sono stati devastati dall’occidente perché considerati “primitivi” ma che, in realtà, sarebbero stati estremamente lungimiranti e avrebbero evitato molti dei disastri che la modernità ha provocato nei secoli. Nella lingua aymara il passato si trova davanti a noi mentre il futuro si situa dietro, alle nostre spalle. Una sorta di risposta all’angelo della storia benjaminiano… Destare i morti, riconnettere i frantumi, resistere alla tempesta che ci spinge verso la catastrofe.
Silvia Maglioni & Graeme Thomson
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