VENEZIA | Padiglione Nazionale Uruguay – Giardini | Fino al 24 novembre 2024
Intervista a EDUARDO CARDOSO di Matteo Galbiati
La grazia di un artista è quella di saper definire i contorni di una narrazione senza rinunciare all’identità della sua ricerca, senza scadere nelle retoriche dei temi, ma interpretando quelle suggestioni che si possono tradurre nello specchio effettivo del suo pensiero, che deve rimanere colmo di verità. Chi non ha abbandonato la propria identità artistica ed estetica e si è speso in un progetto di grande pathos emotivo è Eduardo Cardoso (1965) che con Latente, ha regalato al suo paese – l’Uruguay – uno dei migliori Padiglioni Nazionali di tutta la Biennale. Lavorando con la pittura, ma sconfinando anche in una libera interpretazione installativa e scultorea, e rileggendo alla sua “maniera” un capolavoro del Tintoretto, Cardoso si muove nei distretti insidiosi, perché vulnerabilmente sensibili, delle emozioni, della memoria, del tempo, delle passioni, dell’amicizia, delle storie particolari che possono e sanno diventare universali se espresse con una naturale sincerità di sentimenti.
È un racconto che si muove in equilibrio sui suoi stessi elementi connotanti: è capace di affermare il valore del limite e dell’alterità con la stessa naturalezza con cui fa vivere il muro uruguaiano del suo studio qui in laguna o con cui smaterializza il virtuosismo della pittura di Tintoretto in una rutilante ed essenziale, per quanto espressivamente intensa, differente rappresentazione che, però, lascia dedurre quanto sia stato compreso nel profondo il modello originale.
Così Cardoso omaggia un amico lasciato (Tato) e uno ritrovato (Tintoretto) quando, tra le cromie decadenti del suo intervento pittorico, ci fa prima intuire e percepire poi la relatività del tempo e il suo inarrestabile, lento-veloce, scorrere. Gioca con lo spazio quando, riunendo esperienze vicine-lontane, riduce le distanze e lascia che le superfici delle sue numerose tele raccontino una pittura che è fatta di scelte, di rinunce, di cambiamenti. Di altre possibilità non considerate. La monumentale realizzazione, da lui concepita in occasione della Biennale, non è affatto una gigantografia del niente (come abbondano invece altrove per Venezia): è l’espressione autentica della volontà di non deludere chi osserva – e che può sconfinare in territori stranieri rispetto all’immediatezza delle prime suggestioni avute – purché non si perda mai di vista l’esattezza di quanto si indaga, si rispetti il modello originario di cui c’è sempre un’imprevedibile “presenza” latente.
Abbiamo incontrato l’artista nei giorni dell’anteprima stampa, e ci siamo a lungo intrattenuti con lui parlando approfonditamente del “senso” della sua opera che tanto colpisce, affascina e interroga il nostro sguardo. Si è commosso rispetto ad alcuni nostri commenti, dimostrandoci la veridicità potente della sua opera. Di quanto se stesso ci sia dentro e dietro gli spessori della sua prova pittorica e di come ci inviti a guardare in profondità e al di là delle cose per cercare sempre l’indistinguibilità dell’altro.
Condividiamo molto di quanto ci ha detto la curatrice del padiglione del paese sudamericano – Elisa Valerio – soprattutto quando afferma che l’opera di Cardoso: “È un invito a rallentare il ritmo e il vortice in cui viviamo per concentrarsi sulle sfumature, sulle piccole cose, sui tratti, sulle foglie, sugli scampoli, sui bordi, che alla fine sono quelli che contano di più”.
Qui il prosieguo del nostro dialogo con lui:
Cosa significa per te rappresentare, come artista, l’Uruguay alla Biennale di Venezia in un’edizione le cui intenzioni sono quelle di mettere in evidenza chi viene dalle “periferie” del sistema dell’arte?
È una grande gioia poter partecipare alla Biennale ed esporre in questa bellissima città, che vanta una grandiosa tradizione pittorica. Mentre lavoravo al montaggio di quest’opera, andavo ogni giorno a scoprire un nuovo dipinto all’interno di ogni chiesa della città. Per quanto concerne la partecipazione, in Uruguay viene lanciata una open call e una giuria indipendente seleziona il progetto che rappresenterà il Paese alla Biennale di Venezia. Sono onorato di essere stato scelto. Ho il sospetto che questa giuria abbia posto l’accento sul progetto e non tanto sul solo dato di provenienza dell’artista. Personalmente mi ritengo fortunato per poter vivere di quello che faccio e perché ciò accada è necessario che, in qualche modo, il mio lavoro venga inserito nel mondo dell’arte a prescindere dal fatto che io sia o meno d’accordo.
