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GENOVA | Spazio46-Palazzo Ducale | 1 – 30 luglio 2017

Intervista ad AGOSTINO ARRIVABENE di Antonio D’Amico*

In un temperato pomeriggio di marzo ho incontrato Agostino Arrivabene tra le sale del MAC di Lissone, all’indomani dell’inaugurazione della sua mostra personale L’ospite parassita (mostra chiusa nel maggio scorso, ndr). Salendo le scale fino all’ultimo piano, si accede ad un percorso di grande equilibrio di forme, misure e disposizioni spaziali, dove si incontrano dipinti e oggetti che appartengono al mondo intimo dell’artista, con il risultato armonico di uno sguardo corale che è totalmente ancorato a una visionarietà mitologica, ancestrale, ricca di simboli e immagini mistiche. L’universo di Arrivabene è costellato da frattali che trovano corpo nei suoi pensieri e si materializzano sui suoi dipinti con forza materica, stesa o raggrumata con permeato senso del tempo.

Agostino Arrivabene, L'ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

Agostino Arrivabene, L’ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

Di lui Alberto Zanchetta scrive: «L’arte può evolvere per partenogenesi o, come nel caso di Agostino Arrivabene, in modo parassitario. Nelle sediziose sedimentazioni di queste sue opere si nascondono corpi di pittura (non di carne), colori-crisalidi destinati a sbrecciare e a soddisfare un insaziabile appetito». Quest’estate possiamo vedere i lavori dell’artista esposti nella mostra del ciclo INContemporanea – Agostino Arrivabene, Bertozzi&Casoni, Angelo Filomeno allo Spazio46 di Palazzo Ducale, a Genova e poi ancora da agosto nella sede estiva della Galleria Giovanni Bonelli a Pietrasanta…

Agostino Arrivabene. Profumo dello spirito (dittico - dettaglio), 2013-2017, olio su legno, cm 60x50

Agostino Arrivabene. Profumo dello spirito (dittico – dettaglio), 2013-2017, olio su legno, cm 60×50

