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Intervista a SILVIA PETRONICI di Francesca Di Giorgio

A piedi nudi ballano i santi ha la forma di un libro ma in realtà è prima di tutto un’esperienza nel tempo e nello spazio… Il volume è uscito agli inizi di quest’anno per Oligo editore ma, solo dopo aver incontrato la sua autrice di persona, ne è nata un’intervista dalla lunga gestazione e che attraversa la teoria quanto la pratica, mai disgiunte quando si parla di curatele nell’ambito dell’arte pubblica condotta con pratiche artistiche site specific. Quest’intervista all’autrice Silvia Petronici è quindi un ulteriore approccio propedeutico per  comprendere la natura, come crescono e sviluppano nel tempo certe scelte professionali, e di vita, fondate sul valore sociale dell’arte e sull’indistinzione tra etica ed estetica…

Silvia Petronici

In quale momento hai pensato di restituire in forma scritta il tuo approccio all’arte come filosofa, prima e curatrice, poi?
Questo libro è maturato in seno ad una ricerca che ha orientato l’intero percorso della mia attività professionale e da essa ha tratto conclusioni di tipo teorico e pratico fino al punto di dedurre un metodo, a mio parere, utile per orientare la pratica curatoriale nell’ambito dell’arte pubblica condotta con pratiche artistiche site specific.
Dunque, ad un punto, che ho ritenuto maturo, di questo percorso, dopo circa una decade dedicata interamente a progetti creati nella direzione di questa ricerca, la scrittura del libro si è proposta di fissare alcune delle principali acquisizioni, sollevare e condividere una discussione sui temi e le criticità di questo approccio all’arte e alla curatela.
La filosofia, nel mio lavoro, è sicuramente la prospettiva dalla quale ho osservato e ho vissuto ciò di cui parlo nel libro. Il processo di deduzione di un metodo a partire dall’esperienza ha chiamato in causa acquisizioni e riflessioni provenienti dai miei studi filosofici e dal loro progressivo divenire strumenti per la prassi. La pratica curatoriale affianca la pratica artistica in particolare nella sua dimensione euristica di approccio alla conoscenza del mondo, così come della qualità delle relazioni in esso tra gli esseri e le cose e di esplorazione tanto poetica quanto efficace dei territori della vita.
La mia ricerca come curatore nell’arte contemporanea affonda le sue radici nel cosiddetto argomento del gavagai, utilizzato dal filosofo americano Quine nell’ambito della dimostrazione della sua “tesi dell’indeterminatezza della traduzione radicale” (1). Ci sono dei comportamenti che sono palesemente associati al linguaggio e dalla loro osservazione il linguista sul campo deduce le sue traduzioni. Ora, data questa osservazione dei comportamenti linguistici e del contesto vitale di una certa tribù di nativi (non importa bene chi sono realmente, nel caso di questo argomento di Quine si tratta solo di un esempio di linguistica pragmatica) il gavagai sembra essere un coniglio bianco o qualcosa cui un coniglio bianco in qualche modo afferisce. La conclusione di questa argomentazione è che non può esistere una traduzione radicale nella quale ogni significato possa essere semplicemente trasposto dal termine di un linguaggio a quello di un altro e questo perché il linguaggio non è solo un sistema coerente di regole formali ma è anche un comportamento che in quanto tale scaturisce da una pratica di vita difficilmente riproducibile o verbalizzabile al di là dei suoi confini sociali e culturali.
All’argomento del gavagai (e, in generale, alla pragmatica in ambito linguistico e di filosofia del linguaggio) si ispira tutto il mio percorso di ricerca come curatore, fatto, appunto, di prossimità con gli artisti, di confidenza e, persino, di intimità, in alcuni casi. Vicinanza da cui ho ritenuto di poter derivare una chiave interpretativa – costantemente negoziata e riconcepita in base alle nuove circostanze della relazione – per tradurre le loro opere accedendo piano piano al mondo che le ha generate, ai suoi presupposti di valore e scopo, alle sue circostanze mitopoietiche, alle sue rivoluzioni.
Il riferimento a questo argomento filosofico, infatti, mi è servito negli anni a sostenere un’idea dell’arte in cui non ci sia posto per impostazioni disciplinari rigide e a sostenere che nella lettura e nell’interpretazione del fenomeno artistico è fondamentale l’elemento indeterminato e aperto rappresentato dalla vita e dalla sua pratica di cui l’arte si nutre al di là e oltre l’elaborazione formale. Insomma, non c’è un manuale di traduzione dall’immagine alla parola, così come dall’opera d’arte al linguaggio critico, ma molti e vari sono i punti di vista via via utili a stabilire il passaggio e ad ampliare il volume della comunicazione tra l’autore e il suo contesto, l’autore e il fruitore della sua opera. Il gavagai è sempre un balzo più in là persino della più acuta e sottile interpretazione (intesa la traduzione, in questo ambito della filosofia del linguaggio, come un’inevitabile interpretazione).
Mi sono molto interrogata sullo stile da cercare per consentire a questo libro di esprimere al meglio i suoi contenuti e la formula scelta, proprio nel senso dell’argomento del gavagai, è un miscuglio di biografia, sentimenti personali, esperienze narrate a partire dalle loro specifiche circostanze, ma anche regole temporanee, principi regolatori e sponde teoriche. E tutto per cercare di ricreare, o forse di evocare, per quanto possibile, l’ambiente vivo (quindi vario, imprevedibile e dinamico) di ogni singolo progetto, ognuno con il suo spirito, il suo campo di forze, tutte le sue persone, le storie, il tempo e i tempi del suo luogo. Perciò, nel mio modo di intendere questa professione, filosofia e curatela si somigliano e spesso si sovrappongono come elementi di una disciplina pratica le cui sponde teoriche segnano i confini di una visione generale che poi solo nella pratica puntuale, specifica, situata si confermano e prendono senso, dando forma a segni e sistemi di segni, condensazioni semantiche, nuove relazioni e gesti poetici, opere-testi-mostra.

