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VENEZIA | Padiglione Olanda, Padiglione Polonia e Padiglione Spagna | Fino al 22 novembre 2015 #biennalearte2015 #newsbiennale

di MASSIMO MARCHETTI

La mostra nel padiglione spagnolo intitolata Los Sujetos si fa apprezzare per l’originalità del progetto curatoriale di Martì Manen incentrato sulla figura di Salvador Dalì (1904-1989). La sequela di monitor che contornano il salotto rosso e oro arredato con il celebre divano a forma di bocca di Mae West fanno subito capire che si sta trattando del Dalì-personaggio piuttosto che dell’artista. O, meglio, del suo “alito”, per usare le parole del curatore, qualcosa che aleggia e si diffonde. In questi nostri anni Salvador Dalì ha pagato forse eccessivamente il suo lato ludico e sapientemente frivolo che, unito a una provocatoria assolutizzazione della pittura tradizionale, l’ha fatto sembrare un campione della reazione nell’arte. In realtà, al di là delle straordinarie doti tecniche, è proprio questo suo progetto di apoteosi mediatica dell’artista vivente che raggiunge tutti, ma resta intoccabile, a renderlo un “oggetto” ancora ricco di sfumature da indagare.

Padiglione Spagna, Francesc Ruiz

Davanti agli occhi scorrono interviste a critici e materiali di repertorio che documentano la presenza nella pubblicità, nella televisione e nel jet-set del Dalì abile costruttore del mito di se stesso, “genio” che si manifesta e si offre allo stupore e alla venerazione. Ciò che sembra unire gli interventi dei tre artisti invitati sono il tema del mascheramento e una sensualità per così dire “espansa”. L’atmosfera generale non ci è ignota, è quella della Spagna libertina e kitsch di Almodovar: che sia stata essa stessa un frutto epocale dell’insegnamento di Dalì? Francesc Ruiz presenta due finte edicole, una “vietata ai minori” dove l’artista prosegue la sua indagine sullo sdoganamento dell’estetica gay nel mondo del fumetto, e l’altra con una straripante rassegna di testate italiane che parlano il linguaggio del cruciverba, come se nel nostro Paese per felice coincidenza il motto panem et circenses venisse rafforzato da un congenito occultamento del reale. Pepo Salazar ha costruito invece un’ampia struttura di tubi d’acciaio, neon e parrucche che gioca sulla coppia mollezza-durezza cara anche alla pittura di Dalì. È un’impalcatura che deborda dall’uso canonico dello spazio e ne rende difficoltoso l’attraversamento. Il culmine è in una specie di giostra sado-maso di catene che struscia languidamente dei microfoni accesi sul pavimento.
La coppia Cabello/Carceller, infine, ha messo in scena una piéce negli spazi vuoti del padiglione che viene mostrata attraverso un film e degli oggetti di scena trattati in forma di commenti alle tematiche gender. Il soggetto della piéce, sviluppato sul filo tra sogno e realtà, racconta di un gruppo di precari e dropout che, incontrandosi casualmente nell’attesa di un’imprecisata audizione, iniziano a confrontarsi su posizioni di dissidenza sociale e sessuale rispetto alla rigidità e mediocrità del contesto in cui si trovano immersi. Da uno di loro, il più istrionico e propositivo, inizia a diffondersi la fiducia nel cambiamento sociale che l’arte può produrre, un’idea che li porta a coniare il motto di resistenza “drag è politico”: la vita è lo spettacolo di cui si è protagonisti ed è un’arma di affermazione e liberazione. Come se l’arte di Dalì, attraverso imprevisti percorsi pop, continuasse ad alitare la propria anarchia sulla vita contemporanea, la conclusione – senza un vero finale – si scioglie in una briosa coreografia sulle note di I’m a Mystery di Amanda Lear, la musa ambigua e sfuggente che tutti conosciamo, ambasciatrice del verbo liberatorio del Maestro in tv e nei rotocalchi, i canali della rivoluzione.