Come ci siamo detti il giorno dell’inaugurazione, il tuo lavoro credo sia uno degli esempi più forti, poetici e intensi di ciò che un artista può presentare alla Biennale. È quello che ci si dovrebbe aspettare, il coraggio della coerenza e la volontà di esprimersi attraverso la propria visione estetica senza monumentalismi inutili o effetti da luna park artistico. Si percepisce un’idea di bellezza, ma anche l’intensità di una profondità che tocca l’anima. Come hai lavorato a questa opera? Come si è sviluppato il tuo progetto?
Questo lavoro ha qualcosa di donchisciottesco per me. All’inizio abbattere i muri del mio laboratorio sembrava un compito impossibile. Prima abbiamo fatto tante prove con le restauratrici che mi hanno indirizzato con i loro consigli: stavamo cercando il modo migliore per applicare il metodo dello strappo per ottenere il maggior numero possibile di strati di vernice. Poi c’è stato molto lavoro fisico che abbiamo fatto con Álvaro Zinno, mettendo la malta dietro il dipinto strappato e ricostruendo il muro, in quella specie di “piastrelle” che ne hanno reso possibile il trasferimento.
Anche trovare un modo per rivisitare niente meno che Tintoretto non è stato un compito facile. Conoscevo il suo lavoro, ma questa volta si trattava di approcciarmi direttamente a lui. Mi ha aiutato poter guardare i video su alcuni restauri delle sue opere, ascoltare conferenze e leggere molto sul suo lavoro. La quantità di materiale didattico che abbiamo a disposizione su tutti ai nostri giorni è enorme, ma sapevo che la conoscenza più profonda sarebbe arrivata durante il viaggio a Venezia, quando ho avuto il privilegio di vedere molte delle sue opere nel luogo esatto in cui lui le aveva pensate e dipinte.
Il Museo Tyssen-Bornemisza, dove si trova questo “bozzetto” de Il Paradiso, è stato così generoso da inviarci una versione in cui i colori sono perfettamente rispettati e con essa ho potuto avvicinarmi a queste cromie attraverso una miscela di pigmenti per dipingere le tele nella mia versione. Avevo fatto due precedenti tentativi e non mi avevano convinto, ma poco a poco ho imparato a conoscere ciascuno dei personaggi che vi sono raffigurati. L’umore stava cambiando tra alcuni fallimenti e altri successi.
Nello sviluppo del progetto ho avuto la fortuna di avere la guida e il supporto della curatrice Elisa Valerio e del fotografo Álvaro Zinno, che è stato presente in ogni fase del lavoro e si è occupato anche dell’illuminazione dell’opera.
Nel mio caso l’idea nasce mentre lavoro con la materia e l’opera si compone e si trasforma fino all’ultimo giorno di montaggio. Mentre lavoravamo al Padiglione sono sorte molte domande e allora andavo nelle chiese a cercare risposte. Sono ateo, ma in quegli spazi ho trovato esperienze estetiche molto forti che sono diventate una risposta. Molte volte ero solo, in silenzio, e come un dono mi appariva un dipinto meraviglioso. Non era illuminato come in un museo, ma con una luce fioca che rendeva difficile vederlo nella sua interezza. Devi lavorare duro per evitare il riflesso della pittura ad olio; devi muoverti per scoprire l’espressione di un personaggio. Lì l’opera rinuncia a mostrarsi nella sua interezza per far parte di quello spazio. In quella fusione ho trovato una risposta: erano quella luce e quell’atmosfera di tranquillità, che volevo riprodurre nel Padiglione.
Cosa significa il titolo Latente? Come hai portato la pittura a sconfinare con la dimensione installativa creando un ambiente di forte valore meditativo? Quali sono le coordinate formali, estetiche e narrative di questa opera?
La parola latente può riferirsi a qualcosa che pulsa, che è in qualche modo viva, ma anche a qualcosa che non è evidente, che è in potenza.