Cover (fronte e retro) del volume “A piedi nudi ballano i santi” di Silvia Petronici, Oligo Editore, 2019

Il titolo che hai scelto è in bilico tra il mondo terreno (i piedi nudi degli uomini) e l’ultraterreno (i santi). Ma chi sono in realtà “santi” del tuo saggio?
I santi sono umani. E lo sono in una maniera profonda. Il contatto con il non umano è garantito dal corpo, dalla sua intelligenza propria, dalla sua sensibilità; è un fenomeno dell’esperienza. Questa riflessione sulla figura dei santi mi ha fornito una chiave per sintetizzare la figura degli artisti. La loro capacità, profondamente umana, di entrare in contatto, di affidarsi all’ascolto. E infine, sostenere nella pratica la visione di quella bellezza rendendola disponibile con semplicità.
Scelgo di usare il termine “santi” per parlare degli artisti, in particolare, ma anche dei curatori al loro fianco, perché insisto, nel corso di tutto il libro, sul valore sociale dell’arte così concepita, sull’indistinzione intrinseca in essa tra etica ed estetica, nella prassi come nell’impianto teorico dei lavori che ne derivano.
Nella parola “santi” c’è la dimensione del dono propria della pratica artistica in questi ambiti di ricerca, così come c’è il senso di una connessione radicale, “a piedi nudi”, con la terra, il luogo del senso, la ragione dell’operare nella direzione del cambiamento. Ecologia, ecosofia ed un’estrema sensibilità per i temi del rispetto degli equilibri e del patto di alleanza con il resto dei viventi: sono elementi importanti che associo all’uso di questo termine nel titolo del libro.
I “santi” sono prima di tutto gli artisti.
Ma i santi sono anche tutti coloro che sanno danzare a piedi nudi. Operare senza mezzi che, da un lato, significa senza troppi filtri, dall’altro, senza un adeguato sostegno oltre la stupefacente fede nel valore di ciò che si fa. Entrambi, infatti, artisti e curatori, nel discorso sostenuto dal mio libro, sono figure da chiarire, non è chiaro il loro valore nell’ottica generale del bene comune come non è chiaro il loro profilo professionale. La metafora dei santi mi è sembrata, perciò, sufficientemente forte per illuminare la portata di quel valore e identificare il dislivello nel rapporto tra ciò che queste figure professionali sono in grado di portare e ciò che ricevono in cambio.