Padiglione Olanda, herman de vries - to be all ways to be

Il padiglione olandese presenta invece to be all ways to be, una personale di herman de vries (si firma così, con le minuscole), artista della vecchia guardia concettuale il cui lavoro è costruito sulla sottile robustezza che lega l’esistenza umana ai processi naturali. De vries fa arte con la natura presentandola così com’è, e in questo modo ci dice che l’arte essenzialmente è natura + pensiero, luogo dove la finitezza della prima si confonde nell’infinitezza del secondo dando vita a un circolo in cui non c’è soluzione di continuità, come suggerisce all’ingresso del padiglione la voce stessa dall’artista nel mantra “infinity-in-finity”. Si tratta di un progetto sviluppato con piglio scientifico a partire dalle esplorazioni condotte dall’artista nella laguna veneziana, una percorso di osservazione e raccolta che può essere rivissuto anche dal pubblico con una specifica escursione organizzata nel Lazzaretto Vecchio.
A un primo sguardo questo lavoro può sembrare molto semplice, per quanto visivamente variegato, ma è proprio in questa immediatezza che si manifesta il suo cuore poetico. Un tappeto profumato di boccioli di rose, relitti di legni carbonizzati, una quadreria di monocromi realizzati con diverse terre: la manipolazione di ciò che il mondo spontaneamente offre è ridotta al minimo e la sua installazione, così sistematica e limpida, sembra generata dall’ariosa architettura del padiglione di Rietveld. In realtà il display stesso è un segno decisivo nell’opera di de vries perché indica quanto la natura venga ibridata dal pensiero dell’uomo nel momento in cui questi la presenta, principio che poi è alla base del concetto stesso di “paesaggio”: rendere la natura immagine. Ogni elemento di questo lavoro possiede il respiro della terra, a tal punto che anche un manufatto che rimanda a un classico simbolo di morte come il falcetto, esibito in una collezione di minime varianti, riverbera la vita perché da un lato prolunga la nostra mano e dall’altro risente nella propria foggia dei diversi tipi di piante cui è destinato. E soprattutto non esistono “scarti”, ogni frammento è processato e si manifesta nella sua unicità, verrebbe da dire individualità.
Terza tappa suggerita è quella al padiglione polacco dove è allestito Halka/Haiti 18°48’05”N 72°23’01”W di C.T. Jasper e Joanna Malinowska. Questa sequenza apparentemente irripetibile unisce il titolo di una delle più tradizionali opere liriche polacche – Halka – alle coordinate geografiche di un piccolo villaggio haitiano che prende il nome di Cazale, dove l’opera è stata messa in scena dai due artisti in una versione “performativa” nel bel mezzo di un sentiero sterrato.

Padiglione Polonia, C.T. Jasper, Joanna Malinowska - Halka/Haiti. 18°48’05”N 72°23’01”W

Cazale naturalmente non è un posto come un altro perché è stato fondato nell’Ottocento da soldati polacchi provenienti dalle truppe napoleoniche, che si sono poi uniti ai ribelli e hanno combattuto per l’indipendenza di Haiti, e si sta parlando quindi di un confronto molto peculiare tra ex colonizzatori e colonizzati. Ciò che è scaturito da questa performance, dichiaratamente debitrice del Fitzcarraldo di Herzog, è un film proiettato su un grande schermo curvo di sedici metri di larghezza che la riprende frontalmente a camera fissa per l’intera durata, riproducendo una visione a 180 gradi realistica e distorta allo stesso tempo. Un aspetto interessante in questo display, che ribadisce la cultura visiva ottocentesca riproponendo la tipologia del “panorama”, è che, quale che sia il posto scelto per assistervi, risulterà difficile valutare i rapporti di distanza interni alla scena tra il fuoco dell’azione e l’ambiente e tra primo piano e sfondo, come se un cliché così marcatamente europeo, come quello messo in scena, non potesse essere compreso fino in fondo dal contesto locale fatto di case e persone, e tendesse a esserne metaforicamente rigettato.
In seconda battuta, sempre stimolati dalla forma della proiezione, il nostro sguardo di spettatori va inevitabilmente a scrutare le espressioni sui volti degli astanti, dove si mescolano ancora una volta europei e haitiani, cercando di cogliere come e quanto lo spettacolo possa essere apprezzato. Mentre l’azione si sviluppa ci si ritrova quindi a riflettere su quanto il mondo espresso da Halka sembri adesso così “esotico” in quel frangente, e quindi su come si stia consumando, attraverso le modalità del nostro sguardo e della nostra posizione, una specie di rivincita della cultura indigena. Invano, accompagnati da queste considerazioni durante la proiezione, tentiamo di recuperare dei punti fermi per i nostri occhi occidentali, quelli che un paio di secoli fa incontrarono queste popolazioni.

56. Esposizione Internazionale d’Arte La Biennale di Venezia
Padiglione Olanda
herman de vries – to be all ways to be
Artista: Herman de Vries
Commissario: Mondriaan Fund
Curatori: Colin Huizing, Cees de Boer

Padiglione Polonia
Halka/Haiti. 18°48’05”N 72°23’01”W
Artisti: C.T. Jasper, Joanna Malinowska
Commissario: Hanna Wróblewska
Commissario Aggiunto: Joanna Wasko
Curatore: Magdalena Moskalewicz

Padiglione Spagna
The Subjects
Artisti: Pepo Salazar, Cabello/Carceller, Francesc Ruiz e Salvador Dalí
Commissario: Ministerio Asuntos Exteriores. Gobierno de España
Curatore: Marti Manen
Fino al 22 novembre 2015
Giardini della Biennale
Venezia
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