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Intervista a GIANLUCA D’INCÀ LEVIS

Domenica 21 si è chiuso il Blocco di Taibon. Giancluca D’Incà Levis, ideatore del progetto, ha vissuto tutta l’esperienza in prima persona, sempre presente sul campo. E visto che per tre mesi ci ha messo, come si dice, la faccia, lo abbiamo nuovamente interpellato a chiudere un cerchio destinato riaprirsi a mo’ di spirale e continuare ancora a girare.

A freddo. Come si conclude la “seconda stagione” di DC?
Chiudere, in realtà, non è evidentemente un concetto troppo in linea con la modalità operativa di Dolomiti Contemporanee, che apre, per sistema, rifiutandosi di concepire la cultura, e quindi l’arte contemporanea, come palestra privata di algidi sacerdozi, nella quale curatori e artisti trasparenti si librano – la sciagurata ricerca dell’antiponderale – annullando ogni slancio e temendo, come il demone, ogni caratterizzazione specifica (identità), per coltivare una sorta di disciplina tignosa del distacco e, in ciò, ricordando le automutilazioni degli skoptsy (ma in questo caso nell’assenza totale di qualsiasi disposizione verso un’eventuale mistica estetica). Quanti bravi artisti bloccati, menomati, quante sciape microbaronie curatoriali, quanta arte come pozzo di stoccaggio, invece che come rampa.

Il Blocco di Taibon è stato invece, nelle sue 11 settimane di vita inaugurate lo scorso 4 agosto, una stazione di scambi e interazioni, completamente aperta, completamente viva.
Questa fabbrica nelle Dolomiti, chiusa da due lustri, è stata trasformata nell’organo centrale di DC NEXT, che ha messo fuori radici e steso ramificazioni dendritiche, numerose.

Cos’è successo in questi mesi nel fulcro di Taibon?
La Residenza, come sempre, è stata il fulcro dell’accoglienza, sfruttata al meglio nel secondo dei due cicli espositivi, che nel complesso hanno prodotto 13 esposizioni, coinvolgendo innumerevoli soggetti, tra i quali, come attori principali, ricordiamo Fondazione Bevilacqua La Masa, Parco del Contemporaneo/Forte Marghera, i curatori Alberto Zanchetta, Riccardo Caldura, Daniele Capra, Matteo Efrem Rossi, Gianluca D’Incà Levis, le Gallerie Studio d’Arte Raffaelli Trento, Jarach Venezia, Goethe Bolzano, Valentina Bonomo Roma, e tutti gli altri.
Da Taibon sono transitati, in queste settimane dense, un centinaio di artisti, e curatori, galleristi, giornalisti, critici, collezionisti. In un piccolo paese, abbiamo portato un progetto indipendente. L’indipendenza è quella ideativa e creativa. Che non basta. Oltre a ciò, occorre infatti anche saper creare una massa critica, occorre molta forza. Aprire una fabbrica di 3.000 metri quadri (o di 6.000, come quella dello scorso anno), chiusa da anni, non è uno scherzo, se non si dispone di risorse adeguate.

E nemmeno farla funzionare per tre mesi. Per questo motivo, il progetto, alla sua base, è prima di tutto un sistema di relazioni, che riesce a coinvolgere decine di soggetti (ormai più di 100), pubblici e privati, politici, produttivi, sociali, didattici, culturali, artistici. Ci vogliono mesi di lavoro, per aprire un sito, ed attrezzarlo di tutto punto. Ci vuole molto lavoro anche per farlo funzionare mediaticamente, dopo aver invitato gli artisti ed i curatori bravi a condividerlo. Gli spazi non esistono, né nell’idea, né nella pratica, prima che noi ci applichiamo a riesumarli. Non si tratta quindi di “fare le mostre” in un posto che c’è già. Si tratta di inventare un posto che non c’è, e di proporne un nuovo modo d’uso. Chi arriva a mostre aperte, e guarda le opere, senza studiare il progetto, capisce solo una parte, e non capisce la struttura reale del progetto. Noi non abbiamo un museo. Abbiamo le idee, e creiamo il nostro spazio. Farsi spazio è tutto. Il Blocco è stato la piastra distributiva, da cui si sono avviate tutte le azioni sul territorio, verso Cortina (con il Museo Etnografico e il Museo Mario Rimoldi) e Casso, con l’apertura del Nuovo Spazio.

Visto che nulla si chiude… Previsioni per il futuro?
Nel Blocco sono scaturite molte altre scintille, sono partiti progetti, sorte idee, che si concretizzeranno nei prossimi mesi. Il modello, così sperimentale, ha attecchito definitivamente: ora a Dolomiti Contemporanee vengono offerte altre fabbriche, dentro e fuori le Dolomiti, per riaprirle, attraverso l’arte, e le idee (l’arte senza idee esiste, alcuni la fanno esistere: è un penoso controsenso). Quest’arte che dimostra la sua ulteriorità: martedì 23 ottobre, avevamo già smantellato il prezioso bar interno al Blocco, per far posto al primo nuovo affittuario della fabbrica riavviata, che fino ad ora era stata immobile, le porte ben inchiodate, da due lustri. Altre 8 trattative d’affitto sono state intavolate. Qui nessuno vuole fare l’immobiliarista. Ma se la fabbrica riparte, vuol dire che i progetti non sono solo sé stessi (cultura avulsa dal mondo), e già in archivio, un istante dopo il funerale del finissage (che infatti abbiamo soppresso, pratica tribale arcaicizzante, lasciamola ai mezzi sacerdoti di cui sopra). Si tratta, certo, di fare le mostre, con la massima accuratezza. Ma, contemporaneamente, si tratta anche di creare un altro contenuto e un modello originale, e di generare un’attenzione su un’infrastruttura spenta, riaccendendola. Il progetto generale non è un contenitore, o una piattaforma logistica, in cui intingere, ospitare, le mostre. Lo diciamo da sempre, solo alcuni lucarossi, immaginazioni minuscole, non l’hanno ancora capito. Il progetto generale è un contenuto culturale in sé, per chi è capace di leggere questa parola nella sua accezione funzionale prima, di ideazione e progettazione e strutturazione di meccanismi d’apertura (e non di cura dell’orticello, magari il proprio, la scriminatura sulla testa di legno, le teste chiuse vanno aperte, l’arte come ceffone o leva o piccone, altro che decorar le pareti, e i talk da sala di rianimazione).

Nel Blocco sono accadute moltissime cose, tra gli artisti in Residenza, tra artisti e comunità locale, tra Dolomiti Contemporanee e molti soggetti con cui abbiamo intavolato riflessioni e avviato pratiche e progetti. Le Dolomiti, l’archeologia industriale, sono elementi secondari, rispetto al processo avviato e al modello che andiamo costruendo. A Taibon, in questo luogo appartato, difficile da raggiungere, immerso nel selvaggio, abbiamo portato 5.000 persone. Dallo scorso aprile, oltre 100 articoli sono apparsi, sui media locali e nazionali (Rassegna Stampa integrale disponibile, Rassegna Stampa sintetica scaricabile dal sito DC: qui anche le recensioni di tutte le mostre del Blocco). Ora ce ne andiamo, e la fabbrica, che era un’area amorfa e immobile, necrotizzata, di questo territorio, riprende vita. A breve, pubblicheremo un Report accurato su quest’esperienza, su quanto fatto, sulle prospettive future. E andiamo avanti. Alè

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