A piedi nudi ballano i santi

Le pratiche site and audience specific, l’arte pubblica e i progetti socialmente impegnati si basano su un allontanamento, più o meno progressivo, dall’oggetto. Puoi raccontarci cosa succede in assenza di produzione, quando prevale “il senso della relazione e dell’incontro” per usare parole tue? Come e di cosa vive, nella prassi, l’arte relazionale?
In questo ambito di ricerca, quello, cioè, dell’arte pubblica che deriva da pratiche artistiche site and audience specific e che si muove nella direzione di progetti basati su un forte interesse per la dimensione e l’utilità sociale dell’arte, gli oggetti ci sono ma esprimono, insieme e dentro l’intero meccanismo dell’opera, il valore dispositivo di questo approccio all’arte. La produzione materiale (data per intesa quella simbolica, ovviamente) di un’opera compresa in un oggetto di forma compiuta e consegnato alla storia (conservazione, storicizzazione, mercato) è superata dalla produzione di un sistema di dispositivi di attivazione che generano il processo partecipato o relazionale del lavoro. Per rispondere alla domanda, dunque, la vita dell’arte così intesa è nell’ambiente delle relazioni che è in grado di generare e che, infine, ne sono il contenuto entro contenitori formali privi di un valore intrinseco oltre la loro funzione dispositiva.
Le relazioni, quindi, le connessioni e le riconnessioni, l’aumento della densità e della capacità narrativa delle reti che legano persone, storie, territori: questi sono gli spazi propri delle opere relazionali, spazi intesi come forma dell’opera e suo proprio luogo. Facendo un esempio, in un intervento artistico community based, concepito, cioè, a partire da una pratica artistica che include nella ricerca che conduce all’opera, nella sua ideazione e progettazione e, infine nella sua forma finale, la comunità che abita il luogo nel quale l’opera accade, in questo specifico tipo di intervento artistico il risultato e, quindi, il prodotto del lavoro dell’artista, è il funzionamento del dispositivo relazionale di cui tale lavoro si compone. In sintesi, il prodotto sono le effettive relazioni generate. A questo punto risulta evidente la difficoltà dell’identificazione di tale prodotto che, per sua stessa natura, esubera dai confini fisici di quello che siamo abituati a considerare l’opera, l’oggetto fisico in sé compiuto (la scultura o il quadro) e si disperde fino a comprendere ogni singolo e piccolissimo oggetto (di valore quasi esclusivamente sentimentale) che, in modi e tempi e forme differenti, ha composto il dispositivo di attivazione creato dall’artista per ottenere la sua opera.
Se poi, la domanda riguarda le risorse economiche che garantiscono la vita di questa pratica dell’arte (e quindi la sostenibilità dell’impegno professionale di artisti e curatori), l’argomento si fa complesso e il tono passa dall’entusiasmo alla pena.
I processi virtuosi nell’ambito dei legami comunitari di persone e luoghi che questa pratica attiva necessitano di tempo, attenzione e competenza. Elementi, questi, da inquadrare in un disegno di sostegno politico oltre che amministrativo e finanziario. L’arte pubblica così concepita ha bisogno del sostegno istituzionale da cui derivi un riconoscimento non marginale e duraturo da parte di chi è chiamato a trovare modi sempre migliori per favorire il bene comune, difendere il patrimonio materiale e immateriale della comunità e contribuire al suo sviluppo armonico nei contesti vitali.
L’arte relazionale vive nella dinamica generosa dello scambio attivato dal dono e dall’ascolto, vita questa che per esprimersi ha bisogno di un ambiente in grado di garantire con economie chiare la ricerca. Di quanto nel sistema dell’arte italiano siamo giunti a comprendere nel merito e di quanto ancora resta da chiarire si parla in più occasioni nel libro. La conclusione, dunque, non può che essere una petizione e una speranza.

