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REGGIO EMILIA | COLLEZIONE MARAMOTTI | FINO AL 10 MARZO 2024

Intervista a GIULIA ANDREANI di Livia Savorelli

Nella Sala Sud della Collezione Maramotti di Reggio Emilia, si succede un corpus organico di opere derivanti dal flusso creativo di Giulia Andreani (nata a Venezia nel 1985, vive e lavora a Parigi): dipinti ed acquerelli ritraenti un’eterogenea umanità, accomunati da una precisa tonalità cromatica, che oscilla dall’ocra ad un particolare grigio/azzurro e riporta alla mente una temporalità altra.
Accanto a volti e storie di personaggi noti, per i quali l’artista privilegia una narrazione “laterale” – come l’attrice reggiana degli anni Venti Maria Melato, incarnata nel monumentale dipinto La traghettatrice, in cui traghetta in uno scenario che evoca lo spettro della guerra tre bambini (tra cui, il figlio nato fuori dal matrimonio che riconoscerà e crescerà da sola e una bambina internata a San Lazzaro) o la politica Nilde Iotti, donna che ha dovuto combattere contro la misoginia presente in politica indossando delle maschere, come la figura occultata dal ventaglio in La politica (la Nilde) sembra enfatizzare – ci sono le storie di chi è rimasto ai margini della storia, perché stigmatizzato per la sua diversità o del suo essere fuori dai canoni socialmente accettati.
La pittura della Andreani è finalizzata alla celebrazione della marginalità, per riportare alla luce pagine volutamente sommerse della storia, ma anche a ricordare le storie di donne – controcorrente – che sono state emblema di una forte spinta all’emancipazione femminile.

In occasione di L’improduttiva, sua prima mostra istituzionale in Italia, alla Collezione Maramotti fino al 10 marzo 2024, approfondiamo in questa intensa intervista il fulcro della ricerca dell’artista…

Giulia Andreani, La traghettatrice, 2023, acrilico su tela, 190×409 cm. © Giulia Andreani
Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Dario Lasagni

Lavorare sull’archivio come base iconografica del tuo lavoro è, da un lato, modalità di conoscenza dei meccanismi di potere, di prevaricazione e dei rapporti di forza ma anche strumento fondamentale per riscrivere nuove narrazioni che partano dalla biografia e dalle reali condizioni dei soggetti di cui senti il bisogno di rileggere la storia. A partire dall’importanza della fonte iconografica nella tua ricerca, quali sono le storie che sei più interessata a far emergere, attraverso la tua arte? Che frammenti di memoria ricerchi all’inizio del tuo lavoro di ricerca?
Se nel corso degli anni si è definito il desiderio di restituire la storia del Femminismo e dell’emancipazione delle donne, il punto di partenza è sempre stata la ricerca d’archivio (la maniera in cui definisco l’archivio è poco ortodossa, possono essere documentari, album di famiglia). Ciò mi permette di definire in un certo senso un «soggetto» come lo farebbe un ricercatore in scienze umane, una «storia» con il proprio contesto storico e socio-politico. Mi perdo fra le fotografie e i materiali iconografici, scavando alla ricerca di figure e dettagli che parlino di storie dimenticate, escluse dalla narrazione storica ufficiale, spesso legate all’esperienza sociale e culturale del genere femminile. A colpirmi sono soggettività che differiscono dalla norma, figure uscite dal posto silenzioso e composto che il sistema ha previsto per loro, e per questo lasciate ai margini della storia: madri irriverenti, allieve improduttive, malate mentali, donne e famiglie anarchiche. Gli archivi mi consentono di cercare e creare corrispondenze con il passato, di riesumare frammenti di memoria collettiva e personale e farli poi riemergere attraverso i miei dipinti. L’obiettivo è mostrare come la storia sia stata fatta dagli anonimi – soprattutto da donne anonime – celebrare e fare scoprire al pubblico la storia dei dimenticati, degli emarginati, dei dissidenti: fatti e persone rimaste invisibili o cadute nell’oblio, a cui cerco di ridare voce attraverso la pittura, ponendole in comunicazione con la nostra contemporaneità.

