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Intervista a CHIARA GATTI di Matteo Galbiati

Sempre all’Arsenale, luogo di numerosi incontri, dopo aver visitato l’intrigante Padiglione della Santa Sede, incontriamo Chiara Gatti, dinamica e vulcanica critica e storica dell’arte, voce critica del quotidiano La Repubblica per le pagine milanesi. Con Chiara, forti di un legame d’amicizia rinsaldato nel corso degli anni, condividiamo alcune battute veloci su quanto visto e su quanto ci ha maggiormente colpito… Ritornano anche per lei le domande sulla Biennale:

Cosa pensi del Palazzo enciclopedico? Che idea ti sei fatta del progetto di Massimiliano Gioni?
Gioni è, come sempre, abbastanza geniale. L’intuizione di concepire il percorso come un viaggio a ritroso nel sapere umano raccolto in una sorta di palazzo ideale, ha qualcosa di calviniano. Del genere “castello dei destini incrociati” per intenderci, mescolato però a certe visioni fantascientifiche, un po’ alla Kubrick. Fluttuando fra le stanze, le opere e le storie si combinano ogni volta in modo diverso. Un bel modo per raccontare l’arte come moltiplicazione attuale delle tendenze.

Che interpretazione ne dai?
Come un nostalgico ritorno al futuro. Il taglio antropologico, lo sguardo al passato, alle origini, alle tradizioni, alla natura primigenia e poi, improvvisamente il salto nell’attualità, è spiazzante, ma è lo specchio di come vanno le cose.

Cosa ti ha colpito di più?
La presenza di molta scultura, a partire da Cuoghi. Così imponente e così vulnerabile allo stesso tempo. Un messaggio da lontano, proprio come il monolite nero di Odissea nello spazio, appunto. Il Palazzo del sapere non poteva che aprirsi con una pietra monumentale. Una stele della saggezza. Più deludente l’intervento di Ai Weiwei nella Chiesa di Sant’Antonin. Il messaggio forte, il fatto reale, si perde in un compiacimento tecnico, un virtuosismo freddo, una casa delle bambole dove succedono cose tremende, ma la sensazione è che sia solo plastilina. Peccato.

Quali sono le tue preferenze rispetto ai Padiglioni Nazionali?
Certamente quello vincitore dell’Angola. A parte gli scatti di Edson Chagas, la sede di  Palazzo Cini è una meraviglia. Le foto, minimali ma intense, sono disseminate fra broccati, arredi d’altra epoca e decine di fondi oro. Solo all’ingresso si incontrano un Beato Angelico e un Piero della Francesca che si mangiano tutta la Biennale.

Tra gli eventi collaterali cosa pensi sia rilevante e vuoi suggerire?
La mostra di Anthony Caro al Museo Correr. È il padre putativo di tutta la scultura contemporanea. Impossibile dimenticarlo.

Che artista segnali?
Pedro Costa nel padiglione di Cuba. Mi ha ipnotizzata. I suoi video-ritratti dal movimento impercettibile sembrano la trasposizione odierna di quelli di Rembrandt o Vermeer. Ti fissano e ti straziano.

Una tua battuta o un commento generale, libero sul “rito Biennale”?
Il rito vince un po’ sulla riflessione. È una bella giostra, quando scendi ti gira la testa e tutte le immagini vanno insieme. L’importante è che qualcosa resti. Come in tutte le cose, è una selezione naturale. Ai posteri l’ardua sentenza.


Chiara Gatti
Storica e critica dell
arte, scrive per le pagine di cultura milanese del quotidiano La Repubblica, collabora con la direzione del Museo d’arte di Mendrisio, in Svizzera. Specialista di grafica moderna e contemporanea, ha curato mostre monografiche e tematiche per istituzioni come La Permanente di Milano, la Fondazione Stelline di Milano, Villa Panza di Varese, il Vittoriano di Roma, lo Spazio Transiti di Ferragamo a Grosseto, il Museo dArte di Lugano, il Museo di Mendrisio, la Pinacotheque di Parigi oltre ad altri spazi pubblici e privati italiani e stranieri. Recenti sono lantologica di Leone Lodi per le sale Civiche di Soresina, la mostra Giacometti e gli etruschi per la Pianocotheque di Parigi in collaborazione con la Fondation Maeght oltre allintervento di Mimmo Paladino per lantica chiesa di San Barnaba in Bondo in Trentino, allestito fino al prossimo autunno. 

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