Parli di una relazione “speciale” tra artista e curatore anche se, in generale, nel mondo dell’arte è, per lo più, considerata in maniera piuttosto conflittuale…
Il patto di fiducia tra l’artista e il curatore sancisce un incontro, un auspicato reciproco innamoramento, un consorzio di talenti spinto a lavorare verso obiettivi condivisi da passioni condivise.
Artisti e curatori si studiano reciprocamente e si scelgono. Si tratta di affinità elettive, di comprensione dei percorsi di ricerca o semplicemente di qualcosa che riguarda la sfera dei sentimenti, la passione per l’arte, per un certo modo di considerarne l’utilità e gli effetti sul mondo che condividiamo, un certo uso del linguaggio e delle forme ma anche la gentilezza, il caffè buono, la capacità di ascolto.
Ho costruito l’intero percorso del mio lavoro sul valore fondamentale del rapporto tra artista e curatore, valore che considero al centro di un processo da cui deriva il valore stesso dell’opera, la sua efficacia relazionale e le sue potenzialità conoscitive.
La relazione artista-curatore sintetizza la relazione dell’artista con il mondo e consente ad entrambi di ottenere una posizione privilegiata per osservare un’altra relazione, quella dell’opera con i suoi referenti, i luoghi e le comunità cui si rivolge e che include nella definizione della sua stessa forma.
Riconoscere il valore sociale dell’arte, la funzione degli artisti e il ruolo del curatore nel processo che la pratica artistica comporta sono obiettivi lontani dall’essere raggiunti, come ho già detto rispondendo alla precedente domanda. Ciò che si è conquistato sono solo posizioni derivate e parassitarie rispetto ad un sistema che fatica a riconoscere i talenti. La strada è ancora da fare.
La professione del curatore da Harald Szeemann ad oggi si è sempre più definita ma è sempre meno compresa e comprensibile, chiara e semplice. Al contrario è oggetto di grandi fraintendimenti, misconosciuta o ipervalutata a seconda dei casi.
Questo libro prende una posizione su tutta questa querelle e risponde alle domande che essa pone. Certo non si tratta di risposte univoche ma comunque di un atteggiamento propenso a rispondere.
Progetto dopo progetto, ho lavorato, contemporaneamente, alla progressiva elaborazione di un metodo, alla definizione della figura professionale del curatore in questo ambito di intervento e ad un sempre maggiore chiarimento (nel mio percorso di ricerca prima di tutto) dei termini formali ma, anche, sentimentali della fondamentale (e, spesso, fondante) relazione artista-curatore. Serviva, dunque, provare a descrivere un metodo di approccio a questo modo di concepire e produrre opere d’arte entrando nel merito delle dinamiche che le determinano a partire dai presupposti di questa relazione e del suo valore intrinseco nello sviluppo di pratiche fondate sull’osservazione, l’ascolto, l’empatia e l’azione conseguente.
La difficoltà o il conflitto di cui mi parli direi che possa farsi riferire, prima che alla distanza professionale dei rispettivi ruoli, ad una scelta precisa che riguarda il mantenimento di tale distanza in funzione difensiva. Gli artisti pongono questioni che scuotono, scuotono gli schemi e le certezze, spostano i confini insieme ai significati e ridisegnano gli orizzonti. Un curatore che pretende di mantenere il controllo sull’opera senza farsi attraversare dalle sue istanze ha bisogno di mettere molto spazio o solide corazze tra sé e l’artista. Contemporaneamente, l’artista che teme lo sguardo esterno ma vicinissimo del curatore pretendendo di consegnare l’opera ad un pubblico lontano e sconosciuto da cui non ricevere feedback se non a richiesta, a sua volta, ha bisogno dello stesso spazio e dello stesso rigido abbigliamento intellettuale e morale. Il conflitto è generato dall’irrigidimento delle posizioni e dalla distanza. Nell’incontro si genera l’amicizia e la reciproca cura. Io ho fiducia e mi muovo in direzione dell’incontro.

