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CRITICALL | #CRITICALL

Con #critiCALL torniamo ad affilare le armi del dialogo intessuto dai fitti scambi della scorsa primavera/estate con #acasatuttibene e #volver. Dopo artisti e galleristi, senza attribuire gerarchie o classifiche, la chiamata è rivolta ora ad una selezione di critici e curatori/curatrici che, in questo preciso momento storico, si trovano a dover rispondere con maggiore consapevolezza sul loro ruolo all’interno di quello che è da tutti percepito come un sistema ma che di fatto fa parte di una struttura ancora più complessa e articolata: il mondo della cultura in perenne moto e rivoluzione. critiCALL è la nostra chiamata a chi vuole stare dentro a quel mondo sapendo che “chi affronta qualcosa di enigmatico come l’arte non può permettersi di essere modesto. Ma neanche può permettersi di non essere umile” (Lea Vergine, L’arte non è faccenda di persone perbene, Rizzoli, 2016).

Intervista a FRANCESCA GUERISOLI di Francesca Di Giorgio

Quando Francesca Guerisoli ha iniziato a definire i suoi campi di interesse e ricerca principali la performance art, in Italia, non godeva di sicuro del seguito e dell’attenzione che ha oggi, così come alcune tematiche tangenti o parallele legate al femminismo erano ancora lontane dalle luci della ribalta mediatica. Entrambe terreno di riflessione fondamentale, anche alla luce della situazione contingente, hanno ancora davanti tanta strada da fare per essere riconosciute, a livello teorico e pratico, o almeno lette in prospettiva storica e contemporanea. Anche per questo il dialogo che state per leggere ruota attorno a questi temi così presenti e dibattuti, frutto di un lungo dialogo a distanza, in attesa di un nuovo progetto d’arte pubblica che riporterà Francesca Guerisoli nella sua terra, a Genova, il prossimo luglio.

Introducendo l’inedita componente situation specific alla Fondazione Pietro e Alberto Rossini, dove tutt’ora hai l’incarico di direttrice artistica, è come se avessi messo un punto al tuo percorso… Il rapporto con Fondazione Pietro e Alberto Rossini è nato da un incontro fortuito. Avevo vinto un bando della Provincia di Monza e della Brianza per un incarico di consulenza per la creazione di una rete museale, “Monza Brianza Musei”, e avevo effettuato sopralluoghi in tutte le singole realtà del territorio, tra musei, raccolte e collezioni private esposte al pubblico. Parliamo del 2010 e 2011, avevo alle spalle studi curatoriali e storico critici, con collaborazioni varie con il Centro di Documentazione di Museologia e Museografia di ICOM, attività di docenza e di scrittura critica e giornalistica, oltre a qualche piccola mostra curata in spazi no-profit e gallerie. La collezione Rossini, disseminata nel parco di scultura di proprietà di famiglia, mi ha affascinata al primo sguardo per la densità di segni che la connotano: un parco museo dove ogni opera è la storia di un particolare incontro tra il collezionista Alberto e gli artisti. Qui, nomi del calibro di César, Erik Dietman, Pietro Consagra e James Wines hanno prodotto tracce permanenti site-specific; altri, tra cui Fausto Melotti, Bruno Munari, Giulio Turcato, Jean Tinguely sono stati acquisiti successivamente per il parco. Sono oltre sessanta le opere esposte. In un luogo così pregno di segni materiali, oggettuali, dove marmo e bronzo la fanno da padrone, la mia idea in comune accordo con Matteo, erede di Alberto, è stata quella di agire nello spazio fisico e relazionale attraverso performance. Tengo a sottolineare che come curatrice non prediligo un mezzo espressivo: la scelta cambia a seconda del contesto, si determina con esso, con la committenza, a seconda della relazione che si intende instaurare con il pubblico. È sempre dettata da un balletto di negoziazioni su vari livelli, non da ultimo quello economico.

