Isola della Giudecca (Venezia) | CREA Cantieri del Contemporaneo | 16 febbraio – 27 aprile 2027
Intervista ad ANDREA MARCHESINI di Francesco Liggieri
CREA Cantieri del Contemporaneo, sull’isola della Giudecca, a Venezia, ospita l’ultima personale di Andrea Marchesini (Verona, 1973). The Universal Form of ONE, a cura di Martina Cavallarin con Antonio Caruso e Matteo Scavetta. Una mostra che, organizzata da Techne Art Service e promossa da TAIT Gallery, abita letteralmente gli ampi spazi dell’ex fabbrica, sede di CREA, e porta alla luce il composito mondo interiore dell’artista veneto e che abbiamo incontrato in un dialogo attorno a The Universal Form of ONE…
Il tuo lavoro è spesso descritto come un equilibrio tra realtà e immaginazione. Come riesce a mantenere questo equilibrio nelle sue opere?
L’equilibrio è implicito nella natura della percezione che secondo le attuali ricerche è complessa perché viene condizionata da fattori esterni di relazione, dall’intelaiatura di vissuto personale e di elementi recepiti attraverso la trasmissione ereditaria: tutto questo forma la psiche e la coscienza individuale. Va da sé che il dualismo realtà e immaginazione si annulla nell’analisi della percezione.

Andrea Marchesini, Lost in my somewhere nowhere, 2024, olio, smalto e gesso su tessuti vari 155×174 cm
Hai partecipato a numerose mostre internazionali, tra cui eventi a New York, Londra e Hong Kong. In che modo queste esperienze all’estero hanno influenzato la sua pratica artistica?
Nelle mie opere da diversi anni parlo di singole parti in funzione di un tutto. Per me fare arte significa proprio questo: immergersi in un tutto dove diversità e uguaglianza si fondono e dove costantemente l’armonia vige tra gli opposti. Ecco perché confrontarmi con realtà che “apparentemente” risultino diverse da quella in cui vivo diventa fondamentale per poter evolvere la mia interiorità, il mio viaggio.
La serie Frankenstein 2.0 nel suo portfolio suggerisce una reinterpretazione contemporanea del classico letterario. Cosa ti ha spinto a creare questa serie e quale messaggio intendi trasmettere attraverso di essa?
Il concetto chiave di questa “serie” è che il mondo della realtà sbiadisce, le coordinate percettive diventano illusorie, i meccanismi di interiorità si rendono determinanti nell’azione. Ho deciso quindi di ispirarmi ad un’opera letteraria del romanticismo ottocentesco: “Frankenstein” di M. Shelley. Alla base del romanzo, immerso in una atmosfera gotico-romantica, sta l’idea di criticare lo scientismo illuminista nella sua pretesa di interferire con la creazione della vita: nella trama si genera in laboratorio una creatura disperata, destinata all’auto distruzione per la malvagità sociale. Ma il cammino percorso dall’umanità negli ultimi due secoli ripropone l’intervento della scienza per sopperire all’opera autodistruttrice della così detta civiltà occidentale, per cui da molto tempo nella dimensione dell’immaginario collettivo sono ricercati nuovi Frankenstein in soccorso dell’uomo, come cyborg, robot e creature ibride come l’intelligenza artificiale. In tale dinamica rappresentativa si diffonde la tensione tra umano e tecnologico con in gioco la vera essenza dell’uomo: la sua potenziale libertà e la sua esigenza di andare oltre in un continuo divenire che lo avvicini ad una dimensione assoluta, comprensiva delle esperienza vissute nel nostro inconscio collettivo.

Veduta della mostra, Andrea Marchesini. The Universal form of ONE, CREA – Cantieri del Contemporaneo, Giudecca
Come sta la pittura? Come la vedi?
La pittura per me è un mezzo espressivo e come tale è eterno. Finché sopravviveranno creatività ed immaginazione vivrà anche questo linguaggio iconico in evoluzione di società in società. Non penso assolutamente che un linguaggio nuovo ne possa soppiantare un altro. Credo invece che accresca la scelta di un’artista nell’utilizzo di quello più idoneo a rappresentare il suo pensiero.
Le tue opere sono state esposte in luoghi di rilievo come la Palazzina di Caccia di Stupinigi e il Museo Casa dei Carraresi. Quanto è importante per te il contesto in cui le tue opere vengono presentate?
La scelta della sede espositiva per me è fondamentale. Le mie opere parlano di vita, di vita interiore e sono composte da materiali riciclati e “lacerti” di tessuti antichi proprio perché li ritengo vissuti, di conseguenza vivi e considero la sede espositiva quasi un prolungamento dell’opera stessa. Durante i sopralluoghi ho bisogno di isolarmi e mettermi in relazione con lo spazio per cercare di coglierne l’anima attraverso le energie che lo circondano.
La critica ha elogiato la tua capacità di confrontarsi con la materia in modo intimo. Puoi descrivere il tuo processo creativo e come interagisce con i materiali che utilizzi?
L’atto di approccio con la materia si complica per l’intervento di svariati fattori tra cui un processo di “dis-identificazione” progressivo in una realtà storica in cui la forza della pressione mediatica e quindi delle catene di immagini e di linguaggi imposti si fa sempre più invadente sottraendo al campo di esperienza individuale vasti territori e impoverendo la consapevolezza del “sé”. Su questo “humus” costruisco la mia rappresentazione: l’immagine viene privata della dimensione “spazio-tempo”, resta quasi sempre a fondo piatto e come isolata, ma stratificata su relazioni “ermetiche” e sovrapposizioni ambigue, combinata con ingredienti diversi oltre il colore tra cui spiccano stoffe e specchi. C’è un tentativo di cogliere la percezione nella fase embrionale, di fissarla nella sua complessità associando razionale e irrazionale senza discriminazione, quasi ad elaborare una nuova mitologia, nuovi presupposti di indagine conoscitiva.

