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Giulia Piscitelli. Rischi minori

di Daniela Trincia

Più di venti lavori, tra video, fotografie, installazioni, testimoniano il percorso artistico di Giulia Piscitelli e costruiscono l’ultima personale dell’artista partenopea. Di recente invitata alla 54. Biennale di Venezia (2011), l’artista ci parla del suo lavoro caratterizzato dall’utilizzo di media diversi con uno sguardo alla fragilità della vita quotidiana…

Daniela Trincia: In molte tue opere, alcune nella mostra Rischi Minori alla Fondazione Giuliani di Roma, quello che maggiormente si nota è il concetto di fragilità, perché è forte la sensazione che basti un nulla e tutto si incrina…
Giulia Piscitelli: In apparenza può sembrare così, in realtà è l’opposto, perché per me una maggiore coscienza della propria fragilità può dare maggiore forza. Nel mio lavoro c’è l’idea dell’eternità che, a confronto con la realtà, diventa fragile. C’è una certa coscienza della propria fragilità, ma anche della propria impotenza. I miei lavori sembra che trattino la fragilità, la malattia, come nelle opere che compongono Protocollo (2009): anche quel momento in cui il termine stesso di protocollo riduce la persona a un numero, può essere, invece, l’occasione di un cambiamento in meglio. Ad esempio, nelle persone affette da cancro, la malattia fa guardare la vita diversamente, dà la possibilità di evolversi per migliorarsi, come in Sunshine (2009), dove il titolo vuole togliere importanza alla malattia perché, il personaggio ritratto di spalle, è visto come un sole che splende. O come in Non ti riconoscevo per un pelo (2009) in cui dei capelli sono stati messi in uno scanner e, per magia, è apparso un sorriso.

Quest’apparente fragilità, è il punto di partenza della tua ricerca?
Più che punto di partenza è uno tra i tanti altri che la vita regala, come può essere la stessa arte, il sesso, il dolore, la gioia, sono vari temi, e uno non è più importante dell’altro.

Nella realizzazione dei tuoi lavori, utilizzi media sempre diversi …
Sì, infatti. Approfitto di quel medium per esprimere al meglio quello che voglio dire in quel momento. Perciò posso utilizzare la foto, il lattice, la pittura per portare a compimento un lavoro. In Operaio (2006) ho posto un elmetto di protezione su un teschio in marmo che si trova nel chiostro di San Martino a Napoli, ho scattato la foto e sono andata via, ho rubato quell’immagine. In quel caso la fotografia era l’unico mezzo che mi permettesse di congelare quell’azione, perché lo scatto è veloce come l’azione. Mettendo l’elmetto al teschio, non do la morte all’elmetto, bensì la vita al teschio, lo proteggo da una probabile morte, che non è una morte bianca, bensì gialla, come il sole, che è vita. È lo stesso concetto che è presente in Rischi Minori (2011). Ricoprendo le tute da lavoro di lattice, le preservo.

Quindi il medium si assoggetta al concetto che in quel momento vuoi esprimere?
Sì. Ad esempio, in Tigre in Italsider (2002) sullo sfondo c’è la fabbrica Italsider che ora non c’è più e il gesto, l’happening, che può essere rappresentato solo con la foto, in quel contesto diventa anche la denuncia di uno stato di cose, di tutto quello che il complesso siderurgico ha rappresentato non solo sotto il profilo socio-economico ma anche sanitario. Rimane fondamentale il gesto, nella sua più ampia accezione.

Si può dire che un altro elemento importante, nei tuoi lavori, sia il tempo.
Nella concezione attuale, il tempo ha due versioni: il tempo non esiste e il tempo è troppo poco. Importante è il tempo presente, carico del passato e del futuro. Quello attuale lo posso gestire, “fare” e “non fare”, sottintendono il concetto consumistico che non appartiene a chi vive a stretto contatto con la natura. Per il contadino c’è il momento della semina, della crescita, della raccolta, quindi dell’attesa. Invece per chi vive nelle metropoli, c’è una propensione a riempire il tempo, a consumarlo, per la paura di rimanere soli con se stessi.

In Personal Belongings presenti una vecchia sedia in cui, al posto di una gamba, inserisci un peso di 5kg, che affermi corrispondere al tuo peso…
La sedia è il mio oggetto, il mio oggetto privato, e per me, il mio peso, è di 5 kg. Un peso che può variare da soggetto a soggetto: per te, se ti siedi, può diventare il peso della vita, nel senso più bello, di profondità, perché alcune soluzioni si potrebbero trovare nel fermarsi e tutto potrebbe cambiare.

Perciò nei tuoi lavori c’è sempre una crisi, una rottura?
Dipende. Se riferita all’arte, provengo da una generazione che ha come bagaglio culturale la coda di un pensiero artistico che partiva da un principio di rottura, che è quello delle avanguardie. Quindi sono una sorta di nipote di movimenti artistici come Fluxus, o pronipote del Dadaismo. Ma se prima c’era l’idea di rompere col passato, ora c’è l’idea di costruire un nuovo concetto di bellezza. Invece, se riferita alla vita, dalle rotture si creano cose nuove, come ad esempio dalle rotture relazionali, si creano nuove situazioni. L’importante è, come sosteneva Nietzsche, che io sappia.

In conclusione, qual è la costante della tua ricerca?
L’ossessione stessa. Come dire, il senso della vita è la vita stessa, quindi tutto quello che può essere l’ossessione, la fragilità e come la denunci. La vita che ti mette davanti a delle scelte e la responsabilità di farle. La vita come oggetto. Voglio, cioè, respirare quello che accade, compresa la memoria. Perché ognuno di noi è vasto, semplice ma complesso. Infatti penso di essere una persona semplice con le sue complessità con un’educazione mediterranea, con un’ipotesi di femminilità. Quando ci sono delle tensioni, il mare mi aiuta a scaricarle, col suo moto perpetuo, che non chiede mai. Non scarico nell’arte, perché nei miei lavori c’è qualcosa di mio, ma non la mia soggettività, perché è privata. Quindi il mio lavoro non riflette la mia fragilità, ma quella dell’intero condominio.

E se non fossi diventata un’artista, cosa avresti fatto?
Forse la parrucchiera, per stare con le mani nella testa degli altri.

È diventato pubblico il tuo invito alla 54. Biennale di Venezia. Porterai un lavoro appositamente realizzato?
Sì, ci sto lavorando. Sarà un’opera nuova di cui non voglio anticipare nulla!

La mostra in breve:
Giulia Piscitelli. Rischi minori
Fondazione Giuliani
Via Gustavo Bianchi 1, Roma
Info: +39 06 57301091
www.fondazionegiuliani.org
25 gennaio – 2 aprile 2011

In alto, da sinistra:
“Line, Do Not Cross”, 2010, painted iron, barricade tape, dimensions variable, photocredit Gilda Aloisi, courtesy Fondazione Giuliani, Roma
“Rischi minori”, 2010, detail, latex coated work uniforms, dimensions variable, photocredit Gilda Aloisi, courtesy Fondazione Giuliani, Roma
In basso:
“Rischi minori” exhibition view, Fondazione Giuliani, Roma, 2011, photocredit Gilda Aloisi, courtesy Fondazione Giuliani, Roma

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