BARI | Area Archeologica di San Pietro
Intervista ad EDOARDO TRESOLDI di Tommaso Evangelista
Nel lavoro di Edoardo Tresoldi la forma non è mai conclusa, la materia non è mai piena, il tempo non è mai lineare. La sua pratica scultoreo-architettonica agisce come una ricerca tra partecipazione e lontananza, tra rovina e codice, tra archetipi condivisi e riattivazione dello spazio pubblico. Tresoldi costruisce a partire dall’assenza, da ciò che non è più visibile ma che continua ad abitare il presente sotto forma di memoria perché le sue opere fanno emergere una presenza altra, una “presenza dell’assenza”, che diviene paesaggio, linguaggio e gesto urbano.

Il progetto per l’area archeologica di San Pietro, nel cuore di Bari Vecchia, prosegue in questa direzione. L’iniziativa nasce da un bando internazionale indetto dal Segretariato Regionale del Ministero della Cultura – Puglia, diretto dall’architetta Maria Piccarreta, e si inserisce all’interno di un ampio progetto di valorizzazione dell’area, da decenni oggetto di scavi e studi archeologici.
Dopo l’esperienza di Siponto, che ha inaugurato un metodo di sovrascrittura visiva sul patrimonio archeologico, l’artista torna a confrontarsi in Puglia con la materia del passato attraverso gli strumenti del contemporaneo. La rete metallica, elemento industriale e insieme etereo, non serve a illustrare bensì a dichiarare: disegna nello spazio una grammatica condivisa, una soglia percettiva che coinvolge l’immaginario, e in questa “architettura senza materia”, ogni elemento è significato prima ancora che volume. L’opera è riconoscibile perché è già dentro l’osservatore, appartiene a un sapere collettivo, inconscio, a un orizzonte simbolico diffuso. L’artista progetta relazioni, dispositivi aperti di attraversamento urbano capaci di attivare nel tempo esperienze mutevoli e stratificate. In tal senso la sua arte da essere semplicemente “pubblica” diviene civica, fondata su una fiducia nella collettività e sulla capacità delle persone di abitare lo spazio, di trasformarlo in estensione della propria esistenza. A Bari tale intuizione trova un terreno fertile in una città dove la soglia tra spazio privato e spazio pubblico è continuamente ridisegnata dai gesti quotidiani degli abitanti.
Il suo rapporto con la rovina non è nostalgico, ma attivo. La rovina, nella sua visione, è uno stato, una condizione che contiene passato, presente e possibilità future di costituzione. È il punto in cui la tensione tra costruzione e disfacimento si manifesta nella sua forma più radicale perché confrontarsi con l’eredità determina l’agire non su archivio chiuso, ma su codice ancora vivo, un archetipo che deve essere riscritto. La scultura diviene così un atto di trasmissione, un modo per dare forma alla memoria senza imbrigliarla nella replica. Fare architettura, per Tresoldi, è fare scultura: significa agire sulla forma come idea, sul paesaggio come sistema di relazioni e sulla città come organismo che incorpora linguaggi e che ci interroga attraverso ciò che resta, ciò che ritorna.
La tua opera non ricostruisce, ma evoca. Cosa significa per te ricostruire senza materia? Che ruolo ha il vuoto nell’architettura della memoria?
Il termine evocare l’ho sempre trovato improprio perché significa richiamare qualcosa senza definirlo in maniera completa ma restare in una dimensione più di suggestione che di totale riproposizione. Il mio lavoro materico si sviluppa a partire da una condizione che si confronta con l’idea di presenza e di non presenza o, ancora meglio, di presenza dell’assenza. Questo è l’interrogativo che muove la mia ricerca plastica da cui hanno origine una serie di ulteriori interrogativi che affrontano il significato del “fare paesaggio” (il campo in cui mi muovo e in cui si esprime la mia ricerca artistica). Ricostruire senza materia corrisponde a “toccare” qualcosa che è già stato, partire da questo concetto. Nel suo non essere più è comunque qualcosa che fa parte del nostro presente, ne fa parte come memoria che ha una sua fisicità, una sua presenza, interagisce con tutti i fenomeni della città contemporanea. La memoria è qualcosa che ci proietta verso un passato e poi nel presente. Parlare di memoria significa parlare di una presenza del nostro tempo che percepiamo nel presente ma che ritorna da un passato. Ritornare e ricostruire. La ricostruzione è il punto di partenza per lavorare su dei soggetti che non sono inediti ma che sono dei ritorni.