Cosa sono per te i parassiti che scaturiscono o che si anniderebbero nella tua pittura? I tuoi corpi sono pittorici e non di “carne”, perché la tua recente produzione dimostra un progressivo abbandono del modello reale da cui tu, sin da sempre, hai tratto ispirazione. Dov’è, se c’è, l’anello di congiunzione con la realtà?
Potrei iniziare a dirti che in ogni mia opera può annidarsi una bestemmia, oppure una forma blasfema di esorcismo, o forse potrei parlarti dei grandi nei (angiomi) dipinti sui volti di gente del Settecento europeo apparsi in alcuni dipinti di William Hogarth o in Goya: alcuni individui sono imbellettati con la biacca e altri hanno pure grandi nei neri che paiono macchie invasive più che artifizi estetici del “belletto” ma, andando oltre, si scopre che il neo era in alcuni casi la copertura di qualcosa di ben più oscuro e abbietto: la sifilide. Dico questo perché ogni bianco sepolcro nasconde sempre, sotto la sua superficie, le più orride putrefazioni.
Il tabù della morte venne da me esorcizzato sin dall’infanzia assistendo ai disseppellimenti dei cadaveri, una teatralizzazione della morte che si palesava privatamente: mi chiedo oggi se era uno scoprire la madre sepolta? il mio estremo saluto? o una corea machabeorum (danza macabra) a cui partecipare per esorcismo personale? Forse fu anche questa una spettacolarizzazione delle mie ferite, esattamente come avviene su un’escoriazione, sinonimo di marcescenze che esercitano guerriglie di mutazione con il rinnovamento di una nuova pelle.
Fu questo indagare l’oltre, l’apparenza di un tragico vissuto, che mi spinse a trasformarlo in azione pittorica, in una dissezione e una vestizione del mostro.
L’azione iniziale di ogni mio dipinto è un atto esorcizzato, un rigetto da seppellire, da coprire e nascondere come il soffocamento di un “non detto”, infatti Alberto Zanchetta parla di sbrecciare, accenna a una forza che dirompe da un interno: i parassiti sono i danni dell’esistenza, il terrore di affrontare i giorni, i rimorsi e l’affannoso senso d’esistere che non silenzia.
Procedevo sincronicamente aprendo le ferite interiori e riscrivendole con la pittura, volevo mappare le mie paure e afflizioni, come un anatomopatologo da obitorio che rammenda un merletto sopra un cadavere.
I primi tentativi furono attraverso i miei taccuini di viaggio del 2012, dove facevo sedimentare come in serre le idee germinative: stendere del colore molle e muoverlo sulla carta e richiuderlo a libro può generare inconsuete formazioni, queste forme simmetriche ricordano gli esperimenti di Hermann Rorschach, le cui Klecks (macchie) servivano a far affiorare immagini automatiche ai malati di schizofrenia.
La riscrittura delle mie macchie casuali e speculari, attraverso il disegno o la pittura iper-dettagliata, faceva riaffiorare per automatismo dittici in cui il dialogo delle forme evidenziava un caos ma giustapposto. Astrazione e figurazione si ibridavano, la riscrittura delle forme ridefinite e identificate dal mio occhio diventava l’intrusione parassita su quell’humus astratto, nutrendosene e digerendo quei lieviti cromatici.
Fu per la mostra personale Anabasis, tenutasi nel settembre 2015, che presentai alcuni lavori su tavola con questa tecnica. Ho costruito corpi di pittura, adagiando le immagini una contro l’altra, ognuna donava parte di sé, umori e colori, il risultato era una creatura androgina di platonica memoria. La simmetria perfetta può generare un mostro nella sua unità, l’unità generata dalla fusione degli opposti può essere solo l’orrore di un mostro o l’essenza stessa dell’amore.
Nell’esercizio della pittura, le immagini si combinano e si dissolvono per penetrazione reciproca, un contatto pansessuale che proclama la realtà dell’immaginario, accettando tutte le possibili mutazioni dello scambio palindromo tra il sogno della realtà e la realtà del sogno.
I due dittici presentati a Lissone, Coniunctio I – II e Profumo dello spirito I – II nascono dalle fondamenta di un’intuizione che prende radici nella psichiatria, sublima per mezzo di processi alchemici e dona i frutti per nutrire la mia fame d’artista, cosciente di quella frattura che spacca in due parti l’essere umano.
Seppellimento ed esumazione sono il mistero che si schiude in ogni mio processo creativo.

Agostino Arrivabene, L'ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

Agostino Arrivabene, L’ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

Cos’è per te il vascello della mitologia e qual è il mistero che ti affascina di più?
L’essenza dell’uomo greco è quella di affrontare la realtà con un destino consapevole e tragico di creatura desituata o assurda nella sua instabilità sulla soglia (limen), perché l’uomo è colui che sta tra la luce e la tenebra, tra la vita e la morte, tra la verità e il falso delle cose.
I greci hanno alleviato questa condizione liminare attraverso la Bellezza e la sua chiamata, Kalos e Kalein, termini di medesima radice etimologica.
Il mito sorge come medicamento al destino tragico dell’uomo e, sin dalla mia giovinezza, ha acquisito in me la sua identità taumaturgica, portando in superficie i momenti difficili che avevo vissuto. Tuttora alcune icone del mito recitano i simulacri di miei traumi o paure irrisolte o di una libido da scaramantizzare dal suo portato di perversione.
Ho sempre affibbiato un’aura di magia all’azione dell’artista e non a caso André Breton ha stilato un intero volume che tratta di una storia dell’arte magica, mettendo a fuoco esempi di proiezioni magiche o sciamaniche nel tempo.
“Dipende da noi che il mondo si conformi alla nostra volontà”, “un cuore amante sazia tutti i desideri dello spirito”.
Il portato della poesia e dell’arte rivelano la magia di una volontà, e questa volontà è il grande mistero di ogni meraviglia e di ogni segreto.

