BUBBIO (AT) | SPAZIO ARTE BUBBIO | Fino al 14 settembre 2025
Intervista a MARGHERITA LEVO ROSENBERG di Francesca Di Giorgio
Margherita Levo Rosenberg è protagonista insieme a Carla Crosio di una serie di mostre, in terra piemontese, che incarnano l’intenso dialogo professionale e umano che lega da decenni le due artiste. Il percorso espositivo iniziato, nella primavera scorsa, da Palazzo Robellini ad Acqui Terme e continuato, nell’estate, nei suggestivi spazi della chiesa medievale di Nostra Signora Assunta e del Santo Rosario a Ponti (AL) – con le mostre dal titolo Contemporanee. Arte come radice di un’amicizia – continua, fino al 14 settembre, al SAB (Spazio Arte Bubbio) con la mostra Contemporanee. Dialoghi 1, a cura di Livia Savorelli.
In questo primo appuntamento con Margherita Levo Rosenberg, approfondiamo con lei la sua poetica e ci addentriamo nel racconto delle opere in mostra…

Partiamo da alcune tue dichiarazioni che trovo particolarmente interessanti: “L’arte risponde all’urgenza di una domanda di conoscenza” e ancora “L’arte si occupa sempre del reale. Quando l’arte cambia significa che la percezione della realtà è cambiata”. Ti chiedo quindi quale è la tua percezione del reale che influenza il tuo essere artista e come cerchi di sciogliere questa intricata matassa attraverso la tua arte? Quanto la psicoterapia ha influito nella costruzione del tuo linguaggio visuale?
La tua domanda presuppone che io abbia una percezione del reale… In realtà me ne riconosco molte, nessuna prevalente e persistente. Non ho trovato risposte univoche mai; né dagli studi né dalla vita. Tu stessa evochi l’immagine di una matassa che ho cercato di districare attraverso la mia ricerca. Tuttavia, come racconta la mia storia, non ho ancora trovato soluzioni convincenti. Dalla pipa di Magritte al cappello di Kosuth, ho respirato più realismo nell’espressionismo astratto che non nelle opere rigorosamente concettuali. La realtà non esiste se non nel qui e ora, nell'”esserci” heideggeriano, nell’attimo fuggente di un’intuizione. Intuizione che vale solo per me e per quell’istante. La psicoterapia analitica è senza dubbio un brodo di coltura di molte domande e perfino di qualche risposta. Ma il pensiero nasce visivo, tridimensionale e le parole sono il tentativo, più o meno riuscito, di rappresentarlo. Quindi, più spesso, sono state le mie fantasie visive a rivelarmi la strada da prendere in psicoterapia che non viceversa.
Le tue installazioni mettono in relazione frammenti di umanità colti nel loro tempo ma, nella loro disgregazione o frammentazione, essi diventano cosa altra, nuova forma di vita, nuova trama che si appropria di sempre nuovi spazi, una materia multiforme che si espande, assumendo alla vista dello spettatore un’aria giocosa o di inquietante presenza. D’altronde l’arte si nutre anche di stupore e le sue forme diventano visioni e linguaggi… Partiamo dalle origini del tuo lavoro, come sei arrivata alla scelta di utilizzare pellicole radiografiche (impresse o vergini), sindoni della fragilità umana e del suo dolore? Anche nell’ottica della loro trasformazione e del loro riciclo…
La radiografia ha sempre avuto, ai miei occhi, il fascino misterioso di una rivelazione: guardare dentro senza smontare il giocattolo. Inoltre la pellicola impressionata, con i suoi blu notte e le sue trasparenze degradanti costruisce immagini molto affascinanti, un po’ come un cielo pieno di nuvole dove si possono proiettare folle di personaggi e situazioni.
La radiografia, poi, contiene l’impronta e la memoria di un corpo, costruita attraverso la radioattività, che ha attraversato quel corpo; il fantasma più potente e pericoloso del nostro tempo, salvifico o mortifero a seconda di come lo si guarda. Anche quando ci rivela la peggiore delle malattie, lo fa con la distanza e l’eleganza dell’indifferenza, come si addice a una signora dal sangue blu.
Poi è arrivata l’era digitale e le radiografie sono state sostituite dalle immagini computerizzate; le pellicole non servivano più ma nei magazzini degli ospedali ne rimanevano ancora. Le ho raccolte vergini, e aperte così com’erano, scoprendo un nuovo mondo di potenzialità: le emulsioni originarie, all’argento e con le terre rare. Avevano colori bellissimi, alcuni permanenti, altri viravano con la luce senza che io potessi controllarle. Ho fatto dei lavori viola e dopo qualche anno li ho ritrovati verdi…
La scelta è certamente influenzata anche dall’esigenza di riciclare materiali di scarto – come giornali, plastica, depliant, manifesti pubblicitari etc – ma è il guardare dentro, nelle sagome viscerali dell’umanità, la ragione più profonda.
Hai dichiarato che i metodi conoscitivi, quello sintetico della poesia e quello analitico della scienza, non ti sembrano sufficientemente democratici. Mi puoi spiegare il perché in funzione dell’opera Della Democrazia da te ideata, da quali riflessioni essa origina?
Il concetto di democrazia, a partire dalla sua etimologia greca si è arricchito di complessità e si presta a molte interpretazioni. Io l’ho inteso come sistema di convivenza e condivisione equilibrato nel tener conto di tutto e di tutti. Anche la conoscenza è tale se condivisa, fruibile dai più e supportata da un equilibrio interno, altrimenti è di parte e non segue percorsi democratici. Una pera è una pera, per dirla con Pozzati, se siamo tutti d’accordo! Il metodo analitico porta ad un frastagliamento minuzioso dell’oggetto in esame e nel decostruirlo ci allontana dalla possibilità di una visione d’insieme; una pera, tagliata a fette e analizzata diventa prevalentemente acqua, semi, picciolo e molecole di zucchero mentre la sua definizione linguistica, per qualcuno, è solo una dose di eroina in vena. Il linguaggio sintetico dell’arte può contenere molti di questi aspetti e offrire una visione d’insieme ma si perde i dettagli. Non possiamo vivere di sola scienza e neppure di sola poesia. In entrambe le situazioni manca l’equilibrio dei pesi, la visione democratica dell’oggetto. Io vado in cerca di un oggetto frammentabile e ricostruibile con i frammenti dell’analisi del suo intero. L’ho definito ANATETICO SINLITICO, dalla crasi dei termini di analitico e sintetico, con l’intento di far convivere democraticamente analisi e sintesi.
La democrazia poi deve essere caratterizzata da una certa flessibilità e, nel dedicarle una colonna commemorativa, ho costruito una COLONNA MORBIDA, policroma, flessibile, deformabile ma in grado di riprendere e conservare la sua forma nel tempo. Qui interviene la struttura, che deve essere rigorosa e permettere ad analisi e sintesi di integrarsi democraticamente. E se la realtà consistesse nella struttura?