La pittura è molto presente in tutta l’installazione. È sulle pareti del mio laboratorio ora trasformato in un murales di 9×4 metri; è presente come vestigia del lavoro del pittore e, infine, su quelle pareti ci sono le tracce delle vernici che i precedenti abitanti di quella stessa casa applicarono sulle medesime pareti, colori che erano di moda nelle case di Montevideo negli anni ’50 o ’60. Ho portato con me un pezzo del mio quartiere e della mia città. La pittura è presente anche nella mia versione dell’opera di Tintoretto. È un lavoro fatto di tele e pieno di assenze.
Quando fu restaurato questo dipinto, si vide che alcuni dei personaggi furono dipinti nudi, in un secondo momento Jacopo “mise” loro le vesti. Questo mi ha dato l’idea di lavorare solo con le stoffe, le vesti. Nella mia opera tutta quella spazialità dipinta e quegli scorci che riempiono di dinamismo il dipinto si sono trasformati in tessuti fluttuanti nello spazio reale e che mutano a seconda del movimento di chi li guarda.
Quell’intimità di un quadro, rivelata dai raggi X o dalla luce infrarossa durante il restauro, ha una certa familiarità con l’intimità del mio laboratorio, ora trasformato in un murales. Così ho deciso di completare l’installazione con tele dipinte lungo il mio percorso, ma appese al contrario. Sul retro sono presenti anche resti di muro e macchie di olio che trapassano la tela. Narrativamente questo lavoro è una sorta di brindisi all’amicizia, un incontro immaginario con un amico. È il desiderio che qualcuno ti aspetti quando arrivi alla stazione. Sentirsi accolti o accoglienti è un gesto amorevole e generoso.
Uno dei tanti ricordi che ho del mio amico Tato – a cui è dedicata quest’opera – è vederlo in piedi, ad aspettarmi, cercandomi con lo sguardo tra i passeggeri che scendevano dalla nave che aveva attraversato il Río de la Plata per arrivare a Buenos Aires.
Questa volta ho portato con me le pareti del mio laboratorio, un luogo molto prezioso e intimo, e ho apprezzato molto che qualcuno di così caro, come Tintoretto, mi stesse aspettando a Venezia. La cosa più bella è stata che era davvero lì, e mi ha fatto riscoprire non solo la sua pittura, ma anche quella di Tiziano, Giorgione… Mi ha fatto vedere El Greco con occhi diversi. Del resto ho sempre imparato dai miei amici.
L’atto di abbattere i muri del laboratorio è stato in qualche modo, uno sradicamento, se intendiamo questa parola come strappare qualcosa dalle proprie radici. Quando ritorni senti il vuoto, ma io l’ho vissuto più come una consegna. Inoltre, mentre lavoravo con Álvaro, c’era tutta l’attesa per la Biennale, con l’eccitazione che deriva da una nuova avventura.
Ci racconti le tue emozioni per il tuo dialogo così intenso con Tintoretto in cui non solo hai conosciuto l’artista e Venezia, ma tanto hai scoperto di te stesso?
Come ti ho detto, mi sento un privilegiato per aver visto molti dei dipinti di Jacopo Robusti (il Tintoretto n.d.r.) nei luoghi per i quali li aveva destinati ed altri, come il meraviglioso Il miracolo dello schiavo o Il trafugamento del corpo di San Marco, nei musei di questa città. A poco a poco si è creato un legame affettivo molto forte con questo pittore.
La teatralità che esiste in molte sue opere, quei personaggi che paiono diretti da un regista, con la luce orientata per accentuare il dramma o la storia che viene raccontata, mi fanno pensare a quanto la finzione e l’immaginazione siano necessarie alla vita. Per me arte e vita non sono la stessa cosa. Hanno bisogno l’una dell’altra. La finzione riscatta la realtà e ci libera dai suoi accessori.
Ad esempio, ne La strage degli innocenti c’è una narrazione evidentemente romanzata, che mette in risalto il dramma umano di quel momento. Tintoretto era molto cinematografico, dirigeva i suoi personaggi all’interno del quadro. Un uomo dalla fantasia straripante.
Ne La presentazione della Vergine quella fanciulla, che in un’inquadratura dal basso sale da sola le scale in mezzo a quegli uomini dai volti così seri, ha un coraggio e una esattezza emotiva così difficile da esprimere in un dipinto… L’immaginazione di questo pittore è infinita e contagiosa. Questa esperienza che ancora mi rimbomba dentro, in qualche modo, ha cambiato il mio modo di dipingere, penso mi abbia dato più libertà. È come se mi avesse detto: dimentica i concetti e lascia che la tua immaginazione si prenda tutti i rischi, l’arte è finzione e lì va bene tutto. Arte e vita non sono la stessa cosa, hanno solo bisogno l’una dell’altra.