Valeria Muledda, in un momento dell’azione collettiva al termine del suo lavoro sull’identificazione con un luogo di chi lo abita. senseOFcommunity #16 / Ca’ Inua, residenza e masterclass per curatori, 4-11.09.2019, Marzabotto (Bo)

Come cambia, invece, il concetto di mostra ed esposizione? Per le pratiche artistiche site specific e l’arte pubblica di che tipo di “risultati” si parla e con quali parametri ci si confronta?
Allineandoci sull’intenzione di definire “mostra” quella particolare fase dell’esperienza dell’arte nella quale da un lato l’artista e dall’altro il curatore trovano in accordo una forma terza per portare al meglio i loro messaggi al resto del mondo, la mostra che espone opere di arte pubblica non è diversa dalla mostra in cui si espongono quadri. La differenza, semmai, è nella definizione delle opere esposte, definizione nella quale le dimensioni dello spazio e del tempo sono rilevanti in maniera particolare trattandosi, in prevalenza, di opere processuali.
Un’opera di arte pubblica, temporanea o permanente che sia, è prima di tutto un processo di cui la mostra rende conto o che, comunque, comprende. Una prima conseguenza è che l’esperienza condivisa nella mostra che espone opere concepite site specific ha diversi livelli di lettura o, forse, sarebbe meglio dire, diversi livelli di intensità nel coinvolgimento del pubblico quando questo è costituito dalla stessa “comunità dell’opera” (2) oppure quando, altrove e rivolgendosi a persone diverse, la mostra restituisce i processi e gli esiti del lavoro che ha coinvolto un’altra comunità.
Gli esiti di cui la mostra è chiamata a rendere conto o con i quali si confronta, tenendo il passo di processi ancora in essere, sono, come ho già detto altrove in questa intervista, le relazioni generate dal lavoro dell’artista. Che si tratti del “restauro sentimentale” di un teatro come direbbe Alberto Garutti (3), di un Giardino di connessioni per citare il titolo di un’opera di Giorgia Valmorri (4) o di un’azione collettiva per far piovere, Let’s Rain di Panem Et Circenses (5), gli oggetti e le installazioni presenti in mostra saranno, per quanto bellissimi e ben concepiti, comunque oggetti dispositivi che riferiscono l’opera in quanto meccanismo di attivazione di relazioni.
Ciò che resta, dunque – e che viene esposto – è il prodotto di queste relazioni: un testimone – esteticamente connotato – del meccanismo relazionale dell’opera. Restando all’esempio dell’opera Let’s Rain, cui dedico un capitolo nel libro, l’incontro dei partecipanti con l’opera ha prodotto riverberi che raggiungendo la mostra hanno, a loro volta, generato un’installazione ulteriore concepita in quella nuova situazione espositiva. Tale installazione era composta da elementi provenienti dall’azione collettiva e altri oggetti elaborati a partire da essa o dai suoi contenuti, esposta nello spazio fisico e simbolico della mostra rappresentava il tentativo di espandere l’esperienza dell’azione collettiva oltre i confini fisici del luogo in cui si era svolta.
In questa speciale situazione di riferimenti molteplici a quell’esperienza, agganci a fatti realmente accaduti, narrazioni a posteriori e rielaborazioni poetiche si genera un’altra esperienza, ancora, sia in chi era presente all’azione collettiva e si trova nell’ambiente creato dalla nuova installazione in mostra, sia in chi non c’era ed entra in contatto con l’esperienza dell’azione per la prima volta nella situazione della mostra.
I parametri di valutazione per mostre di questo tipo sono gli stessi che ci consentono di apprezzare la qualità delle altre mostre, in più, direi, che queste mostre per la natura dei loro contenuti risentono e, al contrario, espandono con piena consapevolezza (per i curatori come per gli artisti) i presupposti dispositivi di tutto l’impianto formale di questo approccio all’arte.

Virginia Lopez in un momento del suo lavoro sugli innesti. senseOFcommunity #16 / Ca’ Inua, residenza e masterclass per curatori, 4-11.09.2019, Marzabotto (Bo)