Veduta della mostra, Andrea Marchesini. The Universal form of ONE, CREA – Cantieri del Contemporaneo, Giudecca
La serie Conscious Vision sembra esplorare temi legati alla percezione e alla consapevolezza…
Come ho già sottolineato sono influenzato dalle più recenti teorie sulla percezione che teorizzano un apprendimento stratificato su una sequenza di dati che coinvolgono il nostro sistema antropologico-strutturale a sua volta in rapporto con l’esteriorità vissuta da angolazioni diverse secondo moduli di esistenza differenti. Pertanto le rappresentazioni per questa stratificazione si rappresentano in modo anarchico, in assenza di dimensione spazio-tempo, con contaminazioni pseudo realistiche ma di legittimità espressiva e di significazione. Per quanto riguarda il pubblico è intuibile un cambio di prospettiva: il fruitore non interloquisce dialetticamente con tale opera per apprendere ma per confluirvi in un atto di empatia o per rifrangersi nell’intuizione di un “tutto” mutevole.
Come nasce in genere una sua opera?
Ritengo fondamentale nella realizzazione di un’opera la ricerca di materiale, in particolare i tessuti che utilizzo per costruire il fondo dell’opera stessa. Giro e rigiro in negozi vintage e mercati dell’antiquariato fino a quando non trovo qualcosa che mi provochi una reazione, una sensazione particolare. Direi che mi lascio guidare dall’istinto. Successivamente in studio dispongo questi tessuti in modo del tutto causale su un grande tavolo e comincio ad osservare come le forme e i colori interagiscono tra loro. Taglio, assemblo, cucio e creo la base che poi lavorerò con tecniche miste per poter esprimere il concetto portante dell’opera. Spesso utilizzo anche vecchi lavori lasciati incompiuti a cui do nuova forma destrutturandoli e ricomponendoli su nuove basi cercando sempre l’armonizzazione tra opposti attraverso un’azione creativa totalmente libera. Tutto si compie nel mio studio isolato tra campi di grano e vigneti nella più assoluta tranquillità: ma che all’interno si trasforma in una sorta di laboratorio alchemico, un enorme caos in cui per muoversi bisogna aprirsi una via tra libri, quadri, oggetti, colori, burattini, maschere. Il mio rifugio, la mia sicurezza. Da spazio creativo a luogo. IL mio “Somewhere-Nowhere”.

Veduta della mostra, Andrea Marchesini. The Universal form of ONE, CREA – Cantieri del Contemporaneo, Giudecca
La sua arte è stata descritta come un “confronto-scontro con la materia”. Come affronta le sfide tecniche ed emotive durante la creazione di una nuova opera?
Ogni mia opera nasce da una profonda meditazione dove cerco di mitigare la componente emotiva per poter avere un accesso libero e incondizionato a concetti e immagini prodotti dalla mia mente, un processo molto simile al “flusso di coscienza” di Joice. Questa ritengo essere la parte più complessa del mio lavoro. La tecnica viene successivamente e la ritengo un mezzo, come dicevo prima, per poter realizzare un’idea e non mi spaventa molto perché negli anni ho capito che gli “errori” sono fondamentali per poter passare ad un livello successivo e che non esiste nulla di irrecuperabile. Lo scarto diviene opera.
Guardando al futuro, ci sono nuovi temi o tecniche che desidera esplorare nelle sue prossime opere? Può darci qualche anticipazione sui suoi progetti futuri?
Vorrei continuare ad approfondire il tema di questa mia mostra “The Universal Form Of One” ovvero la percezione del sè dalle origini dell’uomo. Sono convinto che io abbia ancora molto su cui riflettere e di conseguenza nuove opere da realizzare. Lo ritengo un argomento fondamentale per l’evoluzione dell’uomo: più ci conosciamo nel profondo e più possiamo proseguire.
Come artista quale pensi sia il tuo dovere nei confronti della società?
Il cercare di capire per poter rendere visibile e quindi comprensibile quello che non lo è.
a cura di Martina Cavallarin con Antonio Caruso e Matteo Scavetta
promossa da TAIT Gallery
16 febbraio – 27 aprile 2025
Giudecca 211, Venezia