Le tue installazioni appaiono come apparizioni. Sono architetture senza peso, ma fortemente radicate nel tempo e nella storia. Come si costruisce una presenza immateriale?
Il mio lavoro, prima ancora di essere architettura, è codice, linguaggio. La prima cosa di cui ho preso atto è che svuotare di materia un’architettura significa interagirci nel suo essere linguaggio. Ho iniziato a utilizzare la grammatica dell’architettura classica perché esprime in maniera sensibile, celebra i luoghi in una dimensione che riconosco vicina. Questa funzione celebrativa attraverso le forme mi aiuta a dichiarare che il paesaggio è spazio. Una presenza immateriale che si ricostruisce, prima ancora di essere architettura, è significato. L’opera è già ciò che significa, fa già parte del know-how dell’osservatore. La mia ricerca tratta i codici, insiste su degli archetipi, su delle figure retoriche perché non vuole essere astratta. L’architettura si costruisce dunque nel sentire delle persone e non nello spazio.

Che tipo di esperienza sensoriale o simbolica cerchi di attivare nello spettatore? Ti interessa generare contemplazione, interazione o disorientamento?
Quando lavoro e realizzo opere nello spazio pubblico, mi interessa che lo spettatore (qualsiasi spettatore, bambino, anziano, intellettuale ecc.) possa riconoscere il soggetto architettonico che si trova davanti. Non parto da una dimensione aliena, per me è importante realizzare figure che già appartengono al bagaglio di conoscenza delle persone. La dimensione simbolica è intrinseca nei soggetti che utilizzo, al di là dell’esperienza che poi generano. Quando riprendo i soggetti dal passato, cerco di comprenderli nel loro valore simbolico in relazione al resto dell’urbano. Mi interessa sicuramente generare interazione, che rappresenta l’inizio di un percorso di relazione stratificato. Desidero che le mie opere siano capaci di costruire relazioni lunghe, metamorfiche con le persone e con i luoghi, dei percorsi di trasformazione. Costruire un tempio significa mettersi all’interno di una relazione specifica con la città. Il distacco invece crea disorientamento, tensione frastagliata.
Pensi che l’arte pubblica contemporanea abbia ancora un ruolo nella ridefinizione dell’identità urbana?
Per rispondere a questa domanda dovremmo domandarci prima di tutto che cos’è l’arte pubblica. Nel momento in cui abbiamo perso la relazione con le cose ci siamo disorientati. L’arte può essere qualcosa di insignificante e di conseguenza non è nemmeno significante. Penso che sia importante capire se siamo ancora in grado di “segnare” la città attraverso elementi espressivi simbolici importanti legati a una dimensione più sacrale. Forse dovremmo iniziare a domandarci quali sono gli elementi che definiscono l’identità della nostra cultura. Costruendo un tempio, una chiesa, non un’opera d’arte pubblica. Il mio lavoro è fare architettura nel concetto in cui fare architettura è fare scultura.
Le tue opere sembrano dialogare con la rovina, ma non come nostalgia: piuttosto come rilettura attiva. Che idea hai del concetto di rovina nel contemporaneo? In che modo la tua pratica si confronta con la nozione di stratificazione temporale, soprattutto in contesti archeologici come quello barese?
La rovina è anzitutto uno stato, ed è uno stato che appartiene e riesce a muoversi trasversalmente in diverse dimensioni temporali, riesce a essere immaginario di un tempo che non è più, che al tempo stesso è, e che al tempo stesso mostra quasi la traiettoria di quello che sarà, nella sua dimensione più pura e naturale. Nel mio sguardo di scultore che tratta il tempo e lo spazio, la rovina è una sorta di esemplare completo, perché così come ogni cosa porta con sé sia la vita che la morte dell’elemento. La rovina è la manifestazione emblematica di questa condizione a cui siamo tutti soggetti. In ambito architettonico, è il centro di alcune forze che trovo estremamente interessanti, perché l’architettura è una forma antropica che spinge sempre verso l’altro e la rovina, viceversa, è una forza che riporta tutto verso il basso, è qualcosa di completo, sia concetto che vissuto reale. La presenza della rovina è una condizione che ricerco nelle mie opere. Lavorare con il passato, quindi con ciò che è già esistito, per me significa mettersi in relazione a una serie di codici intrinseci alle cose, praticare in maniera attiva l’eredità, cogliere e indagare con coscienza il significato stesso dell’eredità. Non è come lavorare con un archivio del passato ma con degli elementi simbolici. Decidere di lavorare attivamente e affrontare la memoria è quello che cerco di fare come artista contemporaneo con i codici del contemporaneo che sono diversi da quelli dell’antichità. Il mio lavoro non è la città nuova, non è l’oggetto, è la tensione che si crea tra l’oggetto e la città. C’è sicuramente una relazione con la rovina, ma cerco di confrontarmi con l’eredità degli archetipi antichi e capire come questi abitino la nostra società.