Studio per Ade, 2012 disegno a china nera su carta rilegata in taccuino, cm 29,5x20,5. Foto: Andrea Parisi

Studio per Ade, 2012
disegno a china nera su carta rilegata in taccuino, cm 29,5×20,5. Foto: Andrea Parisi

La mostra si apre con le citazioni di Leonardo e Dürer, del primo il suo sublime panneggiare, del secondo trai ispirazione per l’anagramma. Il panneggiare di Leonardo è, però, una timbrica identitaria, quanto lo è il monogramma per Dürer. In loro, cerchi quale parte di te stesso?
Il turbinio cromatico, vaporoso, energico e umbratile, che emanano le tue opere, lascia intuire anche una certa attrazione verso Rembrandt. A un certo punto il curatore della mostra ha voluto posare per terra uno specchio, con un punto di vista inconsueto per la sua funzione. Non ti sembra che il tuo modo di dipingere, corrisponda a quella posizione?
Durante i primi anni del mio apprendistato, lo studio e la speculazione attraverso i maestri del Rinascimento mi erano necessari a costruire un codice più risolutivo per la pratica della pittura.
Era per me urgente la rifondazione di una grammatica delle tecniche del disegno e della pittura atte a riedificare una pratica smarrita, un’ossessione che diventava volontà e pretesa a far risorgere il vero uso dei materiali, le loro reazioni chimiche, i rituali di elaborazione e di estrapolazione di una materia colorante o agglutinante che legava il film pittorico e tutta la sua tessitura.
Fu il tempo delle sperimentazioni, di studi e verifiche e anche di fallimenti necessari a ricostruire un sapere perduto che potesse poi autosostenersi anche grazie ai mezzi tecnici più attuali. Il rigore mi permise poi di abbandonarmi a una pittura più impudica e disarcionata e meno formale, che sorse negli anni successivi.
È necessario accarezzare la serica pelle pittorica di Leonardo, ascoltare il brusio degli artisti del Rinascimento, per poi comprendere la follia biliosa e incontinente del derma barocco e che tu giustamente noti come eco rembrandtiana, fino a diluire ogni loro essenza nell’oscuro caos dell’informe e del gesto convulso del Novecento.
Il piccolo modellino in gesso, seta e argilla che ho esposto in mostra è lo studio preparatorio in scala ridotta della scultura lignea maphorion del 2016, che ho presentato alla mostra Anastasis la scorsa estate alla casa del Mantegna a Mantova. La scultura è sorta ricostruendo il procedimento in uso nelle botteghe degli artisti del Rinascimento. Vasari cita un giovanissimo e virtuoso Leonardo che riprende dal vero modelli in terra rivestiti di panni bagnati nel gesso. Lo stesso Leonardo, nel suo trattato della pittura, li identifica come “forme abitate” e di questa testimonianza abbiamo diversi studi eseguiti a tempera monocromatica su pezze di lino sottilissimo.
Il Monogramma di Albrecht Dürer apparve come un’architettura visionaria, un emblema che conteneva la mia attrazione per il Rinascimento e le sue speculazioni matematiche insieme alla divina proporzione.
La doppia A, che contraddistingue il mio nome e cognome, è esplicitamente l’emblema della linea di confine di una perfetta rifrazione degli opposti a cui sempre ho dedicato ogni mio interesse, esattamente come lo specchio adagiato da Zanchetta in mostra, forse allusione a una porta, a un varco verso un mondo “sotto-sopra”. L‘intersezione piramidale delle due lettere A è l’eco del movimento perpetuo e infinito del divenire ma anche due stilemi del compasso, strumento e simbolo di spiritualità, volontà e capacità del genio.
Il monogramma, nel corso dei primi anni del mio lavoro, da marchio identitario divenne glifo, si potenziò di alcuni elementi necessari a caricare di simboli un marchio che era già un autoritratto di intenti, un motto occulto che mi doveva contraddistinguere e caratterizzare in ogni mia azione, forse un amuleto.
Il pendolo centrale che apparve successivamente era il filo a piombo, la linea di forza del campo gravitazionale, indicatore dell’equilibrio e della ricerca mistica, linea di confine, coincidentia oppositorum.
Successivamente, venne iscritto nell’alveo angolare della seconda lettera A un cerchio ovoidale, l’archetipo della rinascita e della resurrezione nella simbologia cristiana ma l’uovo era anche l’atanor, ovvero il fornello sopra il quale andava posto un recipiente ovoidale chiuso ermeticamente dove avvenivano le fasi di dissoluzione alchemica, il centro della grande opera, dalla materia informe all’oro dei filosofi, una mia chiara allusione alla conquista iniziatica dell’immortalità. Ma soprattutto in quell’uovo si condensa un codice eterno, una chiave che è misura dell’universo. La linea del filo a piombo per necessaria gravità taglia in due perfettamente lo sferoide generando la lettera phi (del phi greco), il numero aureo.
Compasso, filo a piombo e numero aureo sono i principi dell’ordine degli elementi e delle leggi naturali che governano l’Universo.
Così l’uomo è misura delle cose, perché il suo essere è il mutamento, perché è colui che sta sul limen, tra la notte e il giorno, tra la luce e le tenebre, tra la vita e la morte.