Anche le tue consorterie emergono da una tensione tra distruzione e rigenerazione. Puoi introdurci a IL FUOCO SOTTO LA CENERE e CENERE? E raccontarci in generale il concetto di consorteria?
Così come la democrazia è un aggregato di piccoli frammenti colorati che rimandano all’idea di coesistenza di una moltitudine di individualità, le CONSORTERIE alludono all’esistenza di gruppi che condividono la sorte, che trovano motivo di aggregazione nella condivisione di obiettivi comuni, ideologie, istanze, anche senza esserne consapevoli.
Da qui originano opere come il FUOCO SOTTO LA CENERE, che allude alla sensazione che esistano in questo mondo – lanciato a velocità folle, in direzioni delle quali non si intravvede l’uscita – dinamiche sovversive e distruttive, che raccolgono molte più adesioni di quanto si possa immaginare. I grandi cambiamenti, che stravolgono il globo, proprio nel nostro tempo, ne sono un indizio.
La CENERE è quello che rimane dopo che il fuoco si spegne. La prima è una consorteria attiva, la seconda, passiva, subisce le conseguenze della prima.

Tra i vari cicli che hai ideato ci sono le gargofanie, opere anch’esse che si generano tra distruzione e creazione, tra pieno e vuoto, realtà e mistero… Parlaci in generale della serie, con particolare riferimento alle opere in mostra TOMMASO e TOMMASINO e Uno straccio di gargofania fino ad arrivare alle VIOLAZIONI e IL TROPPO STROPPIA…
Le GARGOFANIE rimandano ai Gargoyles, creature mostruose di pietra che sporgono dalla sommità delle cattedrali gotiche, raccontando di un tempo in cui arte, religione, mitologia e necessità contingenti – erano grondaie – si intrecciavano in modo indissolubile; così una grondaia/gargoyle poteva diventare simbolo dell’eterna lotta tra il bene e il male; figura minacciosa e, nello stesso tempo, protettiva contro le forze demoniache e gli spiriti maligni.
Il Gargoyle, guardiano attento della casa di dio, è anche il mediatore della lotta tra Eros e Thanatos, tra le pulsioni di vita e le pulsioni di morte che abitano le nostre profondità. Dove si nascondono i demoni della contemporaneità? Mi è parso di scorgerli, talvolta, nel frastuono del web, nel proliferare della faciloneria e della semplificazione, nell’ipertrofia mediatica dell’informazione, nella bibliografia inesauribile dell’A.I. e nel bagliore delle insegne che, nelle notti metropolitane, ha scalzato le stelle. TOMMASO ha una forma a proboscide che evoca il detto “Tommaso non ci crede se non ci mette il naso”, dal racconto evangelico circa lo scetticismo del santo. TOMMASINO ne è il complemento ironico che, dopo tanto rimurginare, mi fa sciogliere in una risata liberatoria. Le VIOLAZIONI sono nate dal rapporto tra il colore viola e il doppio senso della parola violazione e ancora dalla sensazione che l’umanità abbia violato un limite insuperabile.
IL TROPPO STROPPIA rappresenta un groviglio che fuoriesce da un’anfora di vetro scoppiata sul fianco; è un groviglio di ridondanze, del troppo di tutto che ci circonda. UNO STRACCIO DI GARGOFANIA si riferisce – come per altre opere precedenti a cui ho dato il nome di straccio di… – alla necessità di avere uno straccio di qualcosa con cui dialogare, in cui credere, con cui condividere.

