NAPOLI | Museo Madre | Fino al 15 settembre 2025
di BEATRICE SALVATORE
Alla fine la comprendi. Entri nel suo mondo traballante e allo stesso tempo perentorio, ti immergi in un universo sonoro e segnico, ossessivo e liberatorio e comprendi, come si comprendono dopo tempo, le parole e le azioni di una madre a lungo inascoltata.
L’impatto è forte, sin dal titolo che suona come un cortocircuito, un ossimoro: Euforia, una parola scelta perché apparentemente solo legata al suono delle vocali che in poche lettere ci stanno tutte, come un dovere o come un gioco, ma che rimanda anche a quello strano sentimento che sembra fermarsi tra leggerezza e disperazione, sul limite.

Siamo al Museo Madre e la mostra Euforia è un’ampia retrospettiva, dovuta e ben curata da Eva Fabbris con Daria Khan, dedicata ad una particolarissima figura dell’arte: Tomaso Binga, pseudonimo scelto da Bianca Pucciarelli Menna, creato dall’incontro tra il nome del poeta Marinetti e uno “slittamento” linguistico del suo nome, un abito trovato ed indossato per “resistere” in un mondo maschile e per parlare agli altri.
Lentamente, stanza dopo stanza ci si muove tra carte leggere, diari, collage, fotografie, testimonianze di performance e strutture tubolari misteriose allestite a guardia delle opere, in un tracciato ideale pensato dal collettivo multidisciplinare Rio Grande.

Bianca – Binga, salernitana, si scopre quasi senza volerlo artista e vive insieme al marito Filiberto Menna, noto critico d’arte ma soprattutto grande intellettuale che ha intuito il forte legame tra gli strutturalisti ed una certa linea dell’arte (suo è il fondamentale saggio La linea analitica dell’arte moderna, 1975, PBE), la luminosa stagione delle avanguardie (che Salerno ha vissuto, anche grazie a loro) e del desiderio di rinnovare la cultura.
Tomaso, però, sempre seguendo un gioco necessario di alterità, sceglie una strada tutta sua e si muove nel mondo dell’arte delineando un percorso autonomo e sottile, con discrezione ma con fermezza e coerenza, portando avanti una sua particolare pratica femminista che indaga le questioni del genere attraverso la centralità del corpo e la ricerca di una parola “carnale”, sonora, finalmente ascoltata.

In mostra circa 120 opere spaziano tra le ricerche diversissime di Tomaso Binga, mostrando una personalità vivida, curiosissima e inquieta, a partire dalle prime sperimentazioni con la ceramica, già motivo di indagine sugli stereotipi religiosi e culturali legati alla donna oggetto, fino ad approdare al focus del suo lavoro, che si affianca ai temi politici e alle pratiche artistiche femminili degli Anni ’70, ma vissute con leggerezza e ironia e che trovano origine nel desiderio multiforme di scavare e sovvertire stereotipi legati alle logiche del potere maschile che anche invisibilmente, detta regole e linguaggi, conduce e muove persino la parola.

Il corpo è linguaggio, Tomaso Binga questo lo sa.
Dunque la parola, attraverso la poesia e la scrittura, divengono per Binga, influenzata anche dalle dinamiche sperimentazioni di Marinetti, pretesto ricchissimo e “giocoso” per concentrarsi sul tema del potere e sulla parola, appunto, come suo strumento; ripetuta, scavata, di-segnata, tagliata, svuotata e soprattutto incarnata, essa si spoglia di significato e attraverso il corpo diviene puro significante e si riduce a suono o essenza, alfabeto nuovo: nella serie Scrittura vivente, del 1975, Binga si fa fotografare nuda su un set neutro e il suo corpo assume di volta in volta la forma di una lettera, in piccole performance (genere che l’artista abbraccerà totalmente), che dicono il necessario piegarsi al linguaggio ma anche il desiderio di liberarsene.

Ancora il corpo femminile (Binga stessa) nella serie Scrittura arrampicata è come aggrappato o adagiato su segni “desemantizzati”, ripetuti quasi ossessivamente, una scrittura automatica e astratta, illegibile, in cui la parola non dice più niente, divenendo sfondo silenzioso che rivela allo stesso tempo il desiderio di affrancarsi da un linguaggio che ingabbia, limita.

