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MILANO | Auditorium San Fedele

di CARLOTTA PETRACCI

È uno degli protagonisti più influenti della scena sperimentale berlinese. Artista audiovisivo, stage designer, musicista, il suo percorso comincia nella band punk Ornament und Verbrechen, da cui successivamente nascono i To Rococo Rot, fondati sempre insieme al fratello. La sua concezione scultorea della musica, la sua collaborazione con musicisti quali Ludovico Einaudi e Debashis Sinha, l’importanza creativa assegnata al concetto di improvvisazione, fanno di Robert Lippok un musicista profondamente nomade nel pensiero tanto quanto nella pratica. L’abbiamo intervistato in occasione del terzo appuntamento di Inner Spaces, la rassegna di musica elettronica e arte audiovisiva curata da San Fedele Musica e S/V/N/. Un’indagine che coinvolge i principali esponenti della ricerca elettronica contemporanea chiamati a confrontarsi con gli scenari di spazializzazione sonora dell’Acusmonium Sator dell’Auditorium, che consentono esperienze estremamente coinvolgenti ed immersive, uniche nel panorama italiano.

Mi pare che nel tuo lavoro il concetto di improvvisazione sia piuttosto centrale. In che modo dialoga con la composizione?
La mia produzione si sviluppa in due direzioni: da un lato c’è l’aspetto compositivo, dall’altro l’improvvisazione. Lavorando anche come stage designer e artista, concepisco la musica come una scultura. Inserisco sempre forme ripetitive, assimilabili a dei layer di diverse dimensioni, che faccio incontrare o che lascio viaggiare indipendenti. La costruzione è un aspetto molto importante, però dedico molte energie anche all’improvvisazione. Trovo che sia un sforzo necessario, perchè mi permette di aprile canali che mi sono estranei. Lo faccio soprattutto nei live, perchè penso che il pubblico si meriti un’esperienza irripetibile e perchè mi piace mettermi in una condizione d’urgenza e smarrimento, come quando sei nel panico, in cui rapidamente devi trovare la tua strada.

Tecnologia, conoscenza, rigore e libertà espressiva. Come ti relazioni con le “macchine”?
Diverso tempo fa ho avuto l’onore di conoscere Olafur Eliasson e ricordo che il suo principio del “delearn” mi aveva colpito molto. Lui porta avanti questa idea secondo cui bisogna sottrarre la conoscenza alle persone, non insegnare qualcosa. Afferma che imparare è disimparare, si tratta cioè di un percorso di allontanamento dalle paure e di estromissione di tutti quei contenuti che possono inibire la libertà espressiva. La mia esperienza è molto vicina a questo percorso. Non ho mai imparato a suonare nessuno strumento, la didattica e la teoria musicale non hanno mai fatto parte della mia vita. La tecnologia semplicemente la uso e sono trentacinque anni che faccio musica. Leggevo alcuni giorni fa un’intervista di Laurie Anderson, dove affermava che per lei la musica è contatto. E ne sono estremamente convinto, la musica avvicina le persone, le vibrazioni sono l’elemento principale della nostra esistenza, dagli atomi agli spazi fisici.

Parli di vibrazioni e spazio. Possiamo considerare la musica come un’edificio che non c’è?
Penso che la musica sia qualcosa di molto fisico. Forse si può considerare una sorella dell’architettura, più che un edificio invisibile. Ci sono molte connessioni tra la musica e l’architettura. Se pensiamo al Medioevo, per esempio, all’interno delle chiese il suono aveva un ruolo molto importante: scandiva un ritmo e un incedere attraverso lo spazio, ma per me è vibrazione allo stato puro. È come una frequenza che esce dallo spettro del visibile ma che puoi percepire.

Che cosa pensi del dialogo sempre più serrato tra la musica e la cultura visiva? Credi ci sia bisogno di tradurla in qualcosa di più tangibile?
Non so se visualizzare la musica sia davvero necessario. Penso anzi che possa limitare la capacità interpretativa e soggettiva dell’ascolto, forse è meglio lasciare la libertà alle persone di immaginare. Quando il visivo impatta troppo sulla musica, personalmente lo vivo come un’intromissione rispetto alla comprensione e alla ricerca del contatto.

Quando lavori sulla tua musica, segui un percorso cannibale o metodico?
Produrre musica per me è un processo emozionale, molto rapido e che deve entusiasmarmi. Mentre lavoro ascolto molte cose e ne vengo influenzato velocemente, cerco subito di riprodurre quello che mi piace. È come quando sei lungo una strada: vedi qualcosa che ti interessa e lo segui, così io incorporo con una totale immediatezza i suoni e le idee.

Che cosa ispira la tua produzione musicale?
Ascolto molta musica barocca perchè mi affascina quel modo di trattare le melodie e i suoni. Gli strumenti restituiscono un suono completamente diverso rispetto alla tecnologia, più sporco e a me piace perchè le mie produzioni non sono affatto pulite e nitide. Ascolto anche molta musica africana, perchè mi interessa esplorare la relazione e il contatto degli strumenti col corpo. Certe volte poi mi capita di andare a delle mostre e vedere delle opere d’arte che mi fanno pensare: così dovrebbe essere la mia musica.

Quanto gioca la concettualizzazione nel processo creativo?
Quando lavoro ai miei progetti molto poco. Mentre quando collaboro con altri il pensiero e il dialogo rivestono un ruolo più importante. Sto lavorando, per esempio, con Peter Kirn a un progetto che prevede la traduzione di un’opera architettonica in suono, attraverso un sound system che dà la possibilità di progettarlo. Cercando di capire come fare, abbiamo dovuto parlare molto con l’architetto, misurare lo spazio e calcolare ogni millisecondo del percorso sonoro, immaginando come avverrebbe se l’edificio fosse reale. Nella mia musica invece ho un approccio molto più semplice, come nell’arte naive, senza troppe meta-strutture o meta-significati.

La tua concezione del suono è cambiata dai tempi di Redsuperstructure?
Sono diventato più dance anche se vorrei fare esattamente l’opposto, cioè rendere la mia musica più vuota. Non so se si tratti di un’evoluzione, ma semplicemente accade, è come quando sei in mezzo agli animali, che ti saltano improvvisamente addosso, anche se tu cerchi di impedirglielo.

Parlando del tuo live set al San Fedele. Com’è stato interagire col sound system dell’Auditoroum e che tipo di esperienza hai voluto ricreare?
Il sound system del San Fedele restituisce dei suoni che sono molto scultorei, quindi ho cercato di trattare l’intera perfomance come una scultura. Non volevo che fosse delicata o fluttuante, piuttosto mi piaceva l’idea che andasse in frantumi, che suonasse spezzata, ruvida, frammentata. Tutto però si è basato su un’impressione momentanea, come in un viaggio, senza mediazioni o ragionamenti preliminari. L’idea della prima impressione per me conta molto, perchè credo che ci si abitui in fretta alle cose e che ci sia bisogno di abbracciare, nella maniera più forte possibile, l’inaspettato.

INNER_SPACES 2016 – scenari sonori a più dimensioni

Robert Lippok: SATOR and Peripheral Laps
Regia acusmatica: Dante Tanzi e Giovanni Cospito

14 marzo 2016 (report terzo appuntamento)

Auditorium San Fedele
Via Hoepli 3/a // Milano

Info: http://svnsvn.tumblr.com/

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