BABEL. SCRIPTA VOLANT è un’installazione composta da 7 elementi a partire da un elemento, un libro. Come già il titolo preannuncia, è un lavoro sulla parola che, nello spazio del web, diviene effimera perdendo il suo peso e valore. Da che riflessione origina questa opera?
Nel mito di Babele, Dio infliggerebbe agli uomini la punizione dell’incomunicabilità per costringerli a fermare la costruzione di una torre abbastanza alta da toccare il cielo, ovvero per fermare il tentativo blasfemo di aspirare al divino, ancorché in vita.
Oggi non serve una torre per arrivare all’etere; i social media riversano in rete miliardi di parole con diversi intenti, di diversi linguaggi, con diverse competenze. Banali, offensive, remissive, aggressive, minacciose, accusatorie, falsificanti, rivelatrici, le parole fluttuano nella complessità orgiastica della comunicazione online e, ben presto, si perdono nel mare magnum della ridondanza e dell’oblio. In passato lo scrivere aveva funzione di testimonianza e permanenza; anche per questo invitava più spesso ad una riflessione preliminare. Ora le parole viaggiano nell’etere e il vecchio detto “scripta manent” ha perduto la sua attualità.

Human crossing è un’opera del 2020, figlia dell’era del Covid. In queso lavoro iconico tornano a fare la loro comparsa i tuoi omini che si posizionano su sagome di pellicole impressionate con corpi umani a forma di X. Cosa ha mosso la realizzazione di questa opera in un momento particolarmente critico per la storia dell’umanità? Anche i GUARDIANI DEL VUOTO nascono durante la pandemia, da quale riflessione originano?
HUMAN CROSSING è il titolo di 2 opere, una della serie Scampoli e una della serie Sagome e si riferisce agli incroci di strade di fronte ai quali si trova il genere umano, in diversi frangenti della sua esistenza. Ho pensato a Cassandra Crossing, il film catastrofico degli anni settanta che, all’inizio della pandemia di Covid, mi era sembrato premonitore… I GUARDIANI DEL VUOTO sono contenitori di spazi vuoti, comprimibili ma non eliminabili. Lo spazio interno è delimitato e protetto da una parete flessibile che porge allo spettatore formazioni modulari aculeate che vogliono esercitare una funzione deterrente, rispetto a dinamiche o istanze intrusive. Nel vuoto non c’è contaminazione e contagio. Nel vuoto ci si potrebbe nascondere.
Per chiudere, oltre al rapporto personale che vi lega, quali sono le principali affinità che accomunano il tuo lavoro e quello di Carla Crosio con la quale hai avviato, con Contemporanee. Dialoghi 1, un nuovo dialogo creativo?
Carla ed io ci siamo riconosciute da subito come donne e come artiste. Un riconoscimento viscerale, di pelle; lo stesso sguardo sul mondo, sugli affetti, sullo scorrere della vita, la stessa passione, lo stesso dolore. Tra noi discussioni feroci, nessun convenevole, nessuna ipocrisia e le nostre opere, talvolta, sono un amplesso.

CONTEMPORANEE. DIALOGHI 1
CARLA CROSIO | MARGHERITA LEVO ROSENBERG
A cura di Livia Savorelli
2 agosto – 14 settembre 2025
SPAZIO ARTE BUBBIO
Regione Giarone snc, Bubbio (AT)
Orari: venerdì | sabato | domenica dalle 15.00 alle 19.00 o su appuntamento telefonando al 3356086701
Info: www.spazioartebubbio.com