Il tuo libro è tripartito tra introduzione, cenni autobiografici ed esempi a chiusura. Ecco, a proposito di esempi nel libro si parla anche di sensOFcommunity da cui è nata una serie di masterclass e residenze per artisti e curatori di cui gli ultimi sviluppi sono ancora in essere e daranno frutti in autunno… Ce ne parli?
Il 12 ottobre, in occasione della quindicesima Giornata del Contemporaneo di Amaci, sarà visitabile a Bologna presso il Centro per l’Arte Contemporanea sulla Cultura Alimentare (CACCA) fondato e curato dal collettivo di artisti Panem Et Circenses, la mostra che rende conto del percorso fatto durante l’ultima residenza del ciclo senseOFcommunity. È appena terminata, infatti, a Ca’ Inua, un podere sull’Appennino bolognese, la residenza numero 16 di questo ciclo iniziato nel 2013.
senseOFcommunity, come progetto nato per essere dedicato alla ricerca sulle pratiche artistiche site specific, negli anni ha contribuito in maniera eccezionale a quel processo di deduzione di un metodo di cui parlo nel libro, sono emersi con chiarezza criticità e punti di forza, bisogni e risorse di questo approccio alla pratica artistica e curatoriale. In particolare, il lavoro sul tema della relazione, fondamentale per comprendere la dimensione site specific di questa ricerca, essendo inevitabilmente declinato a partire dalle relazioni stesse interne alla temporanea comunità di residenti nel progetto, ha condotto ad esiti straordinari, sinceri e convincenti.
Questo progetto invita artisti e curatori a intraprendere un percorso di coinvolgimento fino alla creazione di una comunità di partecipanti all’opera partendo da sé, dalle proprie capacità di ricognizione delle forze in campo, dal proprio stare in una determinata situazione con determinate persone in costante confronto con tutto ciò che vive e si manifesta in quel luogo, persone, piante, animali, storie, ricordi e molto altro.
Imparare a misurarsi con la semantica degli spazi, infatti, con la loro estensione relazionale, con le storie oltre che con le geometrie, è, a mio parere, di grande valore e una disciplina utile in generale allo sviluppo delle idee e dei comportamenti nella sfera dell’arte.
Nell’ambito del determinato approccio alla ricerca rappresentato da senseOFcommunity, lo studio di questa tipologia di interventi artistici si propone in sintesi come uno studio sullo spazio, appunto, nella sua dimensione simbolica e nella sua densità di luogo.
Gli artisti che operano site specific osservano e lavorano con le connessioni esistenti e con quelle da riattivare tra il luogo e la comunità che lo abita, sollevando interesse e affezione verso aspetti meno noti della memoria collettiva. A questo scopo, attraverso dispositivi poetici di relazione, tentano il coinvolgimento delle persone, ascoltano le storie, ripensano sogni e bisogni, provano a colmare lacune, a investire sulla relazione.
Ca’ Inua è, a prima vista, un’azienda agricola sugli Appennini, nel comune di Marzabotto, ad un’oretta circa da Bologna. Osservando meglio e parlando con i fondatori, il collettivo Panem Et Circenses, Alessandra Ivul e Ludovico Amedeo Pensato, si capisce che Ca’ Inua è un’opera d’arte e, precisamente, un’opera di arte pubblica partecipata, un progetto artistico community based con chiari obiettivi di valore sociale che unisce pratiche agricole e pratiche comunitarie attraverso dispositivi costruiti nell’ottica delle pratiche artistiche di partecipazione.
Questa edizione di senseOFcommunity si proponeva di indagare la relazione tra l’arte (le cui pratiche abbiano un approccio site specific o territory related) e l’agricoltura, come una relazione derivata dalla relazione tra l’arte e il cibo o, meglio, il nutrimento o meglio ancora, il legame con la terra.
Pertanto, le artiste ospiti, che, insieme a Panem Et Circenses, hanno lavorato durante la residenza, Virginia Lopez e Valeria Muledda, si sono trovate a farlo dall’interno di un’opera concepita con gli stessi presupposti della ricerca che stavano percorrendo, mantenendo un filo di continuità e connessione molto forte con le loro stesse ricerche. Valeria Muledda con il suo progetto Studiovuoto – Studio di architettura che non costruisce indaga lo spazio come dimensione dell’esistenza, “l’azione dell’abitare lo spazio e la Terra”. Virginia Lopez ha fondato un analogo di Ca’ Inua nelle Asturias, PACA, Projecto Artisticos Casa Antonino, dove pratiche agricole e pratiche comunitarie sono osservate con il linguaggio di quella parte dell’arte contemporanea che indaga il rapporto tra le persone e i luoghi, le storie e i segni nel paesaggio.