Cesare Viel, Facciamo fluire via le nostre frasi, 2011. Performance. Courtesy: l’artista e Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Frame da video di Daniele Pellizzoni

Qui in Fondazione Rossini la linea seguita, a dieci anni dalla prima performance che abbiamo prodotto di Cesare Viel, Facciamo fluire via le nostre frasi, possiamo dire sia stata sensata. E siamo in Brianza, in un territorio in cui la performance non era certo il mezzo piùutilizzato; grazie agli artisti che si sono succeduti negli anni, il nostro pubblico ha acquisito familiarità con questo mezzo e ce lo conferma la performance di Cesare Pietroiusti, l’ultima in ordine di tempo, che nonostante il Covid-19 ha visto la partecipazione di un centinaio di persone. Per concludere, credo che in particolari contesti come questo, la performance possa essere un mezzo in grado più di altri di creare una relazione intima, familiare, e di toccare nel vivo alcune corde che stanno nel nostro profondo. Alcuni artisti hanno lavorato sulle dimensioni immateriali del luogo (storie, memorie, desideri, ne sono esempi i lavori di Elena Bellantoni e Chiara Mu), altri nella direzione del site-specific considerando lo spazio nelle sue dimensioni fisiche (tra gli ultimi, Silvia Giambrone e Filippo Berta). In ogni caso, ogni performance si è servita del luogo, lo ha “usato” profittevolmente restituendone letture sempre diverse che arricchiscono la nostra esperienza del luogo e dell’arte, oltre che di noi stessi.

Elena Bellantoni, Effetto Butterfly, 2017. Performance nella mostra personale I give you my word, I give you my world. Courtesy: l’artista e Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Foto di Francesco Colzani

Tornando, in parte, alla domanda iniziale, nel nostro Paese, visto il grande interesse suscitato dalle arti performative (in alcuni casi tramutate in simulacro), abbiamo gli strumenti giusti per affrontarle in modo critico? A che punto siamo a livello teorico-scientifico in questo ambito? In tanti recentemente si sono avvicinati alla performance art. Negli ultimi anni sono stati pubblicati diversi saggi interessanti da curatori e critici d’arte, nonché da artisti che la praticano da tempo. Se penso alle case editrici italiane che più stanno investendo su questo tema, Postmedia Books ha forse il catalogo più ricco (basti pensare che tra gli ultimi testi pubblicati figurano Slittamenti della performance di Teresa Macrì e Performance come metodologia di Jacopo Miliani). A livello accademico credo che gli studi soffrano un po’ i limiti del nostro sistema; è difficile poter realizzare ricerche accademiche sul contemporaneo in generale, non solo sulla performance art, perché nelle Facoltà di Lettere e Filosofia ci si occupa di storia dell’arte, non dell’oggi. Per cui buona parte della ricerca è demandata all’iniziativa individuale extra accademica o ce ne occupiamo da ambiti disciplinari tangenti (sociologia, comunicazione, mercato). E non è certo facile portare avanti progetti che richiedono anni della propria vita… chi li finanzia? Penso dunque che se dal punto di vista della pratica della pratica del performativo e delle ricerche indipendenti gli studi non mancano, di contro siamo ancora carenti sul fronte degli studi accademici strutturati. Credo inoltre che sia molto utile un confronto critico serrato con l’ambito delle performing arts. L’ultima Biennale di Venezia (2019) ha attribuito il Leone d’Oro al Padiglione Lituania per Sun&Sea (Marina), performance che ha generato un certo dibattito critico tra i sostenitori del progetto e coloro che ne hanno dato una lettura negativa. Quel caso destò subito la mia attenzione: non appena la vidi, durante l’inaugurazione, sentii la necessità di analizzarla ponendomi in dialogo con un critico teatrale, Diego Vincenti, che coinvolsi in un’analisi a due teste che pubblicammo pochi giorni dopo su “Alfabeta2”. Quello è stato per noi un esperimento che ci ha arricchito entrambi e speriamo di poterlo ripetere presto. Io sono per “l’unione fa la forza”!

Filippo Berta, Livello 0, 2019. Performance, Stampa Diasec. Courtesy: Prometeogallery di Ida Pisani