Giulia Andreani, La gitana anarchica (Djali-Leda), 2023, acrilico su tela, 35×27 cm. © Giulia Andreani. Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Charles Duprat

Parti da immagini fotografiche che trasponi, attraverso la tecnica del fotomontaggio, in opere pittoriche, caratterizzate da una colorazione unica dalla tonalità grigio-bluastra, che richiama la cianotipia e il vintage: il grigio di Payne. Potremmo dire che “fai pittura con la fotografia”. Quanto è importante per te la restituzione attraverso questo medium e la scelta del colore che caratterizza il tuo stile pittorico?
La fotografia è sempre il punto di partenza per i miei dipinti. C’è spesso un dettaglio dell’immagine fotografica che mi cattura (quello che Roland Barthes definisce punctum) e che decido di restituire pittoricamente appropriandomi della tecnica del fotomontaggio. Le mie composizioni sono il risultato quindi di una rielaborazione dell’immagine «indice» (per parlare come i concettuali, che starebbero male ad essere qui citati), filtrata attraverso la mia soggettività e funzionale a restituire la forza emancipatrice che quei frammenti racchiudono. La fotografia è quindi una traccia, un indizio attraverso cui costruire la pittura. Se Gerhard Richter diceva di avere fatto della fotografia con la pittura, la mia idea è di fare della pittura con la fotografia. La scelta di utilizzare un unico colore, il grigio di Payne, dichiara il legame tra l’immagine fotografica e quella pittorica, riconduce il dipinto – e con esso chi guarda – ad un’epoca passata, quella delle foto in bianco e nero, sottolineando così la storicità dell’immagine ed il suo appartenere alla dimensione della memoria e del ricordo. L’utilizzo di una sola tonalità mi consente inoltre di mantenere una posizione di distacco, quella della ricercatrice, che non si lascia distrarre dal fascino del colore. I miei dipinti perseguono un’unità cromatica che garantisce l’unità dello sguardo e consente così, senza distrazioni, di dirigere il pensiero sui soggetti che riaffiorano sulla tela. Un colore apparentemente neutro ma fortemente evocativo come il grigio di Payne consente così di collocare le figure in una dimensione di limbo, di dipingere la possibilità dei soggetti fotografati di diventare altro, di essere riletti. Infine direi che questa tonalità, soprattutto mescolata con certi bianchi, permette di far apparire degli spettri cianotipici che rinviano esattamente al blu azzurro dello schermo dei vecchi televisori quando fotografati in maniera digitale o analogica.

Giulia Andreani, La politica (la Nilde), 2023, acquerello su carta, 31×23 cm. © Giulia Andreani. Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Charles Duprat

Ti definisci una pittrice-ricercatrice femminista, ed è proprio al mondo femminile, anche negli aspetti legati all’idea di maternità, che si rivolge il tuo sguardo. Per la tua prima personale in Italia, alla Collezione Maramotti di Reggio Emilia, sei partita da diversi archivi della città (la Biblioteca Panizzi, l’Istoreco – Istituti per la Storia della Resistenza e della Società contemporanea e l’ex Ospedale Psichiatrico San Lazzaro, i cui documenti sono conservati nella biblioteca scientifica Carlo Livi). Parliamo delle donne ritratte e protagoniste di questa personale, cosa ti ha colpito di loro quando le hai incontrate negli archivi e cosa hai voluto restituire? In particolare modo mi piacerebbe che approfondissi la serie de Le Sette Sante
I tre archivi da lei citati sono stati una preziosa occasione per approfondire alcuni momenti e luoghi chiave per la storia di Reggio Emilia, strettamente connessi alla storia delle donne. Sono proprio i loro sguardi, infatti, ad avermi catturata tra la moltitudine di fotografie: sguardi dissidenti, talvolta irriverenti, che chiamano chi come me ci si è imbattuto ad una revisione critica del passato, degli schemi sociali e delle logiche di potere che lo hanno contraddistinto (e che ancora si ripercuotono sul presente). Sguardi come quello di Maria Melato, attrice reggiana che rivendica il figlio avuto da una relazione extraconiugale, di Nilde Iotti, partigiana e prima donna a diventare presidente della Camera, di Leda Rafanelli, anarchica convertita all’Islam, delle pazienti dell’Ospedale di San Lazzaro, rievocate dalle loro schede cliniche per riapparire non recluse, quasi reintegrate, addirittura «canonizzate». A questo proposito, per la serie Le sette sante sono partita dalle fotografie scattate alle internate del San Lazzaro per realizzarne sette ritratti pittorici, schierati uno accanto all’altro, a costituire una sorta di armata che circonda e scruta lo spettatore, in un rovesciamento di ruoli. Questi volti portano con sé una necessaria ed attuale riflessione sulla distinzione tra follia e sanità mentale e chi ne definisca il confine: la pazzia è stata (e spesso rimane) sinonimo di marginalità. Folli, malate mentali, streghe: così sono state additate donne che più semplicemente erano difformi, eccedenti rispetto alla norma sociale. Il titolo che ho dato alla serie è per me significativo: avrei potuto chiamarle “Le sette pazze” e ho invece scelto l’aggettivo “sante”, in un tentativo di restituire al monstruum (dal latino, ciò che è eccezionale, che oltrepassa i limiti della normalità) quel valore quasi santifico che gli veniva attribuito dalla cultura classica: una celebrazione della marginalità che è componente fondante del mio lavoro.