Agostino Arrivabene, Sacro cuore, 2013, olio, foglia d’oro su legno fossile, cm 38x29

Agostino Arrivabene, Sacro cuore, 2013, olio, foglia d’oro su legno fossile, cm 38×29

La mostra presenta i tuoi dipinti insieme ad una serie di oggetti che provengono da casa tua, che fanno parte della tua raccolta di “meraviglie”. Così si incontrano fossili irti verso il cielo, ruote lignee corrose dal tempo, granchi timidi sovrapposti, mandibole animali, un ostensorio con un frammento di pietra d’agata, che è simbolo dell’occhio dell’artista. Ma anche animali imbalsamati e una superlativa Vanitas composta da un teschio dal quale emerge un albero “della vita” ricolmo di farfalle. Ci racconti che valore hanno questi elementi per la tua vita e per la tua pittura?
Le raccolte scelte dal curatore e provenienti dalla mia collezione non vogliono pretendere d’essere una perfetta e filologica ricostruzione di un tesauro o di una Schatzkammer ma elementi sintetici e sinaptici che estroflettono una bulimia nutritiva del mio occhio sulle forme della natura, sono un edonistico pasto atto a far crescere la mia fame visionaria, insaziabile, che rigenera e scaturisce per rimandi sul derma pittorico oppure sulle sculture da me realizzate in questi ultimi anni, dopo un lungo periodo di interruzione in cui non avevo più plasmato la terra.
Sono esposti al Mac di Lissone alcuni esempi di modelli plastici che han preparato grandi sculture. Un bozzetto in ceroplastica, modellato per ripetizione frattale e per innesti, smembrando frammenti di cera e parti anatomiche di una testa. La stessa scultura poi ha generato un dipinto esposto in mostra homunculus, un mostro minerale, una stratificazione geologica, una pittura per sedimentazione, una neoplasia reietta; è la terra che divora la carne dell’abbietto, è un prodigio di cannibalismo parassita. In mostra vengono esposti due gioielli da polso, esempio di mirabilia, in cui sulle fondamenta iconografiche e mitologiche della coppia gemellare dei Dioscuri ne raffigurai la loro vanitas come fossero i resti di un mostro siamese.
Dalla vanitas, il capriccio oltrepassò i confini dell’accessorio da vestizione sotto forma di gemelli da polsino, fu l’occasione di cimentarmi in un lavoro di miniatura orafa di memoria Celliniana in cui due rari frammenti di avorio fossile di Mammut vennero cesellati a foggia di cranio umano incoronato d’oro puro, tratti dai disegni dei radiolari eseguiti da Ernst Haeckel nel suo volume “Kunstformen der Natur”.
La raccolta, per intero e in mostra solo presente in parte, prese avvio nei miei primi anni di lavoro proprio attraverso la raccolta di crani umani e frammenti ossei animali. Sorse un vero e proprio atlante, fra il macabro e il reliquiario, contemporanei erano gli anni di lunghe frequentazioni nei cimiteri ad assistere al disseppellimento dei cadaveri, alla ricerca di trofei ossei annidati tra zolle erbose e sassi. Lessi un testo poetico della Scapigliatura, erano le liriche de “Gli amanti di Bella” di Emilio Praga, dove due amanti che amoreggiano nella natura che pulsa di vita scoprono zolle di viole primaverili che sorgono da crani umani affioranti dal terreno come ambigui tuberi. Sorsero cicli interi di vanitas con innesti arborei, in dialoghi pulsanti fra la staticità della morte e il divenire di polluzioni germinanti.