Questa residenza, al suo interno, a sua volta, ospitava una masterclass per curatori che, quindi, hanno potuto lavorare all’interno di questo speciale modulo di ricerca a stretto contatto con i tre artisti in residenza.
Si è trattato di un lavoro intenso, una completa sospensione del tempo ordinario e una totale immersione nella ricerca condivisa. Vita e lavoro tutti insieme, quattro curatrici, quattro artisti e me lungo otto giorni di coabitazione e convivenza. Le curatrici insieme a me hanno potuto osservare l’emersione di tre percorsi di ricerca: la pratica dell’innesto; l’identificazione con un luogo della persona che lo vive; la progettazione partecipata di una Food Forest.
Virginia Lopez ha esplorato la pratica materiale dell’innesto, da un lato e quella simbolica, dall’altro, dove ciascuno di noi è coinvolto nel mutare ed essere mutato dall’incontro con un luogo e con tutto ciò che comprende e vive al suo interno: tutti noi dentro l’opera di Ca’ Inua, gli artisti che tornano alla campagna, le pratiche dell’arte che intercettano e, forse, per gran parte, salvano le pratiche comunitarie, sono solo esempi che derivano da questa riflessione.
Valeria Muledda compie insieme a Costantino, il proprietario del castagneto confinante con i terreni del podere di Ca’ Inua, un viaggio poetico tutto dentro la relazione con il castagneto, il luogo che Costantino ama e custodisce, nel quale ogni giorno lavora. L’esito di questo viaggio è la scrittura di una storia di quel luogo nella cui narrazione si passa dalla terza persona (“il mio castegneto è …”) incredibilmente e con grande commozione alla prima persona (“io sono il castagneto”).
Panem Et Circenses, immersi dentro Ca’ Inua con tutta la loro vita di artisti, famiglia, membri di una comunità, giungono alla conclusione che può esistere un’agricoltura sentimentale e che non sia meno produttiva o efficiente rispetto ai bisogni per cui la si pratica. Si rivolgono alla piccola comunità temporanea dei residenti di questo progetto e ci chiedono di portare noi stessi e ognuno la propria preziosa specificità (ciò che si sa e ciò che si è sono punti di partenza utili per costruire qualsiasi ambiente resiliente) a prescindere da presunte competenze tecniche agroforestali.
Da qui si sono piano piano chiariti i progetti artistici, gli impianti teorici e gli obiettivi, fino a giungere alla forma di una prima restituzione l’ultimo giorno della residenza con la partecipazione di tutte le persone coinvolte in un’azione collettiva che intrecciava i diversi percorsi di ricerca esplorati durante la residenza.
La mostra, infine, comporterà una seconda fase formale, data la circostanza espositiva specifica e, a questa ulteriore fase, saranno associati gli apparati critici che costituiranno l’ultimo esercizio per le curatrici della masterclass.
In conclusione, direi che ancora una volta questo progetto mi ha sorpresa, mi ha messa in gioco, ha spostato i miei orizzonti e incluso nuove prospettive nello sguardo già appassionato verso questa pratica dell’arte.

Immagine tratta dal momento conclusivo di senseOFcommunity #16 / Ca’ Inua


Note:

1. Willard Van Orman Quine, Word and Object, 1960.
2. Questo concetto di “comunità dell’opera” insieme a quello di “comunità di partecipanti all’opera” di cui parlo più volte nel libro, costituisce uno dei punti cardine dei presupposti di funzionamento dell’arte pubblica concepita come un processo site and audience specific fino a generare progetti interamente community based dove la comunità dell’opera coincide con la specifica comunità con cui gli artisti lavorano e che esprime le istanze di cui l’opera si fa portatrice.
3. A proposito dell’opera pubblica da lui realizzata tra il 1994 e il 1997 su commissione del sindaco di Peccioli nella provincia di Pisa. L’opera è costituita dal restauro (un restauro sentimentale, appunto, come lo definisce l’artista) del Teatro di Fabbrica, una piccola frazione di Peccioli.
4. Giorgia Valmorri, Giardini di connessione. Primo Movimento, Venezia, 2014-2016; Secondo Movimento, Cesena, 2015 (attualmente in corso); Terzo Movimento, Marostica (VI), 2016 (attualmente in corso).
5. Panem Et Circenses, Let’s Rain, Marzabotto (BO) e Bologna, 2017.

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