Questa condizione di “non accesso” alla parola libera, all’espressione e alla voce femminile, che Tomaso Binga indaga grazie alla distanza che il suo alter ego maschile le offre, la ritroviamo in Carta da Parato, installazione che riproduce un salotto borghese in cui una carta da parati rosa e floreale riveste ogni cosa, le pareti, i divani, le poltrone stilizzate e un grembiule da cucina: avvicinandosi si scorgono in mezzo ai piccoli fiori stampati che decorano l’ambiente, frammenti della scrittura desemantizzata a ricordare con un’immagine dall’impatto immediato come i pensieri delle donne confinate nelle loro case si moltiplicano quasi fisicamente arrampicandosi sui muri ma restando espressione muta, illegibile appunto: voci che vorrebbero prendere forma e uscire.

L’installazione, nata nel 1976 è stata più volte anche teatro della performance Io sono una Carta in cui l’artista, vestendo un abito realizzato con la stessa carta da parati, si mimetizza completamente, quasi scompare, fino all’esplosione della sua voce sonora, che finalmente comincia a recitare. La carta da parati diventa sfondo improbabile anche dei lavori della serie Senza titolo (studio preparatorio) in cui la scrittura desemantizzata diviene un disegno, una forma, seppur abbozzata: il tratto è come traballante ed incerto, quasi ad incarnare poeticamente e a rendere visibile, grazie alla pratica dell’arte, un “tentativo” femminile di espressione, che resta fragile, uno studio preparatorio, appunto. Il balbettìo del segno in Senza titolo sembra amplificato dai lavori di Alfabeto tautologico (2020), in cui Binga incornicia ordinatamente alcune parole semplici e infantili, accompagnate da un disegno, che riproducono le pagine di un sussidiario della scuola elementare (in altre serie come Alfabeto Officinale compare anche l’immagine del corpo di una donna tra le lettere associate a spezie profumate), quasi a ricordare il ruolo a cui è assegnata la donna e che rimanda ad una realtà chiusa in sé, tautologica, appunto.

Ancora la performance, che diventa scatto fotografico, in cui Binga esplora attraverso il linguaggio del trasformismo il tema dell’identità, e del doppio, ritorna nel raccolto e denso Bianca Menna e Tomaso Binga. Oggi spose, del 1977, un dittico racchiuso in cornici déco in cui gli sposi sono ritratti singolarmente, seppur citati insieme.
Il percorso ideale del confronto e del doppio continua nella monumentale installazione Diario romano 1895 – 1995, una sorta di racconto autobiografico intrecciato, nato dal ritrovamento fortuito del diario anonimo appartenuto a una donna siciliana che viveva a Roma, scritto appunto nel 1895 e messo in relazione da Binga con un suo diario, scritto invece nel 1995: l’accostamento di questi racconti di vita quotidiana crea una sorta di dialogo a due voci da cui emergono differenze e somiglianze nelle piccole abitudini, nell’accenno a un sentire, in rituali domestici, seppur a cento anni di distanza.

L’impossibilità o la fatica dell’incontro sembra raccontata nell’ultima serie di questa ampia mostra, dal titolo Grafici di storie d’amore, una sequenza di collage con elementi del corpo femminile e segni tracciati sulla carta millimetrata che tentano di misurare in un diagramma le gioie, i malumori o i momenti d’amore di una relazione di lungo corso, quasi un freddo e analitico diario che ancora una volta indaga gli stereotipi del femminile e degli ideali romantici, svelando che raramente gli andamenti e i cambiamenti di due amanti collimano, più spesso (li) si allontanano.
Si esce da questa mostra sorpresi, quasi storditi, travolti dal racconto a tratti tenero di un’artista che riesce a riprodurre dall’interno in modo quasi sensoriale e grazie anche all’impatto sonoro e cantilenante (come le ninne nanne cantate ai bambini) della voce recitata di Bianca – Tomaso che avvolge le sale, le lotte, i desideri, i conflitti, i tentativi e le ossessioni ma anche la profonda fragilità di un’identità femminile che vuole emergere ma che forse deve riunire in sé armonicamente le due anime del maschile e del femminile, oltre la parola, che è sempre parola del potere, proprio come Bianca Menna e Tomaso Binga, di cui forse, non si conoscono i confini.
Euforia. Tomaso Binga
A cura di Eva Fabbris con Daria Khan
Exhibition design Rio Grande
Fino al 15 settembre 2025
Museo Madre
via Luigi Settembrini 79, Napoli
Orari: Lunedì, mercoledì, giovedì, venerdì e sabato ore 10.00 – 19.30. Domenica ore 10.00 – 20.00. Martedì Chiusura settimanale
Info: +39 081 19528498
info@madrenapoli.it
www.madrenapoli.it