Maria Grazia Chiuri, direttrice artistica di Dior, ha invitato l’artista Silvia Giambrone a presentare una nuova serie di opere per la sfilata donna autunno/inverno 2021, a Versailles. Non è la prima volta che la maison lavora con artisti contemporanei italiani: Tomaso Binga, prima, Claire Fontaine e Marinella Senatore, poi. Come leggi queste collaborazioni? Le leggo come una buona opportunità sia per le artiste coinvolte sia per la casa di moda. Ognuna delle parti trae un vantaggio da questa collaborazione. Trovo molto scenografici e di impatto comunicativo tutti i set delle sfilate che Dior ha realizzato con le artiste. D’altronde, si tratta di ottime artiste che vantano un percorso di rilievo anche sui temi del femminismo. Al di là del fatto che si tratti di marketing, credo che la lotta per l’affermazione dei diritti umani delle donne passi per diversi canali. Molti messaggi che parlano di sorellanza e diritti, così come molte pratiche, lavorano e si diffondono sottotraccia, e per questo anche ambiti come la moda possono farsi parte di tale processo di emancipazione. In generale, non vedo negativamente, dunque, le collaborazioni di case di questo tipo, che coinvolgono artiste che con il loro lavoro veicolano messaggi e immaginari che entrano poi, più o meno consapevolmente, nelle vite non solo degli affezionati dell’arte contemporanea. È chiaro che il rischio di tanti progetti è che slogan, immagini e messaggi possano essere svuotati di senso e assunti unicamente nella loro dimensione formale, scenografie decorative. Il marketing non va confuso con l’attivismo e non basta dichiararsi femministi per esserlo. A noi il dovere di contestualizzare e analizzare ciò che ci viene comunicato. Teniamo, poi, sempre in mente che ci sono numerosi esempi di progetti lontani dal marketing che agiscono in un’ottica di empowerment e nel solco delle rivendicazioni dei diritti umani delle donne, sia a livello storico, basti pensare a Womanhouse (1972) con Miriam Schapiro e Judy Chicago – altra artista che ha lavorato recentemente con Dior –, sia oggi, come ad esempio il progetto Canto Libero di Marzia Migliora, curato da Francesca Comisso di a.titolo e commissionato da Telefono Rosa Torino, così come i lavori di tante artiste che arrivano persino a rischiare la propria vita per l’attività tra arte e attivismo che portano avanti in Paesi come il Messico.

Silvia Giambrone, Atto unico per mosche, 2018. Performance. Courtesy: l’artista e Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Foto di Francesca Guerisoli

Tematiche molto vicine nella tua ricerca da storica, curatrice e docente. Nel 2012 hai portato in Italia Zapatos Rojos (Scarpe Rosse), un progetto d’arte pubblica dell’artista messicana Elina Chauvet, su cui hai scritto anche due libri per Postmedia Books. Prima di allora il termine femminicidio non era argomento di dibattito quotidiano come lo è oggi… Sì, l’uso del termine non era popolare. Si tratta degli anni in cui diverse trasmissioni tv, ad esempio, parlavano dei femminicidi in chiave sensazionalistica, spettacolarizzando i casi. In Italia il dibattito sul temine femminicidio è arrivato tardi, proprio intorno al 2012, mentre in Stati Uniti e Messico era già dibattuto nei diversi ambienti da vent’anni, per identificare l’uccisione della “donna in quanto donna”: nel 1992, con il libro di Diana Russell e Jill Radford, Femicide: The Politics of Woman Killing, “femicide” è identificato come “l’assassinio misogino di donne per il semplice fatto di essere donne”, dunque indica violenze di tipo misogino e sessista; nel 1997, Marcela Lagarde, deputata, sociologa e femminista messicana, utilizza il termine “feminicidio” per definire quanto stava accadendo a Ciudad Juárez. Laddove “femicide” indica la morte della donna in quanto donna a causa di comportamenti violenti, “feminicidio” comprende ogni tipo di comportamento misogino tale da provocare l’annientamento fisico o psicologico della personalità femminile. In Italia, il termine è arrivato con due decenni di ritardo e, come dice la giurista Barbara Spinelli nel saggio Femminicidio (Franco Angeli, 2008), nonostante numerose realtà femministe lo avessero adottato, non ci si era curati di ricostruire la storia del vocabolo, le sue origini, e il dibattito che ne ha determinato l’affermazione a livello globale. Ancora dieci anni fa, l’uso di “femminicidio” era spesso oggetto di dibattito televisivo tra opinionisti che affermavano non fosse necessario, che suonasse come cacofonico e brutto. Recentemente Barbara Mapelli, pedagogista delle differenze, durante un corso di aggiornamento dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia intitolato “Il rispetto delle differenze di genere. L’uso delle parole corrette e l’aggravante della recidiva”, ha detto una cosa che mi sono segnata: “Non esistono parole brutte, esistono parole a cui non siamo abituati”. Infine, la necessità dell’uso del termine è stata espressa bene anche dall’ambito giuridico, perché un termine specifico identifica una categoria specifica di reato, ne riconosce la gravità e definisce pene mirate come deterrente.