La tua installazione occuperà, nel capoluogo pugliese, uno spazio fortemente identitario ma anche a lungo dimenticato. Come pensi che possa trasformarsi in spazio pubblico attivo?
Il luogo dove sto realizzando la prossima opera è già uno spazio pubblico attivo. San Pietro a Bari è stato uno spazio estremamente vissuto della città tanto che tutte le strade che giungono in fondo alla città vecchia convergono proprio in quel fazzoletto di terra. Negli ultimi quarant’anni quel luogo non ha però partecipato alla vita cittadina, fino a essere completamente dimenticato e non considerato. C’è un concetto fondamentale da cui vorrei partire: Bari ha un enorme senso dello spazio pubblico. Vivendo a Bari negli ultimi quattro anni sono rimasto fortemente colpito dall’enorme senso che i baresi hanno dello spazio pubblico come luogo della collettività, tanto che a Bari Vecchia le case piccole portano le persone a vivere la strada come una parte stessa dell’abitato. La proprietà privata si limita al proprio giaciglio, mentre la città è la casa di tutti. Le persone vivono il lungomare come se fosse il terrazzo di casa propria, abitandolo e occupando il marciapiede con sedie portate da casa e con un arredo privato. Questa cosa, che in altre città sarebbe illegale, a Bari è un atto, l’atto di abitare. Non so come si trasformerà il luogo su cui sto lavorando, ma Bari mi ha mostrato di essere un grande esempio di civiltà pubblica e collettiva, e sono certo che la città sarà libera di vivere quello spazio come tutto il resto. Ho molta fiducia e stima nei confronti della collettività barese e sono felice di lavorare a un progetto pubblico per questa città e di poterlo poi lasciare nelle loro mani.

C’è una continuità tra il progetto di Siponto e quello di Bari? In che modo questo nuovo lavoro evolve il tuo linguaggio?
Il progetto di Siponto ha aperto la mia ricerca al campo archeologico, al lavoro con il patrimonio storico e archeologico e il progetto a Bari, che avviene a dieci anni di distanza, continua quel metodo che parte dall’antico per costruire il contemporaneo. È un’azione di sovrascrittura del patrimonio storico attraverso una rilettura contemporanea. A Bari proseguo questa pratica di estremo valore in un altro contesto che è completamente diverso da quello di Siponto perché si tratta di un sito archeologico molto stratificato e molto antico al centro di una città molto importante dove anche le condizioni sono differenti. Bari sta vivendo un momento di forte trasformazione confrontandosi con la propria identità, mettendola in discussione. La mia opera vive a confronto con questo processo e porta con sé tutto il bagaglio di esperienze che ho costruito nel mio percorso rispetto all’arte pubblica e al rapporto con la città.
Edoardo Tresoldi. San Pietro
Area Archeologica di San Pietro, Bari
L’installazione artistica rientra nel progetto di valorizzazione dell’Area Archeologica di San Pietro e del Museo archeologico di Santa Scolastica, promosso dal Ministero della Cultura e coordinato dal Segretariato regionale del MiC per la Puglia, con il sostegno dei fondi europei.
Modello dell’opera di San Pietro a Pietro
Progettazione e realizzazione: Fabio Ditroia, Armando La Scala, Angelo Lavanga, Federico Marchetti, Matteo Marchi, Andrea Romanelli, Edoardo Tresoldi
Allestimento: Marco Boselli, Emanuele De Nigris, Marco De Michele, Pierluigi Bosna, Gaetano Pullano, Edoardo Tresoldi
Produzione: Marco Biella, Jacopo Costa, Francesca Fedeli, Antonio Oriente
Illuminazione: Alessandro Disingrini, Vito Frangione, Daniele Lorusso, Lucidiscena, Edoardo Tresoldi, Sirio Vanelli