Il dialogo che hai strutturato si suddivide in tre momenti, in tre tempi: il “nudo”; il “paramento” e il “velo”. Cosa rappresentano, come si relazionano tra loro e cosa trasferiscono allo spettatore?
Il “Nudo” è costituito dalle pareti del laboratorio che, in qualche modo, ho spogliato. Ma è anche un po’ la mia stessa nudità. Un luogo a me tanto caro. È la parte più “reale” dell’installazione, sono le pareti stesse, non dipinte da me, ma dipinte dal tempo. Davanti al nudo ci sono i “Paramenti”, una versione dell’opera di Tintoretto costituita solo da tele.
Per realizzare i paramenti era fondamentale cercare di riprodurre la luce del bozzetto de Il Paradiso nello spazio reale, e per fare ciò era necessario avvalersi di un grande fotografo come Álvaro. Con quelle tele ho cercato di avvicinarmi all’energia e al movimento che ha il dipinto originale e ho apprezzato la sfida di misurarmi con un modello. È un atto creativo di grande attenzione per l’altro il saper ascoltare e l’aprirsi a imparare.
Infine il “Velo”, una morbida scultura sospesa in un angolo dello spazio. Per rimuovere le pareti ho prima incollato della garza con colla di coniglio e, una volta asciugata, ho incollato altri tre strati di tela. Questo mi ha permesso di togliere più strati di vernice dai muri. Rimessi questi strati su una nuova malta, ho rimosso le tele e le garze con spugna e acqua tiepida. Con tutte queste garze e laccetti ho composto la scultura. Cioè con i materiali di un velo le mura sono potute arrivare a Venezia. In qualche modo quest’opera vuole anche rendere omaggio ai restauratori che, forse, sono coloro che conoscono di più i dipinti e che personalmente ammiro molto. Quest’opera è colma della conoscenza di quei personaggi che restano nelle pieghe della storia dell’arte.
In che maniera Latente si inserisce nella tua ricerca? Che dinamiche mantiene della sua visione espressa dalle altre tue opere?
Abitualmente nel mio lavoro faccio ricorso a molti riferimenti alla tradizione della pittura. Si può creare con tutta l’immaginazione e infrangere tutte le regole, ma a me piace conoscerle e capire perché esistono.
Adesso stavo dipingendo nature morte, tema molto ripetuto nella storia dell’arte, ma è anche un tema infinito e universale. Ad un certo punto puoi vedere il trascorrere del tempo, mentre una foglia di barbabietola invecchia nel tuo studio. Quando la vai a dipingere ogni giorno, questa foglia assume una forma diversa, così ti trovi a dipingere il tempo, le rughe, le pieghe, il cambiamento di colore, il passaggio da uno stato all’altro al di fuori di un elemento così semplice. Le mie opere veneziane, strappate e piene di pieghe, dove ci sono angoli in ombra di qualsiasi forma hanno punti di contatto con queste nature morte. Come vedi, la storia della pittura mi commuove.
Sono d’accordo con Borges quando dice: “Che gli altri si vantino pure delle pagine che hanno scritto, io gioisco di quelle che ho letto.” A me piace modificarlo con i dipinti che ho visto.
Ci sono già altri progetti importanti su cui stai lavorando dopo La Biennale di Venezia?
Sì, oltre ad alcune mostre che ho in programma quest’anno, c’è un progetto che sto pensando per un museo di Vicenza, è ancora agli albori, quindi non posso dirti di più se non che mi entusiasma molto.
Latente. Eduardo Cardoso
commissario Facundo de Almeida
curatrice Elisa Valerio
nell’ambito di Stranieri Ovunque – Foreigners Everywhere 60. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia
17 aprile – 24 novembre 2024
Padiglione Nazionale Uruguay
Giardini della Biennale
Calle Giazzo, Venezia
17 aprile – 25 agosto 2024
Orari: estivo 11.00- 19.00 (dal 20 aprile al 30 settembre – ultimo ingresso 18.45); fino al 30 settembre, solo sede Arsenale: venerdì e sabato apertura prolungata fino alle ore 20.00 (ultimo ingresso ore 19.45); autunnale: 10.00-1.008 (dall’1 ottobre al 24 novembre – ultimo ingresso 17.45); chiuso il lunedì (tranne i lunedì 17 giugno, 22 luglio, 2 e 30 settembre, 18 novembre)
Info: www.labiennale.org