Teresa Margolles, Sobre la sangre, 2017. Courtesy: l’artista e Tenuta dello Scompiglio. Foto Rafael Burillo. Mostra personale a cura di Francesca Guerisoli e Angel Moya Garcia

Quello legato al linguaggio che nomina la realtà è un altro tema molto sentito oggi. L’arte in questo è sempre anticipatrice… Mi dici la tua su Direttore/Direttrice, Ministro/Ministra… Perché è fondamentale parlarne? Credo sia fondamentale parlarne per acquisire consapevolezza su come stanno le cose per poterle migliorare. Non è certo il mio ambito quello dello studio il linguaggio; ciò che faccio è informarmi, leggere e interrogarmi su questo argomento come cittadina, prima ancora che come professionista dell’arte. Come curatrice mi interessa molto il tema perché una peculiare capacità dell’arte è quella di disvelamento. Ci mostra ciò che abbiamo costantemente sotto i nostri occhi ma che spesso non vediamo. Ci mostra le cose da punti di vista diversi e inaspettati. La mancanza dell’uso dei femminili per le professioni alte, mentre sono sempre stati presenti per quelle medie e basse, evidenzia il problema palese della disparità di genere. Basti pensare al caso di “professoressa”, in uso nella scuola media e superiore, ma quante in università si definiscono “professoressa associata” o “professoressa ordinaria”? Eppure il femminile esiste! Oggi più voci hanno sollevato la necessità di rileggere i segni disseminati nelle città introducendo una toponomastica che comprenda anche il femminile, integrando le strade e piazze con i nomi di tante donne escluse perché donne. L’arte, come spesso accade, anticipa, precorre i tempi: artiste come Suzanne Lacy, ad esempio, se ne occupano da decenni. Basti pensare al progetto Full Circle (1992-1993) realizzato a Chicago insieme a un gruppo di cittadine nell’ambito di “Culture in Action”, curata da Mary Jane Jacobs.

Flavio Favelli, Container Lenin, 2016. Performance. Courtesy: l’artista e Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Foto di Francesca Guerisoli

Forse avrebbe dovuto essere la prima domanda ma… Come si fa a continuare a fare arte pubblica, relazionale, performativa in assenza e con i limiti imposti dall’emergenza sul pubblico? Una domanda che abbiamo posto in un recente numero di Espoarte ad una selezione di performance artist e che ora giro a te: come si fanno a pensare progetti in questa direzione all’epoca del distanziamento? Cosa hai raccolto dagli artisti in questo periodo e come hai reagito tu da critica/curatrice? Questa domanda me la pongo spesso, così come se la pongono artisti e critici nelle cui ricerche e pratiche il performativo è parte fondante. È una bella gatta da pelare! Al momento, alcuni musei e artisti hanno avanzato risposte, più o meno riuscite. Nico Vascellari con il tour Ionoi mi pare un bell’esempio in corso proprio in questi giorni. Come ho reagito da critica/curatrice? Stimolando gli artisti con cui lavoro a pensare a dispositivi relazionali in conformità con le norme dettate dall’emergenza. L’ultima esperienza diretta che mi ha coinvolta come curatrice è stata un’azione a Cernusco sul Naviglio, alle porte di Milano, a fine settembre. Invitata a tenere un talk in un festival sul tema “Trasmissioni”, ho invitato tra gli altri l’artista Chiara Mu, che basa tutto il suo lavoro sulla dinamica 1:1, a realizzare una performance interrogandosi proprio sulle potenzialità e i limiti di fare performance in questo frangente. Chiara ha ideato Esercizio di trasmissione, azione che ha posto a me e all’organizzazione alcune questioni di ordine legale e etico, perché il progetto prevedeva l’impiego di mascherine manipolate dall’artista, che poi il pubblico avrebbe potuto decidere o meno di indossare per prendere parte all’esperienza. Dopo aver messo in pratica le dovute cautele per scongiurare potenziali problemi, abbiamo deciso di assumerci il rischio dell’azione. E, come noi, il pubblico, che si è trovato immerso in una performance inaspettata (non era stata volutamene annunciata) e ha accettato di mettersi in gioco indossando le mascherine fornite da Chiara. Il racconto del progetto si trova sul sito dell’artista (http://chiaramu.com/it/); qui mi preme far emergere come il limite della mascherina, unito all’impossibilità di toccare il corpo dell’altro/a e alla distanza necessaria per legge, sia diventato la chiave del lavoro. Chiara ha cambiato di segno a quel limite investendolo di senso e facendone il dispositivo principe dell’esperienza.