Giulia Andreani, L’Improduttiva, exhibition view Collezione Maramotti, Reggio Emilia © Giulia Andreani. Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Dario Lasagni

L’immagine della mostra, che prende il nome dal lavoro omonimo L’improduttiva, parte da una fotografia di inizio anni Quaranta che riprende un gruppo di allieve della scuola di taglio e confezioni istituita da Giulia Maramotti, madre dell’attuale fondatore di Max Mara, azienda che ha avuto come prima sede gli edifici che ospitano attualmente la Collezione Maramotti. Cosa hai voluto trasferire con questo volto che si discosta da tutti gli altri e apre un nuovo canale di comunicazione?
La fotografia da cui nasce l’opera L’improduttiva (e con l’essa l’idea di tutta la mostra) immortala le allieve della scuola di taglio e cucito al lavoro, in una perfetta rappresentazione di diligenza e operosità: le giovani, composte nei colletti bianchi dell’uniforme, hanno tutte le teste chine sulla macchina da cucire, gli sguardi rivolti verso il basso, il volto concentrato. Tra loro, mi ha immediatamente colpita un elemento fuori posto, che infrange l’atmosfera di silenziosa operosità: uno sguardo beffardo, in seconda fila, si alza dalla macchina da cucire, interrompendo il proprio lavoro, diretto con sicurezza verso il fotografo ed accompagnato da un sorriso quasi beffardo. In questo modo, la giovane non solo sfida la richiesta di produttività, ma anche il male gaze del fotografo celato dietro l’obiettivo fotografico e con esso le logiche di potere e sopraffazione di una società patriarcale.
Nello sguardo della giovane improduttiva è contenuto quindi lo statement femminista del mio lavoro: l’invito alla dissidenza, alla rottura con le aspettative che la società ha imposto su di noi. Emergendo nettamente dallo sfondo, il suo sguardo diretto fuori dalla tela si pone in comunicazione con il nostro presente e sembra volerci indicare il diritto ad essere improduttive a nostra volta.

Giulia Andreani, L’improduttiva, 2023, acrilico su tela, 199,5×270,5 cm © Giulia Andreani. Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Dario Lasagni

In questi giorni è giunta la notizia di un tuo nuovo ritorno in Italia, con la partecipazione alla 60. Esposizione Internazionale d’Arte – La Biennale di Venezia, invitata dal curatore Adriano Pedrosa. Nel tema di questa edizione, come si colloca la tua ricerca? Puoi darci qualche anticipazione relativa al tuo intervento?
Non posso dirle granché sulla mia partecipazione alla Biennale, a parte che il progetto dell’Improduttiva sarà ancora presente nel nuovo corpus di opere prodotte per Stranieri Ovunque, tanto più che il dialogo con Andriano Pedrosa è cominciato nei mesi in cui lavoravo intensamente sulla personale della Collezione Maramotti. Sarò felice di parlargliene quando la mostra sarà aperta al pubblico.

Giulia Andreani, L’Improduttiva, exhibition view Collezione Maramotti, Reggio Emilia © Giulia Andreani. Courtesy the Artist and Galerie Max Hetzler Berlin | Paris | London. Ph. Dario Lasagni

Giulia Andreani. L’improduttiva

29 ottobre 2023 – 10 marzo 2024

Collezione Maramotti
Via Fratelli Cervi 66, Reggio Emilia 

Orari: Visita con ingresso libero negli orari di apertura della collezione permanente.
Giovedì e venerdì 14.30 – 18.30
Sabato e domenica 10.30 – 18.30

Info: +39 0522 382484
info@collezionemaramotti.org
collezionemaramotti.org

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