La testa, il reperto scarnificato da tutti i processi della putredine, diventa resto escrementizio della terra, ridotta a nulla di più di ciò che Goethe definisce erdenrest nel suo “Faust”: il residuo di terra che un corpo lascia cadere.
La testa di Alberto Giacometti conficcata su una picca del 1947 ricorda la violenza delle decapitazioni, è il trofeo estraniato dal corpo e la mia vanitas L’ospite parassita, esposta al Mac di Lissone, ne diventa l’esatto suo palindromo, il suo opposto, un vero e proprio ribaltamento speculare.
Dall’occipite e dal suo foro-varco, memore delle connessioni nervose, sorge un albero totemico dal cui vuoto arido sembra suggere energia a cui i lepidotteri paiono attendere una linfa paradossale, inesistente, un’apparente attesa del nutrimento dal nulla. Il ramo inaridito diventa una perfetta architettura frattale che regge una moltiplicazione parassita di farfalle, una legione difforme, allusione ai differenti linguaggi dell’arte attuale, pronte alla copula, a ogni contaminazione genetica eccetto una, in cima, la farfalla Urania del Madagascar, chiaro omaggio personale alla musa dell’astronomia e della geometria, adagiata in cima sembra dominare la volta della campana di vetro soffiato sopra di lei, di quel piccolo teatro della morte e della vita e dell’effimero che racchiude.

Agostino Arrivabene, L'ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

Agostino Arrivabene, L’ospite parassita, veduta della mostra, MAC, Lissone. Foto: Andrea Parisi

In queste opere tornano spesso i misteri eleusini, Persefone che non mostra mai, o quasi mai, il volto, ce ne vuoi parlare?
Persefone, la polimorfa, si caricava nell’Ade di tutto un mondo visionario e ctonio che manifestava iniziazione e rivelazione volgente all’altra dimensione parallela ed espiatrice. È lei la compagna dei miei continui viaggi tra il mondo terreno e quello dei morti e attraverso lei posso vedere l’invisibile con i miei occhi: lei è la mia ospite parassita o forse lo sono io per lei.

* [Intervista tratta da Espoarte #96]

Agostino Arrivabene è nato nel 1967 a Rivolta d’Adda (CR). Vive e lavora a Gradella di Pandino (CR).
www.agostinoarrivabene.it

Eventi in corso:

IN – Contemporanea. Agostino Arrivabene, Bertozzi & Casoni, Angelo Filomeno
a cura di Stefania Giazzi e Virginia Monteverde
Spazio46, Palazzo Ducale Genova
1 – 30 luglio 2017

Agostino Arrivabene, Hybris
Galleria Giovanni Bonelli, Pietrasanta (LU)
5 agosto – 3 settembre 2017

Galleria di riferimento:
Galleria Giovanni Bonelli, Milano
www.galleriagiovannibonelli.it

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