Chiara Mu, Exercise in Transmission / Esercizio di Trasmissione, 2020. Performance. Courtesy: l’artista e Habitat / Scenari Possibili

Altre due esperienze dirette di cui posso parlarti in merito a come ho reagito da critica/curatrice sono la produzione del video di Stefano Cagol, Reagente, e la performance di Cesare Pietroiusti Consegna all’artista una tua banconota (minimo 50 Euro) ed egli la trasformerà con acido solforico e te la restituirà, corredata di certificato, entrambe per Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Nella settimana che comprende il 13 maggio, ogni anno, per commemorare di Alberto Rossini, dedichiamo una mostra a un artista che ha collaborato con il collezionista. Con Matteo Rossini avevamo deciso di non fare una mostra online, che sarebbe stata per noi come un ripiego, bensì di produrre un video, sostenendo, così, la ricerca artistica. Ho dunque coinvolto Stefano Cagol, artista che padroneggia le tecniche di produzione video e avrebbe potuto lavorare in autonomia sull’interpretazione della figura di Alberto. Ne è nata un’opera di videoarte ricca di suggestioni emotive, dinamica, astratta, che abbiamo diffuso online in HD per un mese, fruibile direttamente sul proprio schermo di casa. Il lavoro non terminerà qui: l’idea dell’artista è infatti quella di rimodulare l’azione performativa realizzata per il video e riproporla prossimamente come performance in Fondazione. Nel caso di Cesare Pietroiusti, la collaborazione nasce nel 2019, quando avevamo stabilito una nuova produzione dell’artista sul tema del denaro per settembre 2020. L’incertezza nella quale ci ha buttato il Covid-19 durante il primo lockdown ci ha fatto saltare i piani solo parzialmente. Non potendo addossarci il rischio di una nuova produzione né noi, né l’artista, abbiamo pensato di riproporre un lavoro non inedito. D’accordo con Cesare abbiamo deciso per Consegna all’artista una tua banconota (minimo 50 Euro) ed egli la trasformerà con acido solforico e te la restituirà, corredata di certificato. La performance è avvenuta il 12 settembre, all’interno del padiglione James Wines del parco Rossini, con ingressi contingentati e pubblico distanziato. Il fatto che un numero limitato di visitatori alla volta potesse stare nel padiglione ha determinato che vi fosse un’attenzione molto alta, che ognuno potesse interagire direttamente con l’artista rivolgendogli domande, in una dimensione raccolta. Siamo molto soddisfatti di come si è svolta la performance e credo che i limiti di presenza del pubblico e l’uso delle mascherine, anche in questo caso, non abbiano di per sé costituito un intralcio ma, anzi, abbiano rafforzato il lavoro dell’artista.

Cesare Pietroiusti, Consegna all’artista una tua banconota (minimo 50 Euro) ed egli la trasformerà con acido solforico e te la restituirà, corredata di un certificato, 2020. Courtesy: l’artista e Fondazione Pietro e Alberto Rossini. Foto di Francesca Guerisoli

Francesca Guerisoli, Ph.D, si occupa di storia e critica d’arte contemporanea e di museologia. È docente presso l’Università di Milano-Bicocca, giornalista per il Sole 24 Ore e direttrice artistica di Fondazione Pietro e Alberto Rossini, per cui cura il programma espositivo incentrato su nuove produzioni. Tra le sue pubblicazioni: La città attraente. Luoghi urbani e arte contemporanea (Egea, 2014), Ni una mas. Arte e attivismo contro il femminicidio (Postmedia Books, 2016), I luoghi dell’arte nello spazio urbano (Enciclopedia Sociologica dei Luoghi, 2020). I suoi progetti curatoriali in corso comprendono un intervento del collettivo di teatro sperimentale Circolo Bergman e una nuova installazione performativa di Leone Contini, entrambi per FPAR, oltre al progetto collettivo Another World Now, co-curato con Anna Daneri e Carlotta Pezzolo, che interesserà strade e piazze di Genova nel luglio prossimo. https://www.unimib.it/francesca-guerisoli

Leggi anche le altre puntate di critiCALL: www.espoarte.net/tag/criticall/

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